Nella liturgia dell’Avvento si nota una progressione. Nella prima settimana, la figura di spicco è il profeta Isaia, colui che annuncia da lontano la venuta del Salvatore; nella seconda e terza domenica, la guida è Giovanni Battista, il precursore; nella quarta settimana, l’attenzione si concentra tutta su Maria. Avendo, quest’anno, due sole meditazioni a disposizione, ho pensato di dedicarle a loro due: al Precursore e alla Madre. Nelle iconostasi dei fratelli Ortodossi, i due stanno uno a destra e l’altro a sinistra di Cristo e spesso sono rappresentati come due “uscieri” ai lati della porta che immette nel recinto sacro.
Giovanni Battista, predicatore di conversione
Nei Vangeli, il Precursore ci appare in due ruoli diversi: quello di predicatore di conversione e quello di profeta. Dedico la prima parte della riflessione a Giovanni moralista, la seconda a Giovanni profeta.
Alcuni versetti del Vangelo di Luca sono sufficienti a darci una idea della predicazione del Battista:
Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: “Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione… Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare?”. Rispondeva loro: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: “Maestro, che cosa dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi, che cosa dobbiamo fare?”. Rispose loro: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe” (Lc 3,7-14).
Il Vangelo permette di vedere cosa distingue, su questo punto, la predicazione del Battista da quella di Gesù. Il salto di qualità è espresso nel modo più chiaro dallo stesso Gesú:
La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi. (Lc 16,16)
Dobbiamo guardarci da semplicistiche contrapposizioni tra Legge e Vangelo. Subito dopo l’affermazione appena citata, Gesú (o almeno l’evangelista) aggiunge: “È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge” (Lc 16, 17). Il Vangelo non abolisce la legge, cioè, concretamente, i comandamenti di Dio; ma inaugura una relazione nuova e diversa con essi, un modo nuovo di osservarli.
Ciò che è nuovo è l’ordine tra il comandamento e il dono, cioè tra la legge e la grazia. Alla base della predicazione del Battista c’è l’affermazione: “Convertitevi e così il regno di Dio verrà a voi!”; alla base della predicazione di Gesú c’è l’affermazione: “Convertitevi perché il regno di Dio è venuto a voi!” (Ricordiamo l’affermazione di Gesú appena citata: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi”).
Non è una differenza solo cronologica, come tra un prima e un dopo; si tratta di una differenza anche assiologica, cioè di valore. Vuole dire che non è l’osservanza dei comandamenti che permette al regno di Dio di venire; ma è la venuta del regno di Dio che permette l’osservanza dei comandamenti. Gli uomini non sono improvvisamente cambiati e diventati migliori, sicché il Regno è potuto venire sulla terra. No, essi sono quelli di sempre, ma è Dio che, nella pienezza dei tempi, ha inviato il suo Figlio, dando loro così la possibilità di cambiare e vivere una vita nuova.
“La legge, infatti, fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia [s’intende, di osservarla] viene da Gesú Cristo”, scrive l’evangelista Giovanni (Gv 1,17). Amare Dio con tutto il cuore è “il primo e più grande comandamento”; ma l’ordine dei comandamenti non è il primo ordine, o il primo livello: al di sopra di esso c’è l’ordine del dono: “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1Gv 4,19).
È interessante vedere come questa novità di Cristo si riflette nel diverso atteggiamento del Battista e di Gesú nei confronti dei cosiddetti “peccatori”. Giovanni, abbiamo sentito, investe i peccatori che vanno da lui con parole di fuoco. È Gesú stesso che fa notare la differenza, su questo punto, tra lui e il Precursore: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11, 18-19, cf. Lc 7, 34). “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”, dicevano i farisei ai suoi discepoli (Mt 9,11).
Gesú non aspetta che i peccatori cambino vita per poterli accogliere; ma li accoglie e questo porta i peccatori a cambiare vita. Tutti e quattro i Vangeli –Sinottici e Giovanni – sono unanimi su ciò. Gesú non aspetta che la Samaritana metta in ordine la sua vita privata, prima di intrattenersi con lei e chiederle addirittura di dargli da bere. Ma così facendo ha cambiato il cuore di quella donna che diventa una evangelizzatrice tra la sua gente. La stessa cosa avviene con Zaccheo, con Matteo il pubblicano, e con la peccatrice anonima che gli bacia i piedi in casa di Simone e con l’adultera.
Non possiamo trarre da questi esempi una norma assoluta. (Gesú era Gesú e leggeva nei cuori; noi non siamo Gesú!). La Chiesa non può prescindere, tuttavia, dal suo stile, senza ritrovarsi al fianco di Giovanni Battista, anziché a quello di Cristo. Gesú disapprova il peccato infinitamente di più di quanto possano fare i più rigidi moralisti, ma ha proposto nel Vangelo un rimedio nuovo: non l’allontanamento, ma l’accoglienza. Il cambiamento di vita non è la condizione per accostarsi a Gesú nei Vangeli; deve però essere il risultato (o almeno il proposito) dopo essersi accostati a lui. La misericordia di Dio, infatti, è senza condizioni, ma non è senza conseguenze!
Su questo punto la Santa Madre Chiesa ha molto da imparare dalle madri e dai padri di famiglia di oggi. Conosciamo tutti i drammi che lacerano tanti genitori di oggi: figli che, nonostante il loro buon esempio di vita cristiana e i loro buoni consigli, prendono una strada diversa dalla loro, distruggendo se stessi con droga, abuso del sesso, scelte precoci che si rivelano sbagliate e spesso tragiche…Forse che per questo essi chiudono loro la porta in faccia e li scacciano di casa? Non possono fare altro che rispettare la loro scelta, come la rispetta Dio prima di loro, e continuare ad amarli. Questa situazione drammatica della società si riflette in quella della Chiesa. Siamo chiamati a scegliere tra il modello di Giovanni Battista e il modello di Gesú, tra il dare la preminenza alla legge, o darla alla grazia e alla misericordia.
C’è un punto sul quale non c’è da scegliere, perché Giovanni e Gesú sono perfettamente d’accordo. Su di esso anche noi dovremmo alzare la voce. Si tratta di quello che Giovanni esprime con le parole: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto” (Lc 3,11) e che Gesú inculca con la parabola del ricco epulone e con la descrizione del giudizio finale in Matteo 25.
Giovanni Battista, “più che un profeta”
Adesso passiamo al secondo ruolo, o titolo, di Giovanni Battista. Egli – dicevo – non è solo un moralista e un predicatore di penitenza; è anche e soprattutto un profeta: “Tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo”, dice di lui suo padre Zaccaria (Lc 1,75). Gesù lo definisce addirittura “più che un profeta” (Lc 7,26).
In che senso, potremmo chiederci, Giovanni Battista è un profeta? Dove risiede la profezia nel suo caso? I profeti annunciavano una salvezza futura. Ma Giovanni Battista non annuncia una salvezza futura; egli addita uno che è presente. In che senso allora si può chiamare profeta? Isaia, Geremia, Ezechiele aiutavano il popolo a superare e oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista, aiuta il popolo ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze contrarie. Il Messia tanto atteso, quello annunciato dai profeti, promesso nei Salmi, sarebbe dunque quell’uomo dalle apparenze così dimesse?
È facile credere a qualcosa di grandioso, di divino, quando si prospetta in un futuro indefinito – “in quei giorni”, “negli ultimi giorni”… -, in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la terra che si apre per fare germogliare il Salvatore. Più difficile è quando si deve dire: “Ora! È qui! È questo!” L’uomo è immediatamente tentato di dire: “Tutto qui? “Da Nazareth –dicevano – può venire qualcosa di buono?”
È lo scandalo dell’umiltà di Dio che si rivela “sotto apparenze contrarie”, per confondere l’orgoglio e “la volontà di potenza” degli uomini. Credere che quell’uomo che hanno visto poco prima mangiare, dormire, forse perfino sbadigliare al risveglio, è il Messia, l’atteso da tutti; credere che si è giunti al dunque della storia: questo richiedeva un coraggio profetico più grande di quello di Isaia. Si tratta di un compito sovrumano; si capisce la grandezza del precursore e perché è definito “più che un profeta”.
Tutti e quattro i Vangeli mettono in rilievo la duplice veste di Giovanni Battista, quella di moralista e quella di profeta. Ma mentre i Sinottici insistono di più sulla prima, il Quarto Vangelo insiste di più sulla seconda. Giovanni Battista è l’uomo dell’ “Eccolo!”. “Ecco l’uomo di cui io dissi…Ecco l’Agnello di Dio!” (Gv 1,15.29). Che brivido dovette correre per il corpo di coloro che, con queste o altre parole simili, ricevettero per primi la rivelazione. Era come un corto circuito: passato e futuro, attesa e compimento si toccavano.
Che cosa insegna a noi Giovanni Battista come profeta? Io credo che egli ci ha lasciato in eredità il suo compito profetico. Dicendo: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete!” (Gv 1,26), ha inaugurato la nuova profezia cristiana che non consiste nell’annunciare una salvezza futura, ma nel rivelare una presenza nascosta, la presenza di Cristo nel mondo e nella storia, nello strappare il velo dagli occhi della gente, quasi gridando, con parole che riecheggiano quelle di Isaia: ” Dio ha fatto una cosa nuova. Non ve ne accorgete?” (cf. Is 43,19).
Gesù ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Egli è in mezzo a noi; è nel mondo e il mondo anche oggi, dopo duemila anni, non lo riconosce. C’è una frase di Cristo che ha sempre inquietato i credenti. “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Ma Gesú non parla qui della sua venuta alla fine del mondo. Nei discorsi cosiddetti escatologici, si intrecciano due prospettive: quella della venuta finale di Cristo e quella della sua venuta come risorto e glorificato dal Padre: la sua venuta “con potenza secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione” (Rom 1, 4), come la definisce san Paolo, in contrasto con la venuta precedente “secondo la carne”. È riferendosi a questa venuta secondo lo Spirito, che Gesú può dire: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga” (Mt 24,34).
Quella frase inquietante di Gesú non interpella perciò i nostri posteri, quelli che si troveranno a vivere al momento del suo ritorno finale; interpella i nostri antenati e interpella i nostri contemporanei, noi compresi. Nonostante la sua risurrezione e i prodigi che accompagnarono l’inizio della Chiesa, trovò fede, Gesú, tra i suoi? Nonostante due mila anni della sua presenza nel mondo e tutte le conferme della storia, trova ancora fede sulla terra, specie tra i cosiddetti “intellettuali”? Il compito profetico della Chiesa sarà lo stesso di Giovanni Battista, fino alla fine del mondo: scuotere ogni generazione dalla sua terribile distrazione e cecità che impedisce di riconoscere e vedere la luce del mondo.
Al tempo di Giovanni lo scandalo derivava dal corpo fisico di Gesù; dalla sua carne così simile alla nostra, eccetto il peccato. Anche oggi è il suo corpo, la sua carne a scandalizzare: il suo corpo mistico, la Chiesa, così simile al resto dell’umanità, non escluso neppure il peccato. Come Giovanni Battista fece riconoscere Cristo sotto l’umiltà della carne ai suoi contemporanei, così è necessario oggi farlo riconoscere nella povertà della Chiesa e della nostra stessa vita.
Un’evangelizzazione nuova nel fervore
San Giovanni Paolo II ha caratterizzato la nuova evangelizzazione come un’evangelizzazione – cito – “nuova nel fervore, nuova nei metodi e nuova nelle espressioni”. Giovanni Battista ci è maestro soprattutto nella prima di queste tre cose, il fervore. Egli non è un grande teologo; ha una cristologia assai rudimentale. Non conosce ancora i titoli più alti di Gesù: Figlio di Dio, Verbo, e neppure quello di Figlio dell’uomo.
Usa immagini semplicissime. “Non sono degno –dice- di sciogliergli i legacci dei sandali…“ Ma, nonostante la povertà della sua teologia, come riesce a fare sentire la grandezza e unicità di Cristo! Il mondo e l’umanità appaiono, dalle sue parole, contenuti tutti come dentro un ventilabro, o un vaglio, che egli, il Messia, regge e scuote nelle sue mani. Davanti a lui si decide chi sta e chi cade, chi è grano buono e chi è pula che il vento disperde. Alla maniera di Giovanni Battista, tutti possono essere evangelizzatori!
Commentando le parole di san Giovanni Paolo II che ho ricordato, qualcuno, a suo tempo, fece notare che la nuova evangelizzazione può e deve essere, sì, nuova “nel fervore, nel metodo e nell’espressione”, ma non nei contenuti che restano quelli di sempre e che derivano dalla rivelazione. In altre parole: che ci può e deve essere una nuova evangelizzazione, ma non un nuovo Vangelo.
Tutto ciò è vero. Non ci possono essere contenuti veramente e totalmente nuovi. Ci possono, però, essere contenuti nuovi, nel senso che in passato non erano messi abbastanza in luce, che erano rimasti nell’ombra, poco valorizzati. San Gregorio Magno diceva: “Scriptura cum legentibus crescit” (Moralia in Job, 20, 1, 1), la Scrittura cresce con chi la legge. E in un altro passo spiega anche il perché. “Infatti –dice- uno comprende [le Scritture] tanto più profondamente quanto più profonda è l’attenzione che ad essi rivolge” (Hom in Ez. I, 7,8). Questa crescita si realizza anzitutto a livello personale nella crescita in santità; ma si realizza anche a livello universale, a misura che la Chiesa avanza nella storia.
Quello che rende così difficile talvolta accettare la “crescita” di cui parla Gregorio Magno, è la scarsa attenzione che si dà alla storia dello sviluppo della dottrina cristiana dalle origini ad oggi, o una conoscenza assai superficiale di essa. Tale storia dimostra, infatti, che la crescita c’è sempre stata, come dimostrò in un suo famoso saggio il cardinale John Newman.
La Rivelazione –Scrittura e Tradizione insieme – cresce a seconda delle istanze e provocazioni che le sono poste nel corso della storia. Gesú ha promesso agli apostoli che il Paraclito li avrebbe guidati “alla verità tutta intera” (Gv 16, 13), ma non ha precisato in quanto tempo: se in una o due generazioni, o, invece – come tutto sembra indicare – per tutto il tempo che la Chiesa è pellegrina sulla terra.
La predicazione di Giovanni Battista ci offre l’occasione per una osservazione attuale e importante proprio a proposito di questa “crescita” della parola di Dio che lo Spirito Santo opera nella storia. La tradizione liturgica e teologica ha raccolto, di lui, soprattutto il grido: “Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!”. La Liturgia ce lo ripropone a ogni Messa prima della comunione, dopo che per ben tre volte il popolo ha cantato per conto suo: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”.
In realtà, però, questa è solo metà della profezia del Battista su Cristo. Egli definisce il Cristo, quasi d’un sol fiato, e in tutti e quattro i Vangeli, come colui “che battezza in Spirito Santo!” (cf. Gv 1,33; cf. Mt 3,11). La salvezza cristiana non è, dunque, solo qualcosa di negativo, un “togliere il peccato”. È soprattutto qualcosa di positivo: è un “dare”, un infondere vita nuova, vita dello Spirito. È una rinascita.
La distruzione del peccato appare la via e la condizione per il dono dello Spirito che è lo scopo ultimo, il dono supremo. Il capitolo terzo della Lettera ai Romani sulla giustificazione dell’empio, non deve mai essere disgiunto dal capitolo ottavo sul dono dello Spirito, con quel messaggio liberante che dovrebbe risuonare più spesso nella nostra predicazione: “Non c’è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesú, poiché la legge dello Spirito che dà la vita in Cristo Gesú ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-2).
Certo, questo aspetto positivo non è stato mai dimenticato. Ma forse non sempre si è insistito abbastanza su di esso. Abbiamo corso il rischio, nella spiritualità occidentale, di vedere il cristianesimo, soprattutto in chiave “negativa”, come la soluzione del problema del peccato originale; come qualcosa, perciò, di tetro e di deprimente. Si spiega così, almeno in parte, il suo rigetto da parte di larghi settori della cultura, come quelli rappresentati, in filosofia, da Nietzsche e, in letteratura, dal drammaturgo norvegese Ibsen. La maggiore attenzione all’azione dello Spirito Santo e ai suoi carismi che da qualche tempo è in atto in tutte le Chiese cristiane è un esempio concreto della Scrittura che “cresce con chi la legge”.
I santi amano continuare, dal cielo, la missione che svolsero da vivi sulla terra. Santa Teresa di Gesù Bambino – di cui ricorre quest’anno il 150o anniversario della nascita – pose ciò come una specie di condizione a Dio per andare in cielo. San Giovanni Battista ama, anche lui, fare ancora il precursore di Cristo, ama preparargli le strade. Prestiamogli la nostra voce!
Contemplando, nella Deesis, l’icona del Precursore con le mani protese verso il Cristo e lo sguardo supplice, la Chiesa Ortodossa rivolge a lui questa preghiera che possiamo fare nostra:
Quella mano che ha toccato il capo del Signore e con la quale ci hai indicato il Salvatore, stendila ora, o Battista, verso di lui in nostro favore, in virtù di quella sicurezza di cui godi largamente, poiché, secondo la sua stessa testimonianza, tu fosti il più grande di tutti i profeti; gli occhi che hanno visto lo Spirito Santo disceso in forma di colomba, volgili a lui, o Battista affinché egli ci manifesti la sua grazia.