È divenuto quasi un luogo comune – quando si parla del tempo – citare una battuta delle Confessioni di sant’Agostino (che al tema ha dedicato proprio in quel libro pagine acute e interessanti): «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più!».
È per questo che si sono moltiplicate all’infinito le definizioni di questa realtà che scandisce la storia esterna a noi ma che batte intimamente anche dentro di noi: illuminante è al riguardo la distinzione greca tra chrónos, che è il tempo ‘cronologico’, convenzionale, esterno a noi, e kairós, cioè il tempo esistenziale, personale, colmo di eventi, emozioni e pensieri (un’ora di una noiosa conferenza e un’ora con la persona amata hanno un identico chrónos ma un ben diverso kairós!).
Il tempo, «quel vile avversario», come lo chiamava il poeta Paul Valéry, è dunque la realtà più decisiva per definire il nostro essere materiale ma anche il nostro esistere interiore, è «la sostanza di cui sono fatto», come diceva Jorge Luis Borges che, nell’opera Altre inquisizioni (1952), così continuava: «Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è la tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è il fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco ». Il tempo è, sì, fiume, tigre e fuoco ma non è un nemico esterno a me, è in me, nel mio intimo, nel mio essere creatura fragile e finita.
Gramsci nelle Lettere dal carcere lo definiva «un semplice pseudonimo della vita»; è l’essenza dell’esistenza, è sempre in noi, qualcosa di noi. Per questo facciamo di tutto per ignorarlo; il ticchettio di un orologio ci toglie il sonno ma, in realtà, dovrebbe toglierci di dosso la superficialità, le meschinità e farci pensare più spesso alle parole di Cristo: «Tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate» (Luca 12,40).
La Bibbia ha una sua teologia ben strutturata riguardo al tempo e non si accontenta di una contemplazione stupita del ritmo stagionale e secolare o del flusso dell’esistere umano. Certo, individuare un filo costante di riflessione sul senso del tempo e della storia non è facile, ben sapendo la pluralità delle presenze all’interno dell’Antico e Nuovo Testamento. Il punto di partenza è nell’individuare una caratteristica fondamentale della religione biblica, la sua ‘storicità’.
Dio non rimane relegato nei cieli luminosi dell’infinito e dell’eterno, ma decide di incamminarsi per le strade polverose della storia umana e dello spazio terreno. Emblematica è la celebre frase che è incastonata in quel capolavoro teologico e letterario che è l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: ho Logos sarx eghéneto, il Verbo, la Parola divina che era «in principio», che era «presso Dio», anzi che era Dio, si intreccia intimamente con la sarx, cioè con la «carne», la fragilità, il limite temporale e spaziale dell’umanità.
La storia, allora, per la Bibbia è la sede delle epifanie divine: non per nulla il cosiddetto «Credo storico» di Israele è tutto ritmato non su definizioni astratte e ‘teologiche’ di Dio ma sulle sue azioni sperimentabili nelle vicende del popolo ebraico: la chiamata dei Patriarchi, la liberazione nell’esodo dalla schiavitù faraonica, il dono della terra promessa (si leggano, ad esempio, il Salmo 136 o Giosuè 24). Come ha intuito Chagall nei suoi dipinti, si può incrociare Dio appena svoltato l’angolo della casa, all’interno del modesto villaggio ebraico; gli angeli entrano ed escono dai comignoli delle case e nell’amore di una coppia si intravedono i simbolismi celebrati dal Cantico dei cantici.
In questa luce tempo ed eterno si annodano tra loro, pur essendo così differenti tra loro. Certo, noi che guardiamo o viviamo nella prospettiva del tempo sentiamo ancora remota la pienezza dell’eternità. Non per nulla Paolo nella Lettera ai Romani (8,18-27) usa immagini di parto, di attesa, di tensione impaziente perché il nostro tempo è ‘pesante’, segnato dal male e scandito dal dolore e dalla morte.
Gesù ricorrerà al simbolo del seme di senape che è piccolo e sepolto dalla terra e che deve vivere una lunga avventura prima di crescere in albero frondoso. Il Regno di Dio è già «in mezzo a noi», si dice nei Vangeli, ma Dio non è ancora «tutto in tutti», come proclama Paolo e non si è ancora raggiunta la promessa dell’Apocalisse secondo la quale «la morte non ci sarà più» (21, 4).
Tuttavia se ci poniamo dall’angolo di visuale di Dio, cioè nell’eternità, non si ha – come accade a noi che siamo nel tempo – un ‘prima’ e un ‘dopo’. Tutto è contratto e condensato in un punto, in un istante, in un evento unico e compiuto. In esso c’è già la pienezza di quel seme, c’è la meta di quell’attesa, ci sono già la salvezza e il giudizio, la morte e la risurrezione, come dichiara Gesù in quella notte a Nicodemo: «Chiunque crede nel Figlio dell’uomo ha già la vita eterna» (Gv 3,15). Con l’Incarnazione si ha un’unione intima tra due realtà antitetiche, il tempo e l’eterno.
Già l’Antico Testamento, presentando una Rivelazione divina innervata nella storia e una religiosità che invitava a non decollare dall’orizzonte terreno verso cieli mitici e mistici per incontrare Dio e la sua salvezza, aveva preparato l’ingresso di Cristo nel mondo. L’Incarnazione del Figlio di Dio è, quindi, coerente con l’annunzio dei profeti di Israele e rende il tempo e lo spazio irradiati dall’eterno e dall’infinito. È questo il senso della risurrezione finale. Essa è una ri-creazione trasfigurata, è l’introduzione dell’essere creato in un orizzonte senza fine e senza limiti.
Per scoprire e sentir pulsare questo abbraccio del tempo con l’eternità è necessario avere un canale di conoscenza superiore, cioè la visione della fede che sa perforare la pellicola del flusso temporale per cogliervi sotteso l’istante perfetto e supremo dell’eterno divino. È ciò che esprime in modo intenso e denso il grande Thomas S. Eliot nei suoi Quattro Quartetti: «Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno/ e il tempo è un’occupazione da santo».