Emmanuel Abayisenga, rifugiato ruandese in Francia, è l’uomo che un anno fa aveva dato fuoco alla cattedrale di Nantes, di cui era il custode. Sofferente di gravi turbe psichiatriche, era uscito in libertà vigilata. Uno straniero dalla pelle nera, con una storia simile alle spalle, inseguito dalle sue allucinazioni, uno che spaventava magari anche chi, per strada, voleva fargli la carità: un intoccabile, insomma, nella Francia sgomenta del Covid. Tuttavia padre Olivier Maire, dei Missionari di Montfort , lo aveva accolto nella casa della Congregazione, a Saint-Laurent-sur-Sèvre, in Vandea. Nella sua casa, a dormire e a mangiare: aveva preso con sé quel ruandese ancora giovane, che aveva 13 anni all’epoca del genocidio, e chissà cosa in testa, e nella memoria, quando i suoi occhi d’improvviso si facevano vuoti.
Padre Olivier è stato assassinato ieri da Abaysenga, nella casa in cui lo ospitava. Aveva 60 anni Olivier, i capelli grigi, dietro gli occhiali uno sguardo gentile. Era generoso e buono, confermano i suoi confratelli, e chi lo conosceva, e il suo vescovo. Anche il presidente Macron gli rende omaggio: a nome della Francia intera. Ma ad aprire la porta e ad aspettare a cena quel nero inseguito dai suoi fantasmi, quell’intoccabile, fino all’altro ieri c’era solo padre Olivier, con i suoi confratelli. Aveva messo in conto, il sacerdote, che la follia avesse la meglio, che l’ospite potesse rivoltarsi contro di lui? Probabilmente sì. Un missionario sessantenne non può essere ingenuo. Ma non aveva esitato. Profugo, folle, pregiudicato: per padre Olivier proprio quel volto evitato da tutti era il volto con cui Cristo gli si presentava. «Ha vissuto la sequela di Cristo fino alla fine, nell’ accoglienza incondizionata di chiunque», ha detto il presidente dei vescovi francesi, monsignor De Moulins-Beaufort.
Viene in mente don Roberto Malgesini, il sacerdote ucciso a Como l’anno scorso in circostanze quasi identiche, da uno cui faceva la carità, uno squilibrato cui pochi si avvicinavano. Ucciso da uno fra le centinaia che ogni giorno accoglieva, che ogni sera inseguiva, nell’ora in cui tutti ormai sono nelle loro case, per offrire cibo, o una coperta. Papa Francesco ha ringraziato Dio per la sua testimonianza, «per il martirio di questo testimone della carità verso i più poveri». E non gli è bastato: ha voluto incontrare i vecchi genitori di quel prete venuto dalla Valtellina, e ha baciato le loro mani. Le mani di chi aveva donato un figlio così. Anche il sacerdote francese è caduto sotto ai colpi di un uomo che aveva sfamato e abbracciato. Uno che nessuno voleva. Nel clamore e nel timore del Covid, nella festa delle Olimpiadi, nella corsa alle vacanze, un angolo di silenzio per questo prete, capace di una misericordia che ricorda quella narrata da Hugo ne ‘I miserabili’. Testimonianze cristiane, ancora, profonde come ferite, e che come ferite sanguinano. In Vandea, questa volta. (Nei libri di scuola, ti ricordi, c’erano appena dieci righe dedicate ai massacri dei cattolici fedeli al Papa da parte dell’esercito della Rivoluzione, anno 1793: eccidio di uomini, e donne, e bambini.
Chissà, ti domandi, quante ce ne saranno nei libri dei nostri nipoti, sul genocidio del Ruanda. Singolare come in questo dramma del 2021 si intreccino due regioni del mondo in cui la terra ancora nasconde gremite fosse comuni. La ferocia ‘illuminata’ della Rivoluzione, la ferocia ‘primitiva’ degli Hutu contro i Tutsi. La Chiesa vittima di stragi, la Chiesa teatro di stragi. Chissà, quell’Emmanuel, a tredici anni cosa aveva visto). Storie di un prossimo, o remoto passato.
Ma la disperazione e la carità cristiana continuano a incontrarsi, come inevitabilmente. La disperazione bussa, e a volte ha una faccia che fa paura. Tuttavia qualcuno, ostinato, apre la porta, senza far domande. Memore che Cristo si nasconde nel volto degli ultimi. E se, poi, la carità dovesse costare la vita? Uomini di Dio come Malgesini, come padre Olivier lo mettono nel conto. Nel conto di una vita spesa, fino in fondo.