La nostra recensione del romanzo di Mario Desiati, che si è aggiudicato la 76esima edizione del premio letterario sbaragliando gli avversari in finale: «Berrò il liquore nella mia terra, la Puglia, come dedica a due scrittori: Mariateresa Di Lascia e il mio amico Alessandro Leogrande»
All’uscita del libro Antonio Sanfrancesco lo aveva recensito sulle pagine di Famiglia Cristiana definendolo bello (4 stelle).
La lingua ha questo di bello: venire a patti con quel che siamo, cercare di addomesticarlo dandogli un nome perché faccia meno paura. Spatriati è una di queste parole. È il titolo dell’ultimo romanzo di Mario Desiati e nel dialetto di Martina Franca, nella Valle d’Itria, luogo d’origine dello scrittore, significa sparpagliato, disperso, incerto, irregolare, perennemente fuori posto. Non è un trasgressivo che vive ai margini per scelta ma un uomo che, lo riconosca o meno, è un “non tutto”, secondo la definizione dello psicanalista francese Lacan. Attraverso la storia di Claudia e Francesco, il loro legame ambiguo, l’infanzia in una Puglia che cambia rapidamente volto, le avventure a Londra e a Berlino, Desiati, come solo i grandi scrittori sanno fare, tratteggia il ritratto di quell’animale strano che è l’uomo, un groviglio abitato dal bisogno, che sa come soddisfare, e dal desiderio che non sa definire perché è sconcertante e irriducibile ancorché essenziale e ritornante nella sua esperienza. Le peripezie dei due protagonisti e della generazione che rappresentano sono un tentativo sempre precario e maldestro di colmare questo vuoto, chiudere il cerchio, diventare, da spatriati, uomini compiuti e realizzati. Se non per sé stessi, almeno agli occhi degli altri, il tribunale supremo di cui tutti temiamo il giudizio. L’autore, attraverso immagini vivide della sua terra e con una serie di riferimenti letterari, da Maria Corti a Rina Durante, dalla giovane poetessa Claudia Ruggeri al sociologo Franco Cassano, racconta questo tentativo con una lingua dolcissima, quando fa dire a Francesco che «quel nostro amore era la calce con cui avevamo nutrito la speranza della felicità, la più illusoria e menzognera forma di dipendenza umana». Il loro legame, mai sazio e definito e sempre sfuggente, esattamente come il desiderio, è paragonato ai muri di pietra della Puglia che gli “allattatori” nutrono con la calce e sono chiamati così perché somigliano alle madri che danno il latte ai figli. Spatriati è anche un avvertimento sulle radici che si possono conservare solo partecipando attivamente all’esistenza di una comunità. Quella che Desiati racconta magistralmente è fatta anche di una religiosità che s’incarna nel cattolicesimo scenografico e ancestrale del Sud, con le sue processioni e i suoi riti capaci di creare un legame nel tempo che ci protegge dal caos