Storia d’amore in affido
«La storia della nostra famiglia è comune a tante altre famiglie che abbiamo conosciuto, incontrato nel nostro cammino. È la storia di una coppia che desiderava avere dei figli ma che, a un certo punto, ha capito che non poteva averne. Allora abbiamo prima seguito un lungo e travagliato percorso che ci ha portato a un decreto adottivo aperto all’accoglienza anche di più minori. Poi, mentre seguivamo questo percorso, abbiamo scoperto che cos’è l’affido: ci è piaciuto molto per il suo essere temporaneo e significativo allo stesso tempo per i minori che entrano in famiglia; alla fine, nonostante il risultato del decreto adottivo raggiunto, abbiamo deciso di abbandonare la strada dell’adozione e di aprirci con cuore e testa all’affido». Carlo, Elisa e il piccolo Francesco (nomi di fantasia, ndr) rappresentano una delle 13.200 famiglie italiane che hanno scelto di avere in affido un bambino.
Prima di inoltrarci però nella loro storia è importante comprendere la differenza tra affido preadottivo e affido: necessario ricordarlo perché molte volte si confondono nell’immaginario collettivo. L’affido preadottivo è una fase iniziale dell’adozione, di convivenza tra il minore e i genitori adottivi che dovrebbe portare all’adozione. L’affido familiare, invece, è l’accoglienza temporanea di un minore che ha alle sue spalle una famiglia biologica che per diversi motivi si trova temporaneamente in difficoltà ad accudire il proprio figlio. L’ultimo rapporto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (2021) evidenzia che la fascia d’età prevalente dei bambini-adolescenti in affidamento è quella tra gli 11 e i 14 anni (29,8 per cento); a seguire, quella tra i 15 e i 17 anni (27,5); molto più basse risultano le percentuali riscontrabili tra i piccoli di 3-5 anni (10,2 per cento) e i piccolissimi di 0-2 anni (4,5).
Francesco, quando è entrato nella famiglia di Carlo ed Elisa, quattro anni fa, aveva 2 anni e mezzo: un bambino vivace, pieno di energie, sempre alla ricerca di avventure. È giunto in casa della coppia poco dopo il lockdown per l’emergenza sanitaria covid-19; doveva arrivare prima, Francesco, ma la pandemia ha ritardato il momento tanto atteso. In questo periodo così particolare ecco che la loro creatività genitoriale riesce a trasformare l’attesa in un periodo proficuo per essi e per il bambino. Carlo ed Elisa riescono a comunicare con il piccolo Francesco grazie alle videochiamate: «Per poter cominciare a gettare un ponte fra noi e lui ci siamo inventati diversi modi di comunicazione; protagonista di questo avvicinamento è stato un papero di peluche che animavamo davanti allo schermo del telefonino. Così facendo, un periodo che poteva diventare infernale si è rivelato invece assai costruttivo». Poi, finalmente, Francesco entra in casa. Elisa dichiara: «Ripensiamo spesso alla prima volta in cui ci siamo incontrati. È un ricordo colmo di un mix di emozioni molto intense: vi era in noi tutto l’entusiasmo di iniziare questo cammino un po’ pazzo ma tanto sentito e cercato; di scoprire chi fosse, come fosse, questo esserino speciale che avremmo accolto nella nostra famiglia, ma c’era anche la preoccupazione di aver cura di lui nel miglior modo possibile, di essere accorti, competenti, delicati nell’entrare nella sua vita».
Poi, finalmente, l’incontro: due vite prima separate s’intrecciano, si fondono in un unicum d’amore. Molto spesso si ha l’idea che è il bambino o l’adolescente a doversi affidare, mentre il più delle volte sono proprio i genitori affidatari a dover imparare ad affidarsi. È un po’ l’ossimoro della vita. Ma cosa significa avere in affido un bambino? «Vuol dire tante cose», commenta Elisa. Le responsabilità si alternano ai sentimenti: «Vuol dire accompagnarlo per il tempo in cui sarà affidato a noi; accogliere la sua storia e insieme a lui la storia della sua famiglia di origine; aiutarlo a rimarginare le ferite. Ma soprattutto vuol dire essere genitori amorevoli, nella vita quotidiana: regalargli il calore e l’amore di una famiglia».
È un percorso non facile quello dell’affido, per questo coadiuvato anche da alcune istituzioni come l’Ai.Bi. (Associazione Amici dei Bambini), organizzazione non governativa nata nel 1986 che lavora ogni giorno al fianco dei piccoli ospiti negli istituti di tutto il mondo per combattere l’emergenza abbandono, accompagnando molte famiglie nel percorso di affido e di adozione. Opera in Italia con una sede nazionale e venticinque tra sedi regionali e punti informativi in tutte le regioni; nel mondo è presente in una trentina di paesi, in Europa dell’Est, America, Africa e Asia. Elisa ci spiega che «è indispensabile il supporto di tutta l’equipe di Ai.Bi., specialmente di educatori e psicologi, insieme alla rete di altri genitori affidatari di Ai.Bi. con i quali ci confrontiamo proficuamente sulle possibili problematiche di crescita di Francesco; problematiche che in un certo senso sono quelle di un qualsiasi bambino in fase di sviluppo. Certo, vista la particolare situazione, a volte ci siamo dovuti confrontare anche con alcune questioni non proprio canoniche». Come a esempio quando il piccolo Francesco, all’inizio della convivenza con i suoi nuovi genitori, assetato di attenzione, durante l’immancabile uscita al parco, si “infilava” «nelle altre famiglie perché era attratto più dagli adulti che dagli altri bambini». Cercava le mani degli altri genitori, cercava il loro affetto. Poi — continua la nostra interlocutrice — «negli anni ha capito che ci siamo noi per lui»: si è creato un legame speciale e Francesco «ha acquisito una maggiore tranquillità e il vederlo autonomo è una doppia conquista perché non significa solo che sta crescendo bene ma che si sente sicuro sapendo di poter contare su di noi».
Ed è su Carlo ed Elisa che Francesco dovrà molto probabilmente contare fino all’età di 18 anni: questo è il tempo attualmente previsto del loro affido scandito da rinnovi biennali. Viene allora naturale domandare ai genitori come vedono Francesco una volta raggiunta la maggiore età: «Immaginarlo oggi a 18 anni è difficile. Noi speriamo semplicemente per lui che possa incanalare al meglio le sue potenzialità e diventare una bella persona».
di ANTONIO TARALLO