La proposta alla vita santa per Alfonso è per tutti: laici e religiosi. Per il vescovo di Sant’Agata la santità è una rivalutazione della dignità dell’uomo, un dovere per ogni battezzato.
La vita laicale dei tempi di sant’Alfonso veniva considerata mediocre, regolata solo dai dieci comandamenti, dai precetti della Chiesa e dai doveri del proprio stato, mentre la vita religiosa doveva essere generosa con il traguardo della santità, regolata per lo più dai consigli evangelici di povertà, castità, obbedienza. Per Alfonso era chiaro che la vita morale-spirituale non poteva essere disgiunta dalla vita pratica. Egli, perciò, ricupera una fondamentale unità della vita cristiana, basata sull’amore di Cristo Gesù all’uomo. Egli elabora un concetto di vita morale e pastorale per tutti, ponendo come principio la chiamata universale alla santità, non riservata solo a pochi, ma proposta ad ogni cristiano.
Un’affermazione di fondo è che la santità è alla portata di tutti. Scriverà nella Selva di materie predicabili (1760): «Dio vuol salvi tutti, ma non per le stesse vie. Siccome in cielo ha distinto diversi gradi di gloria, così in terra ha stabiliti diversi stati di vita, come tante vie diverse per andare al cielo».
Questa idea e proposta cristiana sfocerà nella convinzione, codificata nel best seller della spiritualità settecentesca, La pratica di amar Gesù Cristo (1768), il cui titolo dice quanto Alfonso abbia agito per proporre la santità come strada per tutti concretizzata nell’amare Gesù Cristo.
La sua è una visione realizzabile non una teoria sulle nubi. Da qui l’incipit: «Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore»; per poi concludere: «Iddio vuol tutti santi, e ognuno nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato».
Alfonso è uno dei quei santi che ci accompagna e ci incoraggia, secondo l’espressione di Papa Francesco nella Gaudete et Exultate. Ci incoraggia alla vita concreta, all’amore pratico a Gesù Cristo e alla Chiesa, ci accompagna con il suo esempio e la sua laboriosità e praticità. A cinquant’anni dalla sua proclamazione a dottore della Chiesa (1871), Benedetto XV nel luglio 1921 ebbe a scrivere del santo: «[Sant’Alfonso] è utile non solo a quelli che studiano o insegnano, ma anche ai fedeli di ogni categoria, nel dimostrare ed appianare la strada che conduce alle solide virtù ed alla perfeziona cristiana».
Nel 1796 fu stampato per i tipi di Remondini di Venezia il Dizionario storico degli uomini illustri; alla voce Liguori si legge: «Fu un uomo apostolico, un modello di santità, e dottrina ai vescovi, ed uno de’ più forti sostenitori della sana, e pratica morale […]. Scrisse più libri pei dotti, e per gli ignoranti, per gli scolari, pei religiosi, per i claustrali, pei seminari, e pei vescovi, per gl’increduli, e fin pei regnanti».
Nominato vescovo di Sant’Agata, per obbedienza a Clemente XIII nel 1762 prima fece avere la sua rinuncia, poi visto che il Papa non ne voleva sapere l’accettò dicendo: «Questa è la volontà di Dio […] Gloria Patri! Dio mi vuole vescovo, ed io voglio esser vescovo».
Per l’equipaggiamento vescovile lo portarono a Napoli; Alfonso non ne era entusiasta a quanti gli facevano notare che il vescovo doveva avere una carrozza con livrea, bonariamente rispondeva: «Se per ubbidienza ho accettato il vescovato debbo imitare i santi vescovi, e non mi state a dire carrozze e livree. Che ho da andare facendo il bagascio per Napoli».
A Roma per la consacrazione episcopale Alfonso ebbe la gioia di parlare più volte con Clemente XIII, tra le altre cose il Papa chiese consigli circa la situazione del regno di Napoli. Sappiamo che la conversazione cadde sulla questione della comunione frequente e dell’attacco a opera di Cipriano Aristasio alias don Gennaro Andolfi. Sant’Alfonso prese la cosa così a cuore che non perse tempo di preparare una risposta apologetica in cui confutò l’Adinolfi. Per documentarsi nel maggio del 1762 andò nella Biblioteca apostolica vaticana e a oggi rimane l’unico dottore della Chiesa ad avervi messo piede.
Prima della consacrazione episcopale Alfonso dovette affrontare un esame di “dottorato” con una commissione di cardinali presieduta dal Pontefice nel palazzo del Quirinale. Alla domanda se fosse bene aspirare all’episcopato egli faceva finta di non sentire. Alla fine dell’esame era prassi fare un ringraziamento al vescovo di Roma. Alfonso, candido candido disse poche parole: «Beatissimo Padre, giacché vi siete degnato di farmi vescovo, pregate Iddio che non mi perda l’Anima».
Prima che ripartisse da Roma per l’impegno pastorale nella diocesi di Sant’Agata dei Goti, Clemente XIII lo volle ancora con sé per parlagli; non pochi curiali misero in giro la voce che l’avrebbe fatto cardinale. Il biografo Tannoia ha lasciato scritto: «L’ultima volta, che fu per licenziarsi dal Papa (ed avevalo voluto da sei a sette volte) sopraffatto si vide da maggior finezza. Il Santo Padre non sapeva disfarsi di Alfonso, ed Alfonso supplicò il Papa averlo presente innanzi a Dio coi bisogni della sua diocesi […]. Il papa istesso non finiva di encomiare la di lui virtù […]. Mons. Mastrilli arcivescovo di Bettelemme, che fu uomo che assistette alla consacrazione episcopale, attestò che il Papa parlandone con alcuni cardinali disse: Nella morte di Monsignor Liguori avremo un altro santo nella Chiesa di Gesù Cristo».
Infatti egli fu un pastore esemplare, pieno di zelo, aperto, disponibile, un vero evangelizzatore, vescovo con l’odore delle pecore. Dalla lettura delle carte per il processo di beatificazione emerge come la sua azione pastorale fu in favore della perfezione della vita santa. Fondò monasteri e luoghi di ritiro per le persone in pericolo (spirituale). Procurava parroci dotti e santi per la cura delle anime, s’informava minutamente circa i costumi dei suoi diocesani. Nelle visite alla diocesi cavalcava un somaro; sempre predicava, istruiva i fanciulli, visitava gli ammalati. Le due gemme che più risplendettero sulla sua mitra pastorale furono lo zelo della salute delle anime e l’amore sviscerato verso i poveri.
Di questa attenzione ai poveri abbiamo una deposizione giurata di don Matteo Migliore, parroco di San Nicola Magno, fatta al processo di beatificazione: «[Il servo di Dio] aveva amore per li poveri, facendo loro delle frequenti limosine, e soccorrendo ad altri loro bisogni particolari, come provvedere zitelle, che passavano a maritaggio, di sacconi, di lenzuola e rilasciando pure li diritti della curia a taluni poveri con fedi di povertà fatte da’ parrochi».
L’agire del santo napoletano, il simpatico santo, — come lo chiamava Benedetto Croce — diventa motivo di gioia e gratitudine nel ribadire ciò che Papa Francesco si sforza di dirci con la sua vita: ovvero che la santità non è qualcosa di astratto, essa o si incarna nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità, oppure diventa uno slogan zuccheroso che niente a che fare con la vita cristiana.
di Mario Colavita