Tutta la vita di Vittorio Bachelet ci offre la testimonianza esemplare di un credente capace di abitare in maniera significativa il proprio tempo: nella dimensione familiare così come in quella ecclesiale, in quella politica come in quella culturale. Spazi in cui Bachelet seppe mettere in gioco la propria fede a servizio della costruzione di una società più fraterna, più giusta, più umana. Traducendo in scelte precise e in uno stile di vita mite e generoso una fede profonda, asciutta, vissuta non come insieme inscalfibile di certezze e di risposte per ogni situazione ma come fiducia, affidamento e consegna di se stesso. Nella certezza che la storia è storia di salvezza.
«Per costruire ci vuole la speranza», disse nel 1973, al momento di lasciare la presidenza generale dell’Azione Cattolica Italiana. «In fondo io penso — continuava — che noi dovremmo riflettere molto le grandi parole che diceva [Papa] Giovanni all’inizio del Concilio: “Ci sono quelli che vedono sempre che tutto va male, e invece noi pensiamo che ci siano tante cose valide, positive”. Noi dobbiamo tenerlo fermo come atteggiamento di speranza, che ci consente di vincere anche queste ombre, di vincere anche questi rischi, di vincere il male con il bene. E questo vale anche nella vita della società. (…) anche qui, se ci saranno situazioni difficili (e ci saranno probabilmente anche qui delle situazioni difficili), dobbiamo sempre tenere presente una fiducia fondamentale, che non è quella nelle nostre forze o in formulette, ma è quella nell’aiuto finale di Dio e nella capacità che avremo, se fideremo in Lui, di volgere le cose al bene».
È da questo atteggiamento di fondo che possiamo ricavare il cuore della lezione di Bachelet per i credenti di oggi, e in modo particolare per i credenti laici, chiamati a spendere i propri talenti sul terreno non facile dell’impegno sociale e politico. È nota, in questo senso, l’immagine utilizzata da Paolo VI, Papa che tanto stimava Vittorio e che Vittorio tanto amava: «i nostri laici», diceva, «fanno da ponte. E ciò non già per assicurare alla Chiesa un’ingerenza (…), ma per non lasciare il nostro mondo terreno privo del messaggio della salvezza cristiana». Un’immagine di cui proprio Bachelet colse tutta la forza, quando ricordava che «per essere “ponte” bisogna essere saldamente cristiani e vigorosamente uomini del nostro tempo; non per subirne quanto vi è di corruzione, ma per viverne con linearità, con fortezza, ma con animo aperto la ricchezza di esperienza. Bisogna essere in entrambe le comunità vivi, attivi e responsabili. Giacché come ogni ponte, il laico è sottoposto alla tensione della grande arcata».
È questa la dinamica peculiare che sperimentano i credenti che si pongono a servizio del proprio tempo: la condizione di una continua “tensione”, un continuo inarcamento tra contesti, esperienze, spinte spesso tra loro contrapposte, frammentate e divergenti. Nella consapevolezza che il bene per il quale si è chiamati a spendere senza risparmio tutti i propri talenti, le proprie energie e la propria coscienza formata sarà sempre un bene parziale, inadeguato, relativo.
È proprio prendendo le mosse da questo snodo decisivo che Bachelet indicava nell’acquisizione di un profondo senso del significato della storia la condizione indispensabile per poter agire dentro il mondo da credenti. Egli era convinto, infatti, che mettere la propria fede a servizio del bene possibile comportasse sì la necessità di educarsi «a una lineare aderenza agli essenziali immutabili principi», ma che occorresse «in pari tempo» formarsi e formare ciascuno «al senso storico, alla capacità cioè di cogliere il modo nel quale quei principi possono e debbono trovare applicazione». «Se non si distinguono con chiarezza i valori perenni e immutabili del bene comune dai suoi mutevoli contenuti storici», ammoniva infatti Bachelet con lucidità, «si rischia che dall’inevitabile mutare dei secondi finiscano per apparire travolti anche i primi».
Un modo di concepire il rapporto tra fede e storia per nulla scontato, all’epoca come oggi. Ma è proprio qui che si colloca la radice più profonda della lezione che Bachelet ci ha lasciato e che suona tanto più preziosa per i tempi in cui viviamo. Il nostro tempo, infatti, sembra se possibile ancor più sfidante per la fede di quello in cui visse Vittorio. Le grandi trasformazioni dentro cui siamo immersi interpellano i credenti, con cambiamenti che aprono possibilità inedite ed entusiasmanti, ma dischiudono anche rischi finora forse solo immaginati dalla letteratura e dai grandi miti antichi. Trasformazioni enormi sotto il profilo culturale, economico, geopolitico, ambientale, interrogano la nostra fede, esponendoci alla tentazione di fare di essa una barriera dietro cui trincerarci per difenderci dalle vicende del nostro tempo e, in particolare, dal confronto che esso ci impone con chi può apparire come una minaccia, perché portatore di valori, tradizioni, visioni dell’uomo differenti dalle nostre. Finendo, così, per perdere di vista il nucleo stesso della nostra fede, che ci impone di vedere in chi è diverso da noi il volto del fratello, e non del nemico.
Già molto tempo fa Bachelet vedeva bene questo pericolo. «Oggi è di moda l’integralesimo», scriveva appena ventunenne: «Umanesimo integrale, cristianesimo integrale (…). E fin qui non possiamo che esser d’accordo. Il guaio comincia quando dalle parole si passa ai fatti. (…) Succede allora, per esempio, che invece di essere il cristianesimo a regolare in pieno ogni atteggiamento della nostra vita, siamo noi che trasportiamo i nostri piccoli modi di vedere nella concezione stessa del cristianesimo, e mentre siamo in buona fede convinti di attuare un cristianesimo integrale, non facciamo in realtà che deformare spesso paurosamente la stessa concezione cristiana. (…) portati dal corso stesso delle cose a concepire il cristianesimo, la Chiesa cattolica, come un gigantesco fronte di combattimento che — come tutti i fronti — divide gli uomini in due schiere: quelli che stanno al di qua e quelli che stanno al di là, gli amici e i nemici. Ora bisogna intendersi: (…) Se nemico è colui che non ama, allora è vero senz’altro che i cattolici hanno molti tenaci nemici: ma se nemico è colui che non si ama, allora è più vero ancora che i cattolici non hanno nemici. (…) Questo può essere più difficile oggi, in una società spezzettata o atomica, in cui ogni piccola frazione sente il dovere di chiudersi nella sua piccola fortezza puntando sulle altre le proprie batterie. (…) Ad ogni modo è certo che, qualunque possa essere la difficoltà, alla legge non si può derogare. (…) Se i cristiani sapessero sempre amare così, essi avrebbero certamente meno nemici. Perché è difficile resistere alla forza dell’amore».
Solo apparentemente la tragica morte di Bachelet segna una sconfitta di questo modo di porsi, da credente, dentro il proprio tempo. La storia ci testimonia infatti che la sconfitta autentica attendeva coloro che pensarono di poter cambiare il proprio tempo usando la violenza contro la mitezza, la forza contro la ragione, l’ideologia contro la democrazia. Il seme gettato dentro la società dalla testimonianza esemplare di Vittorio continua invece dopo quaranta anni a portare frutto.
di Matteo Truffelli