Un modo di essere prete come SCATURISCE DAGLI SCRITTI DELL’APOSTOLO (Guglielmoni L.- Negri F.)

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Dalla “lettera” di s. Paolo ai presbiteri:  L’apostolo delle genti, contemplativo e attivo, è un modello per i presbiteri di oggi. Pastori “formato Paolo”, innamorati di Cristo e felici della propria vocazione pur nelle difficoltà del trapasso culturale e pastorale della modernità, desiderosi di affascinare altri con l’esempio e la parola. Molte le indicazioni pratiche e le intuizioni pastorali che si possono ricavare dalla sua esperienza e dai suoi scritti.

«Io sono l’infimo degli apostoli. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15,9-10). Con questo autoritratto Paolo invita i sacerdoti a un’esistenza spirituale alta, sul suo esempio: «Fatevi miei imitatori!» (1Cor 4,16).

La teologia cristocentrica di Paolo caratterizza anche la sua concezione del presbitero. Questi ha una relazione fondamentale con Cristo, che egli impersona nelle azioni sacerdotali più tipiche; e da Cristo, alla cui sponsalità sacramentale partecipa, è posto in relazione intrinseca con la chiesa. La ragione del sacerdozio non può essere una funzione che si predetermina a partire dalla vita del popolo, ma è la percezione di poter vivere perché Cristo esiste e perché continui ad esistere. La perdita di coscienza della priorità assoluta di Cristo e della sua presenza privilegia il “ruolo” del sacerdote riducendolo a funzionario del settore religioso.

In quanto amato, il presbitero può amare gratuitamente: non è senza peccato ma un peccatore «afferrato» da Cristo. L’apostolo itinerante testimonia che la prima comunità cristiana si è irradiata “per contagio”, non per programmi e aggiornamenti.

Paolo apostolo mistico

Nel bagliore sulla via di Damasco, Paolo ha colto non un cambiamento morale immediato, ma un’illuminazione interiore della realtà. Egli non ha parlato di “conversione” ma di “rivelazione e di grazia”, accentuando che tutto gli è stato donato: l’obiettivo non è stato raggiunto per sforzo morale o per pratiche ascetiche. Paragonandosi ad un «aborto», Paolo non ha fatto una dichiarazione di umiltà, ma ha ribadito che il Risorto è entrato nella sua esistenza con violenza, sradicandolo dalla sua vita precedente come un feto strappato a forza dal grembo materno. Attirato da Cristo, egli ha avviato con lui un’intimità profonda, tanto da non sentirsi inferiore agli altri apostoli.

Paolo non ha basato la sua esistenza su un’idea o su un mito e neppure su un modello di condotta morale, ma su Colui che aveva “visto”. Il suo approccio al mistero di Cristo non è di tipo storico ma mistico: non narra miracoli, parabole o episodi della vita di Gesù. Questi non sta davanti a Paolo o al suo fianco, ma dentro di lui, è vita della sua vita: «Non io, ma Cristo in me» (Gal 2,20). La personalità di Paolo non viene annullata dalla presenza di Cristo: al centro del suo “io” sta la presenza reale e regale di Cristo, morto e risorto per lui. Lo Spirito di Gesù ha trasformato il suo cuore.

San Giovanni Crisostomo suggeriva: «Cor Pauli cor Christi». Nella Bibbia il “cuore”è sede di grandi decisioni e centro di ogni ricchezza personale. Per Paolo il presbitero è colui che ha lo stesso cuore di Cristo: un uomo sedotto dal Dio di Gesù Cristo, un alter Christus! Egli non scioglie il fatto cristiano in una serie di valori condivisibili dai più, per la tolleranza e l’apertura al mondo. La sollecitudine di incontrare i fratelli non si traduce in un’attenuazione della verità.

Sulla via di Damasco l’apostolo ha percepito che Cristo si identificava con i suoi discepoli: «Perché mi perseguiti?». Un’esperienza travolgente: egli ha visto Cristo e intravisto la chiesa, negando quindi “Cristo sì, chiesa no”. L’affezione a Cristo fonda la sua missione apostolica. Percezione mistica di Dio e chiamata all’apostolato sono unite in Paolo. Il presbitero può spaziare nell’ampiezza risanante e affascinante del kerigma, rifiutando corte vedute e orizzonti limitati che intrappolano mente e cuore e negano la “cattolicità” dell’eucaristia.

L’attività del presbitero nasce come conseguenza inevitabile del rapporto vivo, vivente e vitale col Cristo risorto. Benedetto XVI invita spesso i sacerdoti a non lasciarsi prendere dall’attivismo e dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. I fedeli si aspettano che il sacerdote sia esperto nella vita spirituale, specialista nel promuovere l’incontro con Dio, testimone dell’eterna sapienza contenuta nella parola rivelata, esercitato nella comunanza del pensare e del volere di Cristo, capace di paternità spirituale. Le attuali comunità sono ben più organizzate e complesse di quelle della chiesa originaria e abbisognano di essere movimentate dall’interno. Guai se il primato dell’amministrazione prevale sul primato dell’azione pastorale mediante la Parola e l’esempio, la vicinanza e il consiglio. La grandezza del prete non sta nell’esercitare questo o quell’incarico nella comunità ma nell’essere guida e maestro del gregge.

Prima di tutto evangelizzatore

Paolo ha descritto con vari termini e immagini il ministero apostolico: diacono e servitore, architetto dell’edificio di Dio, rematore nella barca della chiesa, amministratore di un bene che non è suo. L’apostolo non è il padre-padrone della propria comunità, ma un seminatore e un collaboratore nel campo del Signore. Chi fa crescere è Dio.

Due termini definiscono la natura del ministero sacerdotale: liturgo (la Cei traduce «ministro») e ambasciatore. Ai Romani Paolo scriveva di aver ricevuto da Dio la grazia di «essere liturgo/ministro di Cristo fra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,16). Egli esercitava il suo sacerdozio annunciando il vangelo così da fare dei neoconvertiti un’offerta sacra al Signore. Per qualificarsi, Paolo non usava il titolo di hiereus-sacerdote, termine legato alla liturgia del tempio. Egli equiparava la vera liturgia all’evangelizzazione: da questa sintesi scaturiva il culto spirituale, capace di trasformare l’esistenza dei credenti in un sacrificio santo e gradito a Dio.

Paolo si è sentito ambasciatore della riconciliazione (in greco il verbo è presbeuo, da cui «presbitero»). Col vangelo e i sacramenti il presbitero porta a tutti l’amnistia universale di Dio in Cristo. Ciò che è costitutivo del ministero non può essere il prodotto delle proprie capacità personali. Si è mandati non ad annunciare se stessi o opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in lui, la misura del vero umanesimo. Si è incaricati non di dire molte parole, ma di farsi eco e portatori di una sola Parola. Cristo affida se stesso al presbitero così che possa parlare con il suo “io”, in persona Christi capitis.

Benché incardinato in una chiesa particolare, in quanto partecipe della missione di Cristo, il presbitero riceve una destinazione universale e missionaria. Il suo servizio a una determinata porzione del popolo di Dio non può mai essere esaustivo ed esclusivo del suo ministero. Compito del ministero pastorale è far crescere la gioia di credere e di essere gregge di Cristo, di prestarsi ad andare nei territori e ambiti di vita della diocesi dove la chiesa soffre la povertà della testimonianza evangelica nel quotidiano (quartieri più poveri della città e zone più lontane e meno servite del territorio diocesano).

«Essere con e per»

L’addio di Paolo ai presbiteri di Mileto, suo testamento spirituale, descrive il suo modo di esercitare il ministero di evangelizzatore e ambasciatore: servizio al bene comune, distacco dai beni materiali e aiuto ai poveri (At 20,17-35). Il suo «farsi tutto a tutti» si esprime per i sacerdoti nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia, nella santa inquietudine di portare a tutti la salvezza. Lasciarsi santificare porta a capire la profondità dell’uomo e a servirlo. Non c’è vera conoscenza dell’altro senza amore fattivo, che impedisce ai presbiteri di ridursi a distributori di “cose” sacre o a cedere a depressione e rassegnazione.

Paolo ha esercitato il suo ministero nella condivisione e nella comunicazione con i fratelli. L’analogia con l’amore di un genitore esprime l’intenso rapporto di Paolo con i suoi: «Potreste infatti avere anche mille pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante il vangelo» (1Cor 4,14-15). E: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature» (1Ts 2,7). Il presbitero è nella chiesa e per la chiesa, ma è anche di fronte ad essa in quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della chiesa. La sua identità lo porta ad essere amorevole garante dell’ortodossia e dell’ortoprassi, mai spettatore silente e tollerante di fronte a errori o a deviazioni.

Cristo ha bisogno di sacerdoti maturi, virili, capaci di coltivare un’autentica paternità spirituale, e tale obiettivo è raggiungibile tramite l’onestà con se stessi, l’apertura al direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia. La presidenza è ben più di un’assistenza spirituale o di una consulenza religiosa: pur fratello tra fratelli, si tratta di guidare i credenti nell’annuncio, nella fedeltà e nel servizio di Cristo Signore. Sempre per la verità e l’edificazione.

Per costruire comunità, Paolo non ha legato i credenti a sé ma ha fatto loro sentire il cuore di Cristo, rendendoli così liberi e aperti. La vera “vicinanza” avviene nel Signore. La cura pastorale richiede sacerdoti di qualità dal punto di vista sia intellettuale sia spirituale e morale, che rendano per tutta la loro vita una testimonianza di attaccamento senza riserve alla persona di Cristo e alla sua chiesa.

Ebreo della diaspora con studi a Gerusalemme, greco di Tarso, cittadino romano, Paolo è vissuto con gruppi di diversa estrazione sociale e culturale. Le sue comunità composte da ebrei, greci e romani, schiavi e liberi, uomini e donne come potevano non creare problemi? Paolo ha colto due grandi dimensioni della vita ecclesiale, l’unità nella molteplicità, la complementarietà nella reciprocità. Unica la sorgente («Un solo Signore, un solo Dio che opera tutto in tutti») e molteplice la sinergia dei membri, chiamati ad armonizzare nel bene comune i doni e le funzioni differenti. Un posto per ognuno e ognuno al suo posto nella fraternità presbiterale. Inoltre, non una casta sacerdotale, che monopolizza tutto e impedisce la crescita matura dei cristiani laici. Il presbitero non possiede la sintesi di tutti i carismi, ma ha ricevuto il ministero di facilitare la comunione fra i vari carismi.

A livello personale, nelle liturgie e nei rapporti sociali ha raccomandato di agire sempre per l’edificazione comune. Ogni presbitero può imparare qualcosa di importante dal modo di essere dell’apostolo delle genti: una vita appassionata e appassionante, in continua ricerca, conscia della propria miseria e del primato della grazia di Dio. Liberato da tanti impegni di supplenza, il sacerdote può dedicarsi a ciò che è essenziale e insostituibile del suo ministero, nella “pace” di Cristo.

Umiltà e fierezza

A Mileto Paolo sintetizzava così il suo ministero: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra lacrime e prove». L’apostolo è anzitutto un servitore del Signore e questo gli genera una grande libertà. Egli risponde solo a Cristo e tramite lui può amare tutti. Dal riconoscimento della propria indegnità, primo dei peccatori e ultimo degli apostoli, fiorisce l’ammirazione di ciò che il Signore opera in lui e attraverso di lui. Per il bene della comunità, Paolo non si astiene da un sano orgoglio per avversare quanti cercano di inquinare la fede autentica e di avere un pretesto per apparire. Paolo non si vanta per mettersi in mostra, ma per la foga dell’amore, per l’ansia di aprire gli occhi a chi si lascia trascinare da falsi apostoli, così da riconquistarli a Cristo. La fonte del suo vanto è la stessa della sua umiltà: «Chi si gloria si glori nel Signore!» (2Cor 10,17). In Paolo, annotava il cardinale G. Biffi, non c’è l’eccessivo senso autocritico che affligge la cristianità odierna.

Il pianto rivela l’intensità emotiva che ha caratterizzato l’esperienza pastorale dell’apostolo che, lungi dall’essere un freddo burocrate si lasciava coinvolgere in ciò che faceva. Prove e insidie, battiture e lapidazioni, disavventure e pericoli: un elenco sconcertante. La fondazione e l’accompagnamento delle comunità sono state un travaglio generativo: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (1Ts 2,7). Tutto rientrava nell’assillo quotidiano della preoccupazione per tutte le chiese, forse la sua vera «spina nella carne».

Per il bene dei suoi figli, l’apostolo era pronto ad agire sia con il bastone che con amore e spirito di dolcezza; distingueva i suoi pareri e consigli dalla volontà del Signore; si poneva al servizio della gioia dei suoi fratelli di fede, godeva del loro sostegno nella preghiera; temeva di trovare i fratelli diversi da come desiderava e di apparire egli stesso diverso da come era atteso; non si lasciava condizionare da quanto si diceva di lui (autorevole nelle sue lettere e fragile come persona); di tutti conosceva i nomi, le situazioni di famiglia, di lavoro e di malattia. Niente di generico e di burocratico.

Debolezza e comunione

Paolo ha creduto che Cristo lo ha amato e ha dato la sua vita per lui. Il Crocifisso è diventato il punto d’appoggio su cui egli ha fondato la sua esistenza. Dopo l’insuccesso di Atene, l’apostolo è sceso a Corinto con «timore e tremore» per opporsi alla pretesa del mondo greco di salvarsi con il sapere e per annunciare Cristo crocifisso. Dio è entrato nella storia in una forma scandalosa (skandalon e morìa, cioè”stupidità”). Dio salva non con la forza orgogliosa della ragione, ma con la «follia della croce», cioè con il dono totale di sé. È questa la sapienza del credente: la grazia è anteposta alla giustizia, alle opere e alla ragione degli uomini. Il Signore sceglie di preferenza i piccoli e gli umili per far risaltare la sua potenza e per confondere i forti e i sapienti di questo mondo.

Paolo ha sperimentato anche nella sua carne il disegno di Colui che lo aveva chiamato a condividere il destino pasquale di Cristo. È divenuto missionario del vangelo senza altro mezzo e strategia che la forza dell’annuncio. Il senso di sproporzione tra la sua debolezza e il compito immane affidatogli lo ha sempre accompagnato. Alla richiesta di aiuto si è sentito dire:«Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).

Nell’apparente assenza di mezzi si evidenzia un’altra forza che opera con grande vigore: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché in me dimori la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). È, questo, il più grande paradosso paolino, che riconosce, da un lato, la propria pochezza ma, dall’altro, la potenza della grazia divina. È un messaggio forte per i presbiteri di oggi, tentati di cedere all’efficientismo. Paolo insegna che al tempo dello slancio missionario e dell’assestamento subentra il tempo delle prime delusioni e delle stanchezze, delle deviazioni e delle fughe, delle dottrine erronee e delle divisioni. Si avverte il peso dei cattivi cristiani e ci si accorge che l’evangelizzazione non cammina tanto rapidamente come si era pensato. È il messaggio delle Lettere Pastorali, che sollecitano discernimento e vigilanza, cooperazione e speranza, pazienza e longanimità, preziose virtù del presbitero.

Paolo non ha agito da solo. All’inizio ha avuto bisogno di chiarire e di approfondire il messaggio di Cristo. Anania lo ha battezzato, Barnaba gli è stato vicino, Pietro gli ha garantito la validità e solidità del vangelo che intendeva predicare (Gal 2,2). In tutta la sua azione missionaria, l’apostolo si è preoccupato di formare un’équipe di evangelizzatori. Non un gruppo elitario chiuso, autoreferenziale o separato dal tessuto sociale; non una setta di “perfetti”, ma una comunità alternativa che aveva la funzione di orientamento e di proposta nella società di allora. Tra questi collaboratori non si possono dimenticare Aquila e Priscilla, una coppia che ha accolto Paolo a Corinto e, su sua indicazione, si è trasferita prima ad Efeso e poi a Roma per preparargli il terreno dell’evangelizzazione. Paolo è stato da loro aiutato sia sul piano materiale (lavoro e alloggio) sia sul piano pastorale. Dal come affronta il tema del matrimonio in 1Cor 7 a come ne parla, in modo mirabile, nella lettera in Efesini 5,21-33, si comprende quanto Paolo abbia maturato a contatto con questi sposi un’alta teologia sponsale e familiare.

Dagli Atti e dalle Lettere emerge il nome di ben 72 collaboratori di Paolo, numero non casuale perché indicativo delle razze e dei popoli allora conosciuti. Con sorpresa di molti, si contano ben 14 donne come fedeli collaboratrici. Per Paolo il presbitero non è un eroe solitario: si fa aiutare, accetta la collaborazione di tanti e punta a formare dei formatori, per un effetto moltiplicatore. La pastorale integrata non nasce anzitutto dalla scarsità del clero, ma da uno stile comunionale generato dal mistero creduto, celebrato e condiviso.

Originale e creativo

Paolo è stato un seguace appassionato di Gesù. Il suo amore per Cristo non poteva rimanere nascosto o silenzioso. Egli ripeteva a se stesso: «Guai a me se non annunciassi il vangelo!». La successione dei viaggi missionari sta a dimostrare quella forza interiore da cui era afferrato: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13). È intrinseco alla condizione di cristiani il desiderio che Gesù di Nazaret sia riconosciuto da tutti come il Figlio di Dio e l’unico Salvatore del mondo.

La sua passione nell’evangelizzazione si può definire originale, creativa e aderente alla situazione socio-culturale dei suoi destinatari. Ciò che per pura grazia aveva compreso nella folgorazione di Damasco, egli ha saputo tradurlo in un linguaggio diversificato che, cammin facendo, ha assunto la forma dell’esposizione dottrinale, della catechesi, dell’esortazione, della diatriba e altre forme ancora.

La capacità di evangelizzare di Paolo si è manifestata nell’aderenza alla situazione culturale dei suoi destinatari. Nessuno più di Paolo ha saputo “inculturare la fede” ed “evangelizzare la cultura”. Ad esempio: a Listra, scambiato per il dio Hermes, ha parlato del Dio unico che ha fatto il cielo e la terra (At 14,13-17); all’areopago di Atene ha valorizzato l’ara dedicata al dio ignoto, citando a memoria i poeti greci (At 17,22-31). Ai cristiani di Efeso, città dei “misteri” pagani e delle luminarie, ha esposto il mistero della salvezza (Ef 1,3-14) e raccomandato di essere «figli della luce» (Ef 5,8). In ambiente giudaico ha ripercorso la storia del popolo ebreo (At 13,16-41), mentre in Grecia, sede delle Olimpiadi, ha usato molte immagini tratte dal mondo sportivo. Modi diversi e complementari per andare incontro alle esigenze degli uditori, così da portare tutti alla maturità della fede nel Crocifisso-Risorto.

Paradossalmente, l’apostolo delle genti non si è sentito di respingere neppure un’evangelizzazione compiuta in malafede e senza retta intenzione da chi era a lui ostile: «Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene (Fil 1,18). «Purché Cristo venga annunciato»: questo è il principio in base al quale ogni iniziativa deve essere valutata.

La grazia trasforma la natura umana, che lascia però il segno. Certe intemperanze ed eccessi del carattere di Paolo risultano evidenti nelle sue lettere. È l’uomo del paradosso nell’esprimere la gioia (2Cor 7,4) e le pene (2Cor 1,8). Pur non amando la contestazione come metodo, era capace di grande franchezza e di foga polemica (Gal 55,2 e Fil 3,2). È stato un uomo consacrato a Dio, con lo sguardo fisso sulla meta, Cristo (1Cor 9,26; Fil 2,12-13), ispirato dai consigli evangelici. La povertà come garanzia di un annuncio gratuito e solidale del vangelo; la castità come donazione indivisa del cuore al Signore, nella libertà e nella dedizione ai fratelli; l’obbedienza come offerta gradita al Signore. L’apostolo delle genti, contemplativo e attivo, è un modello per i presbiteri di oggi. Pastori “formato Paolo”, innamorati di Cristo e felici della propria vocazione pur nelle difficoltà del trapasso culturale e pastorale della modernità, desiderosi di affascinare altri con l’esempio e la parola. Non sarebbe difficile trarre dalle Lettere Pastorali il “decalogo” del presbitero secondo il cuore di Paolo. Lo lasciamo ai lettori.