Nel dolore i frutti dell’amore di Dio.
«Quando viviamo in funzione di Te, o Signore, le cose e, soprattutto, le nostre vite acquistano il loro vero senso. Così non ci sarà sofferenza senza senso»: sono riflessioni sgorgate dal cuore e dall’esperienza di Ricardo Francisco Biocca, un giovane brillante, studente di diritto all’università di Buenos Aires, appassionato di equitazione e di alpinismo. A vent’anni, nell’aprile del 1987, avverte i primi sintomi del terribile sarcoma di Ewing, che l’ha colpito nella zona sacro-coccigea. A novembre viene tentato un intervento chirurgico, ma il male non arretra. Nel marzo dell’anno successivo, una seconda operazione cerca di contrastare il diffondersi delle metastasi. Invano. Dalle ossa la malattia si propaga ai polmoni. Le interminabili e sfibranti chemioterapie e radiazioni non servono a nulla.
Quel giovane che solo fino a poco tempo prima era forte e bello come il Kouros di Milo, ora è inchiodato nel suo lettino d’ospedale, sempre più pallido e sfinito, trafitto da dolori lancinanti. Ma proprio allora egli sperimenta la verità delle parole di san Paolo: «Non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2 Corinzi, 4, 16). La sua fede diventa incandescente. Con straordinaria intensità, Ricardo comprende che il senso della vita sta nell’amare Dio e i fratelli. Per condividere con i suoi cari quanto lo Spirito Santo suscita nel suo cuore, durante la degenza scrive alcune lettere a Dio, che poi fa circolare tra quanti lo avvicinano, medici e conoscenti. Sono testi profondi e limpidi come acqua di fonte, raccolti dal padre Ignacio Larranaga per formare il libro Los frutos de mi sufrimiento, finora mai tradotto in italiano.
La prima lettera, che Ricardo scrive nell’aprile 1988, dopo un anno di terribili patimenti, inizia con una preghiera di ringraziamento: «Grazie, grazie, Signore, perché mi dai ciò che non ho: mi dai la tua forza, quando con le mie sole forze non resisto; mi dai la tua fede per sentirti, quando col ragionamento non ci riesco; mi dai la tua grazia, quando la mia allegria non mi basta per essere felice; mi dai la tua pace perché, con serenità, io possa affrontare la sofferenza». Segue la preghiera «Signore, ti offro la mia vita di cristiano» che esprime il desiderio di amare intensamente, condividendo tutto, e una “petizione”, con l’unica richiesta di essere «uno strumento della volontà di Dio, poiché questo è ciò che più conta per me».
Nelle lettere successive, con semplicità e sincerità, Biocca scrive le riflessioni e le suppliche che sgorgano dal suo cuore sia nei momenti di luce, sia in quelli di tenebra. Non è uno stoico, ben corazzato da una perenne atarassia. A tratti, con l’incalzare del male, conosce tristezza e angoscia. Ma sempre, nei momenti più cupi, lo raggiunge la consolazione che viene da Dio, come attestano questi stralci: «Dinanzi all’incertezza e alla sofferenza che mi causa la malattia, mi sono visto forzato a cercare la vera felicità, per sopportare tutto con gioia. Ho perso la superbia e mi sono reso conto che se non fosse per amore a Te, la sofferenza non avrebbe senso»; «Signore, mi trovo nel mezzo di una grande tormenta, la stanchezza non mi lascia vedere il sole, la tua luce»; «Signore, lotto per ottenere che, se la malattia l’avrà vinta su di me, io doni la mia vita e non la perda»; «Perdonami per la mia tristezza, Signore. Nei momenti in cui avevo più bisogno di Te, forse la mia fede è vacillata e ho temuto che Tu fossi assente, quando in realtà tu stavi vicino a me, come mai»; «Signore, con la malattia ho raggiunto anche la felicità, perché con essa mi sono liberato dalle cose e da me stesso»; «Quando sono riuscito a sentire la felicità, nonostante le mie sofferenze, mi sono detto: come mai prima non lo sono stato, o non lo sono stato così tanto?».
La morte si avvicina sempre più e Ricardo è come trasfigurato dalla grazia. «Signore — esclama nella penultima lettera — ogni giorno mi rendo sempre più conto che la felicità sta in Te e nell’amore. Credo che non ci sia peggior castigo del vivere senza amore e senza Te, Signore: questo più che vita sarebbe morte. Questa è l’unica vera morte, l’altra è solo un passaggio da vita a vita, però non è morte. Perché se siamo uniti a Te e se amiamo, siamo vivi». E nell’ultima lettera scrive: «Anche se pare impossibile da dirsi, pure mi sento un privilegiato […] Se Tu m’inchiodi su questa croce lo fai perché, in qualche modo, mi ami come hai amato il tuo Figlio».
«Anche se noi continuavamo ad alimentare un filo di speranza — ha scritto il suo medico curante, l’eminente professor José María Mainetti — Ricardo capì bene, nell’ultima settimana di vita, che la sua dipartita si avvicinava rapidamente. Con molta serenità, cominciò ad accomiatarsi dagli amici, dai medici e dal personale sanitario. Mai avevo visto un uomo che desse un esempio così completo e che, nel pieno possesso delle sue capacità mentali, accettasse con umiltà la sua immolazione per amore a Dio».
Ricardo Francisco Biocca spirò il 4 febbraio 1989, a ventidue anni. Ai suoi cari aveva detto: «Ringrazio Dio per questo tempo di malattia che mi ha concesso per crescere e per condividere tutto questo con voi, che amo tanto. Anche se nessuno va alla ricerca della sofferenza, quando essa ci sorprende se ne possono ricavare buoni frutti. Io non mi sento frustrato per il fatto di essere vissuto pochi anni. Mi sento realizzato. Sono in pace con me stesso. Sono totalmente nelle mani di Dio».
La stessa luce s’irradia dalle testimonianze presentate nella scheda per l’animazione pastorale e parrocchiale diffusa dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana. Davvero si sente l’azione potente dello Spirito Santo nel coraggio e nella fede di Massimiliano Amolini, un giovane tetraplegico, desideroso di impegnarsi nell’Azione cattolica, come spiega in una commovente lettera del 25 ottobre 2008 all’assistente ecclesiastico generale di allora, monsignor Domenico Sigalini, oggi vescovo emerito di Palestrina; o dei coniugi Francesca Fedeli e Roberto D’Angelo, genitori della piccola Francesca, colpita da ictus perinatale; oppure di Giulia Gabrieli che a dodici anni si ammala di sarcoma e muore due anni dopo, lasciando dietro di sé un tale profumo di cielo che la sua diocesi apre per lei la causa di canonizzazione; come di Gianlorenzo Casini che nella sua situazione di crescente cecità trova forza nella meditazione del Vangelo; di don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, che insegna: «Dio non vuole aggiustarti, vuole invece amarti come sei, vuole amarti, “rotto” come sei». Voci ardenti di amore per Dio e per la vita, nonostante tutto. Proprio come scrisse Lev Tolstoj in Guerra e pace commentando la marcia di Pierre Bezuchov, prigioniero dei francesi durante la loro disastrosa ritirata: «La cosa più difficile, ma più necessaria, è amare la vita, anche nella sofferenza. Perché amare la vita significa amare Dio».
di Donatella Coalova