È urgente da parte dei teologi rispondere con chiarezza e senza tregua a chi usa il cristianesimo per giustificare il razzismo e ogni forma di discriminazione. Non ci riferiamo prevalentemente al nostro paese e alla sola cronaca recente. Il problema della mancata chiarezza ha radici antiche di riflessioni teologiche che prestavano il fianco alla discriminazione. Per chi come noi va in Africa percepisce il disagio fra i cristiani di quei popoli e gli occidentali bianchi. Gli africani assumono talvolta un atteggiamento di rivendicazione di una identità forte; ma più spesso mostrano un’accettazione di inferiorità che non ha alcun fondamento. Anche entro le mura di ambienti ecclesiastici serpeggia una mentalità che seleziona: tra clero e laici, uomini e donne, nord e sud, bianchi e neri. Ci è stato riferito che ancora oggi in alcuni seminari del nord Europa dove la cultura della selezione è più marcata, nei quali sono ospitati studenti stranieri provenienti da vari continenti, persistono disparità di trattamento nei confronti degli africani in piccole e grandi cose: dai lavori estivi più duri per loro, al posto più defilato nelle celebrazioni liturgiche, ad una velata sfiducia verso le loro capacità di seguire gli studi teologici. Spesso si tratta di studenti che comprendono e parlano due o tre lingue.
Dura fu la denuncia negli anni settanta del grande teologo domenicano Yves Congar, il quale riferiva alcune espressioni teologiche sulla superiorità del colore bianco utilizzate nella predicazione e nell’insegnamento. Ad esempio riportava le parole di Monsignor Lépicier (poi cardinale), che a proposito della sua missione in Abissinia diceva con orgoglio che in quel paese: “fiorisce magnificamente la grande devozione cattolica a queste «tre cose bianche»: l’Ostia, la Vergine Maria, il Papa”. Congar denunciava il pericolo che questo tema immaginoso dei “tre candori” – ostia, Papa, Maria – fosse ripreso un po’ ovunque, come per esempio dall’Associazione mariana canadese, a Parigi.
Sarebbe stato importante con un lavoro più attento smontare questi argomenti che si prestavano facilmente per i più semplici ad una lettura razzista. Il tema del bianco non è teologico, e non è vincolante né per l’Eucaristia, né per la Madonna, né per il Papa. Il pane azzimo dell’ostia, formato da farina di frumento e acqua, difficilmente aveva il candore bianco al tempo di Gesù. Il suo colore dipende anche dalla cottura e il pane azzimo degli ebrei era ben cotto su pietra. La Vergine Maria era una ragazza ebrea, mediterranea, di carnagione certamente non “ariana”, nonostante molte rappresentazioni ufficiali che la ritraggono bionda, occhi azzurri e carnagione chiara. Le devozioni popolari non mentono, e continuano a pregare le “Madonne nere” di origine mediorientale. Anche suo figlio Gesù era come tutti gli altri ebrei, e non biondo e con gli occhi azzurri: si confondeva in mezzo ai discepoli fino al punto che di notte nell’orto degli Ulivi Giuda dovette tradirlo con un bacio, per farlo identificare dalla folla armata che veniva ad arrestarlo. Per quanto riguarda il Papa bianco sappiamo bene che il suo abito è stato introdotto da papa San Pio V, domenicano, nel sedicesimo secolo, il quale volle conservare anche da papa l’amato abito dell’ordine fondato da San Domenico nel tredicesimo secolo. Il bianco nella nostra cultura simbolizza la luce, il candore, la purezza, la fermezza e la positività, ma sappiamo che in altre culture acquista significati diversi: in India, in Cina e nel Maghreb e in varie parti dell’Africa significa il lutto, perché ricorda il cadavere senza vita; nel sistema di comunicazione delle battaglie il bianco, la bandiera bianca, significa sconfitta, capitolazione e resa incondizionata.
È assurdo insinuare che il simbolismo di purezza attribuito al bianco, possa corrispondere al fatto che gli uomini di carnagione chiara siano puri, saggi e portatori di verità più alte, mentre quelli di carnagione scura siano impuri, ignoranti e da “addomesticare e addestrare”. La tentazione è per tutti, e l’abbiamo sperimentata sulla nostra pelle. Già abbiamo avuto modo di scrivere che la nostra missione in Etiopia dura da dieci anni. All’inizio erano viaggi per portare aiuti materiali. Poi è diventata un “campo missionario” di uomini e donne, giovani seminaristi ed universitari che insieme ad operai realizzavano lavori negli orfanotrofi, nelle scuole e nelle chiese. Programmi pensati da noi, più capaci e migliori organizzatori di loro. Il passaggio definitivo è avvenuto quando il cardinale Berhaneyesus ci ha chiesto di aiutare le popolazioni Gumuz, di religione ancestrale, carnagione molto scura. Si ritengono orgogliosamente i veri discendenti degli antichi egizi e a guardarli bene possiamo crederci. Vivono in capanne, nella parte occidentale del paese, ai margini degli altopiani; posti bellissimi, pieni di alberi e popolati da animali, raggiungibili attraverso sentieri impervi. Non c’era un programma pensato. Si voleva da noi una disponibilità, un incontro, una presenza, e tutto il lavoro era da concordare sul posto, con quella gente, per lo più temuta dai cristiani. Un cambio di orizzonte missionario che ci ha purificato. Abbiamo vissuto nei villaggi dei Gumuz, lavorando insieme a loro, mangiando insieme, giocando con i bambini, accompagnando le donne a prendere l’acqua alle sorgenti, pregando insieme. Insieme abbiamo costruito un’aula multifunzionale pensata da loro. In quei villaggi molte famiglie Gumuz stanno chiedendo il battesimo nella Chiesa, al di là di ogni pretesa e aspettativa. Quel nostro senso di superiorità si è sgretolato. Ci è apparso chiaro che la nostra fiducia e superiorità sta nelle cose materiali. Ma tra noi molti non sono più capaci di credere nella salvezza di Cristo. Siamo certi che chi va in missione si deve purificare dalla mentalità razzista, dal senso di superiorità: non può più imporre propri programmi e obiettivi a partire dalla mentalità occidentale. Esiste un’unica Chiesa, e tutto è condiviso nel dialogo, nella pari dignità e nell’arricchimento reciproco. Il cammino da fare nasce nelle relazioni autentiche, e nell’ascolto, mettendosi al servizio della Chiesa locale. Se su alcuni punti della rivelazione e della tradizione la teologia deve seguire il cammino di una sana inculturazione, nel campo dell’antropologia, dello sviluppo dei popoli, della comunione fraterna e della sinodalità la strada da seguire è la interculturalità. Se non siamo in grado di sentirci uguali dentro la Chiesa come possiamo immaginare di realizzare un cammino ecumenico o di vero dialogo interreligioso?
Questo nuovo modo di concepire la missione oggi riguarda il mondo intero. Per l’Africa c’è un’unica missione della Chiesa che si legge con gli occhi dell’Africa, della Chiesa africana. La teologia deve fare in modo che lo sguardo rimanga fisso in Cristo, ma gli occhi siano quelli di tutti alla pari, senza pretese di superiorità. Nelle diversità uguali. Davvero fratelli.
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.