Quando la persona umana vive coerentemente la propria condizione, la spiritualità del dono fiorisce come espressione immediata. Essa non consiste in un vago sentimento di benevolenza nei confronti di alcune persone…
Nella ricerca intensa di una spiritualità che corrisponda alle esigenze del mondo attuale, da più parti ci si interroga sull’urgenza di una spiritualità del gratuito. La penosa immagine che l’Italia oggi offre al mondo, di politici preoccupati esclusivamente di denigrare gli oppositori e di difendersi da accuse con stratagemmi ridicoli, ha molto a che fare con lo stile che deriva appunto dall’incapacità di dono e di misericordia, dall’assenza completa di gratuità. Le scelte sembrano ispirate dal desiderio di potere e dalla preoccupazione di emergere sugli altri con tutti i mezzi a disposizione, leciti o illeciti. Nella prospettiva cristiana nulla è più contrario allo sviluppo delle persone di un comportamento di questo tipo, perché contraddice alle dinamiche fondamentali della vita, come Cristo le ha intuite, vissute e insegnate. La spiritualità cristiana nella sua struttura essenziale è molto semplice: vivere secondo l’agape. Questo termine greco (con il corrispettivo verbo agapào), sulla scorta della traduzione già fatta dai LXX di alcuni testi del Tanak (la Bibbia ebraica), è stato utilizzato dai cristiani per esprimere quel particolare tipo di amore che Gesù aveva insegnato e vissuto fino alle estreme possibilità (Gv. 13,1 «avendo amato i suoi, li amò fino alla fine»). Il termine agape non esprime la passione che alimenta i rapporti d’amore (indicata in greco con il termineeros),né la tenerezza che accompagna i gesti di amicizia (indicata in greco con il termine filìa),ma indica un particolare tipo di amore che fiorisce nell’uomo quando, accogliendo senza riserve l’azione creatrice di Dio, consente di farlo fiorire in offerte inedite di doni vitali. È un’esperienza che non può essere ricondotta alla pura buona volontà umana, ma è suscitata da un dono sublime, percepito come forza nuova che suscita sentimenti e atteggiamenti inediti. Gli atti a cui conduce sono interamente umani, avvertiti come propri, ma la fonte da cui derivano non è in possesso della persona né a sua piena disposizione, giacché essa è l’azione creatrice di Dio quando è accolta in modo consapevole e libero. Ogni atto agàpico può essere vissuto solo come dono puntuale, che si rinnova ogni istante quando si vive in accoglienza docile della presenza creatrice e misericordiosa di Dio.
In Giovanni questo dinamismo vissuto da Gesù è riassunto in modo splendido: «come il Padre ha amato me (e io rimango nel suo amore, v. 10), così ho amato voi, rimanete nel mio amore… amatevi gli uni gli altri» (Gv. 15, 9.17). Per questo Gesù può dire «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34 s.). L’agape nasce quindi da una relazione che precede e soggiace ad ogni rapporto tra le persone, che tengono fisso lo sguardo su Gesù, «apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo» (Ebr 3,l).
Queste dinamiche, tuttavia, non si sovrappongono agli istinti ma coinvolgono tutte le strutture della persona e consentono di esprimere le potenzialità della condizione creata. Corrispondono perciò all’etica della creatura in quanto finita e alimentano la spiritualità del dono, che da più parti sono indicate come l’urgenza maggiore della fase attuale della storia umana.
Etica del finito
La condizione della creatura è segnata da due caratteristiche fondamentali: l’incompiutezza e il limite. Da esse fluiscono alcune esigenze ineludibili, che costituiscono l’orizzonte etico del finito.
La condizione di limite è legata alla stessa struttura creata, che può accogliere la perfezione solo in forma frammentata. Nessuna creatura è in grado di esprimere tutta la perfezione possibile in modo compiuto e integrale. Per questo porta con sé l’anelito ad una totalità che non potrà mai realizzare, una sete di infinito che nessuna realtà creata potrà mai saziare. La tentazione di essere Dio (la prima grande tentazione umana, secondo la Bibbia: «si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio» Gen 3,5) è l’espressione inconsapevole di tale desiderio profondo. L’accettazione consapevole del limite, invece, è la prima, necessaria risorsa per vivere armoniosamente l’esperienza di creatura.
L’incompiutezza deriva alla persona dal fattodi nascere in forma embrionale e di avere bisogno continuo di offerte vitali per giungere a quella maturità che si raggiunge nella morte. La persona, in quanto creatura, non può interiorizzare tutte le ricchezze vitali in un solo istante e può pervenire, quindi, all’identità solo attraverso una serie successiva di esperienze. Il tempo conseguentemente, che è la trama essenziale dell’esistenza creata, nella persona esige due attività complementari: l’esercizio della memoria vitale, per raccogliere il passato e farlo fiorire nelle sue virtualità, e l’attesa continua del dono, che ogni presente promette, ma non può consegnare. Il flusso energetico d’altra parte si realizza solo nei rapporti, che acquistano perciò un valore assoluto in ordine alla crescita personale. Per questo l’etica del finito ha nella capacità di offerta vitale la sua dinamica fondante. L’agape cristiana, in questa prospettiva, è una modalità concreta di vivere la condizione creata secondo la sua legge strutturale.
Vitalità del donare
Quando la persona umana vive coerentemente la propria condizione, la spiritualità del dono fiorisce come espressione immediata. Essa non consiste in un vago sentimento di benevolenza nei confronti di alcune persone, bensì in convinzioni profonde, che alimentano atteggiamenti concreti verso tutti.
Le convinzioni possono essere riassunte nelle certezze che ogni persona ha un dono da consegnare e che ogni situazione può essere vissuta in modo positivo o salvifico. Le attitudini spirituali, che ne conseguono, sono la disponibilità a consegnare la propria presenza come stimolo vitale per coloro che si incontrano e l’attesa del dono che ogni persona anche inconsapevolmente porta con sé. Tutto questo non per obbedire ad un comando, ma per assecondare le dinamiche essenziali della vita. Il dono trattenuto, infatti, si deforma, l’offerta di vita non consegnata si perde per sempre. Gesù ha espresso più volte e in forme varie questa legge: «chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde, la salverà» (Lc 17,33). Il contesto di questa formula in Luca è il giorno del Figlio dell’uomo e del giudizio. Essa indica perciò una legge fondamentale dell’esistenza umana. In Giovanni l’insegnamento è dato attraverso l’immagine del chicco di grano: «se caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,24s.). In Matteo il messaggio è espresso in riferimento alla sequela di Gesù, ma conserva il valore di legge generale: «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia la troverà» (Mt 16, 25). Potremmo esprimere questa legge con la formula: «chi vuole trattenere la vita per sé, la perde; solo chi la offre conserva e sviluppa la vita». Intraprendere i rapporti in tale consapevolezza e con queste attitudini, modifica in modo sensibile le dinamiche relazionali fino a far fiorire con facilità quella forma di misericordia che è il dono moltiplicato, che noi propriamente chiamiamo per/dono. Se di fronte al male reagiamo con le stesse dinamiche di violenza, la vendetta moltiplica il male che vorremmo annullare, lo radicalizza diffondendolo nell’ambiente nel quale ci troviamo. L’aspetto più sorprendente di questa attitudine è il modo diverso di attraversare situazioni negative e contrarie alla giustizia. La convinzione di fondo è che nessuno ci può impedire di crescere accogliendo e offrendo doni di vita anche in quelle circostanze. Anzi ci sono espressioni di amore e di dedizione che diventano possibili solo in situazioni negative. Non perché esse, come tali, abbiano possibilità di vita, il male infatti resta sempre tale e non può generare il bene, ma perché chi vive secondo le dinamiche della vita si apre a una energia profonda e intensa che è in grado di suscitare potenzialità straordinarie. Fino ad esprimere quella forma estrema di benevolenza che è l’amore per i nemici. Gesù non solo lo ha insegnato, ma ha mostrato che esso è possibile e nella tradizione cristiana numerose sono state le forme che esso ha assunto, non solo nei confronti dei persecutori, ma in genere nei confronti del male del mondo. Questo è il compito specifico dei cristiani che vivono consapevolmente la sequela del loro maestro: amare al punto da «portare il male», cioè da immettere dinamiche positive dove sono in azione le spinte distruttrici del male. Di fronte quindi alle forme molteplici di energie negative che si diffondono, i discepoli di Cristo sono chiamati a offrire vita, a diffondere, cioè, stimoli positivi per annullare le forze mortifere dell’egoismo e dell’ingiustizia, che sottraggono flussi vitali al processo della storia umana.