Tonino Bello e Jorge Mario Bergoglio hanno avuto una formazione strettamente contemporanea e legata per ambedue al Vaticano II. Del resto sono coetanei: se don Tonino fosse con noi, avrebbe appena un anno di più di Papa Francesco. E come sarebbe felice nell’udirlo parlare!
L’attualità di don Tonino era sotto gli occhi di tutti, ma i primi due anni del Pontificato di Francesco le hanno fornito una sorprendente evidenza. L’immagine della Chiesa che si cinge il grembiule proposta dal Papa il dicembre scorso, nonché una preghiera nella quale si rivolge alla Vergine come “donna dell’ascolto, donna della decisione, donna dell’azione” sono le rispondenze verbali più nette. Ma tra i due c’è molto di più della vicinanza di linguaggio.
C’è un modello di Chiesa conciliare e di vescovo che hanno ricevuto dal Vaticano II e che cercano di attuare con sistematico impegno prima e dopo la chiamata all’episcopato: ambedue la riassumono con efficacia nel binomio “popolo e vescovo”.
C’è un ideale di Chiesa dei poveri e del servizio all’uomo che si sentono chiamati a perseguire sia con l’esempio della vita sia con l’attività apostolica.
C’è un impegno dichiarato a favorire una maturazione epocale del servizio di carità sempre esercitato dalla Chiesa, facendolo passare dalla dominante assistenziale a quella promozionale, di riscatto sociale e di mutamento delle condizioni di vita.
Probabilmente Bergoglio e Bello non si sono mai incontrati e Papa Francesco non ha mai inteso riferirsi al vescovo di Molfetta neanche quando ne ha usato il linguaggio e in particolare la metafora del grembiule. Ma è la comune matrice conciliare fatta programma di vita che li porta a parlare la stessa lingua evangelica.
Seguendo un suggerimento del vice-postulatore della Causa di canonizzazione di don Tonino, il sacerdote molfettese Domenico Amato, credo di poter affermare che la “magna carta” che li ispira e li avvicina sia da vedere nel cosiddetto “Patto delle Catacombe”, cioè nella dichiarazione sottoscritta il 16 novembre 1965 da una quarantina di padri conciliari, in gran parte latino-americani, che avevano avuto come ispiratori il vescovo brasiliano Helder Camara e il cardinale Giacomo Lercaro.
Quel documento si chiama “Patto delle Catacombe” perché i firmatari lo sottoscrissero dopo un’Eucarestia celebrata nelle Catacombe romane di Domitilla. Esso non riuscì a ottenere – come era intenzione dei proponenti – un pronunciamento conciliare sulla povertà della Chiesa, ma fu fatto proprio da tanti, negli anni seguenti, e tra questi tanti anche – e con forte determinazione – da Bello e da Bergoglio. Si direbbe che ambedue si siano impegnati a portare a compimento quanto i firmatari del documento si erano prefissi.
Non ho trovato nessun richiamo esplicito al “Patto” né in Bergoglio né in Bello. Ma la derivazione da esso delle loro scelte è più che evidente e in Bello ne possiamo rintracciare il filo rosso nei testi relativi alla sua azione di vescovo e nei suoi richiami al magistero del cardinale Lercaro: don Tonino si forma a Bologna, dove sta sei anni (dal 1953 al 1959), alunno di un seminario dipendente dal cardinale. In Bergoglio una chiara eco del Patto è rintracciabile nella “Relatio post disceptationem” che da cardinale tiene come relatore supplente al Sinodo del 2001 sulla figura del vescovo.
Basterà citare qualche passaggio del Patto perché appaia chiara la sottoscrizione di fatto che ad esso è venuta da Bello e Bergoglio:
“Cercheremo di vivere come vive la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione […]. Rinunciamo all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti e nelle insegne di materia preziosa […]. Rifiutiamo di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere […]. Eviteremo quanto può sembrare una qualsiasi preferenza ai ricchi e ai potenti […]. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro […]. Consci delle esigenze della giustizia e della carità cercheremo di trasformare le opere di beneficenza in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia […]. Opereremo [in modo da favorire] l’avvento di un ordine sociale nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio […] e l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria”.
Infine le parole che dicono la vicinanza d’anima di questi due pastori. L’8 dicembre scorso Francesco ha così parlato durante un incontro con la Federazione organismi cristiani di servizio internazionale volontario (Focsiv): “La vostra Federazione è immagine di una Chiesa che si cinge il grembiule e si china a servire i fratelli in difficoltà”.
Ho già accennato a una preghiera mariana del Papa che ha le movenze delle invocazioni di don Tonino. Ne riporto una strofa: “Maria, donna dell’azione, fa’ che le nostre mani e i nostri piedi si muovano “in fretta” verso gli altri, per portare la carità e l’amore del tuo Figlio Gesù, per portare, come te, nel mondo la luce del Vangelo” (31 maggio 2013).
Ho trovato altre sorprendenti rispondenze verbali, quasi rime conciliari tra Bello e Bergoglio: sul legame tra vescovo e popolo come già accennavo, sulla paura di cambiare, sulla necessità di affidarsi allo Spirito che sprona al rinnovamento delle persone e delle strutture, sul pronto soccorso dell’uno e l’ospedale da campo dell’altro, sull’olio della gioia di cui parlano con afflato nelle messe crismali, sull’importanza di non limitare il soccorso ai poveri all’aiuto materiale ma di puntare sulla condivisione della vita, sull’oppressione del commercio delle armi, sui tariffari liturgici, sull’uscita missionaria, sulla preghiera come lotta. Ne segnalo una ventina in appendice a questo testo.
Luigi Accattoli