Dentro queste pagine emerge molto dell’ars predicatoria di Cantalamessa che ci riporta idealmente alle sue meditazioni per le prediche di Avvento e Quaresima – che il religioso creato cardinale nel novembre del 2020 da Francesco – indirizza abitualmente ai membri della Curia Romana e al Pontefice.
L’intento principe del saggio è soprattutto quello di riscoprire la bellezza di morire cristianamente muniti del conforto di tutti i Sacramenti: primo fra tutti la Confessione con un’attenzione particolare ai «peccati mortali» per accedere, e senza inciampi, alla vita eterna. In queste dense pagine Cantalamessa sfida la mentalità corrente a non vedere nella morte solo la fine di un’esistenza (attualissime a questo proposito le sue parole contro il crescente fenomeno dell’eutanasia) ma solo l’inizio di una nuova vita accanto al Risorto. Non a caso addita come modelli di santità a cui affidare il nostro accompagnarci verso la «buona morte» e prepararci ad essa in ogni momento della nostra esistenza terrena, proprio come recita il Vangelo di Matteo «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora», due santi a lui molto cari: Francesco d’Assisi (1182-1226) e Leopoldo Mandic (1866-1942).
Fulcro narrativo di questo saggio è quello di far affiorare nella morte il suo aspetto mistagogico ma anche pedagogico. «La morte non è più solo una terribile pedagoga che insegna a vivere, una minaccia e un deterrente; è diventata una morte mistagoga, una via per penetrare nel cuore del mistero cristiano». Il teologo cappuccino ricorda come la stessa istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù rappresenta un mezzo per non dimenticarci il legame con le realtà ultime. «Noi possiamo fare lo stesso, anzi Gesù ha inventato questo mezzo per farci partecipi della sua morte, per unirci a sé».
Abbracciare «Sorella morte» – a giudizio di Cantalamessa – che è un’«autentica sorella maggiore», vuol dire in fondo fare nostri gli insegnamenti di quanto professato e testimoniato dal Poverello di Assisi nella preghiera del Cantico delle creature.
Ma dal religioso cappuccino arriva anche un altro invito “controcorrente”: ripristinare nella nostre coscienze, ormai tiepide e assopite verso il sacro, la paura della «morte eterna», e perché no del peccato e del giudizio finale.
Non è un caso che il cardinale Cantalamessa in queste pagine ricordi l’importanza che ha avuto nella Tradizione cristiana il rintocco delle campane a morto, la visita ai moribondi, come ai cimiteri, la celebre massima Memento mori («Ricordati che devi morire»), il rito di imposizione delle ceneri nel primo Mercoledì di Quaresima o di come il passaggio ad altra vita «per i nostri cari» fosse celebrato nel cuore storico e nei luoghi di culto più vitali della nostre città. E non ai margini delle nostre metropoli. Come capita oggi in molte realtà europee dove la celebrazione di un funerale «civile» spesso “anonimo” (privo di speranza e di richiami alla Resurrezione dei corpi) è un evento da vivere come un omaggio alla sola vita degnamente vissuta in cui si ricordano solo gli hobby e le virtù del compianto.
La morte a giudizio di Cantalamessa deve essere percepita come un momento pasquale e di gioia, alla luce anche del magistero del Concilio Vaticano II, e come un «autentica epifania della fede» visto che il primo a sconfiggerla è stato Gesù con la Sua Risurrezione. Dal porporato cappuccino arriva un suggerimento singolare: quando si celebra un funerale lo stesso sacerdote, magari aiutato da una rete di fidati laici, ricordi la storia di fede e di vita autenticamente vissuta del trapassato e offra così un autentico «ministero della consolazione in nome della comunità cristiana».