-«È fuori di sé» (Mc 3,21). Con questa espressione, in greco existemi, i familiari di Gesù di Nazaret cercano di riportarlo a casa, perché, appunto, pensavano che fosse fuori di sé. Quel ‘fuori di sé’ segnò anche l’inizio di una delle avventure più straordinarie della storia umana. Molto tempo prima, la storia del popolo di Israele iniziò quando Abramo ricevette un comando: «Vattene dalla tua terra » (Gn 12), lascia la tua terra. Ubbidì e divenne un errante, e tutta la Bibbia è irrorata dalla ricordo nostalgico di quel padre fuoriuscito: «Mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5). La vita fuori di sé. Una filosofia dell’avventura (Marsilio, pagine 256, euro 18) è il titolo del libro di Pietro Del Soldà, noto anche per l’attività di conduttore a Radio3.
Un saggio di filosofia narrativa, cioè riflessioni e ragionamenti filosofici narrati sotto forma di racconto, di storie di personaggi noti e meno noti, classici della filosofia, storici e geografi, dove le idee dei pensatori si intrecciano con i dialoghi dei personaggi delle loro opere. Non sono racconti semplici, ma anche i concetti più densi vengono addolciti dalla bella prosa e dall’ottimo ritmo narrativo. Il primo capitolo è molto suggestivo, ma per gustarlo con profitto andrebbe riletto dopo essere arrivati alla fine del libro, perché le varie storie narrate contengono idee e dettagli che consentono di capire e apprezzare le tre coordinate del saggio: schiacciati sul presente, l’io tiranno, la trappola delle aspettative. Questo primo capitolo contiene poi delle frasi particolarmente efficaci, che nutrono l’intero saggio. Tra queste una domanda che è anche la prima coordinata per orientarci nel viaggio: «Possiamo sottrarci all’egemonia dell’Io, che ci tiene ‘al sicuro’ dentro il suo guscio privato e sopprime il desiderio d’altrove?».
Coi libri che ci coinvolgono nel profondo ci si sente avvolti da un continuo flusso di emozioni. In queste letture non ha molto senso quindi domandarsi dove si trovi il centro drammatico del testo perché ogni capitolo termina lasciandoci il forte desiderio di continuare la lettura. Così dopo essersi immersi nella battaglia di Maratona narrata da Erodoto, vinta dai greci perché ebbero la capacità di uscire e andare incontro ai persiani in campo aperto (il loro vero nemico non era Dario ma la tentazione della stasis), ci sembra di aver capito tutto dell’uscire fuori di sé e dell’avventura. E invece l’avventura continua con le imprese di Platone a Siracusa commentate dalla sua (forse) stupenda Lettera Settima, un’altra ‘uscita’ dalle parole verso l’azione politica, e lì scoprire che «l’avventura filosofica e l’avventura politica sono la stessa avventura». Quindi la storia e le storie straordinarie di Kapuscinski che si intrecciano con Le storie di Erodoto. E poi ancora Montaigne e la cattiva maestra ’abitudine’, i viaggi di Von Hum- boldt, figura molto simpatica a Del Soldà, e le avventure dell’unica donna protagonista del libro: Isabelle Eberhardt. Il picco narrativo è forse nel capitolo dedicato a Le Mani sporche, la grande e controversa opera teatrale di J.P. Sarte rappresentata a Parigi nel 1948. La storia del suo protagonista, Hugo Berine, serve a Del Soldà per svelarci la propria filosofia dell’avventura.
Quel giovane intellettuale, borghese e comunista, sente di vivere «dentro una scenografia », in un mondo di parole, ed è attratto dall’azione politica, dall’idea di lasciare il suo mondo di carta ed entrare nel mondo vero. Commenta Del Soldà: «Finché non ci si avventura nella vita vera, finché non s’infrange quel maledetto diaframma che separa le parole dalle cose e che isola l’intellettuale disimpegnato, non c’è nulla che valga la pena d’esser vissuto». Una frase il cui senso dipende da cosa intendiamo per ‘intellettuale disimpegnato’, perché se il solo impegno dell’intellettuale fosse quello politico, escluderemmo dalla vera avventura molti poeti e troppi artisti, e faremmo male. Un dialogo centrale di Le mani sporche è quello tra Hugo e Hoederer, il capo del partito proletario, che poi Hugo finirà per uccidere e così uscire dalla scenografia e iniziare a vivere davvero: «Hugo: ‘Sono entrato nel Partito perché la sua causa è giusta, e ne uscirò quando cesserà di esserlo. Quanto agli uomini, non m’interessa quello che sono, ma quello che potranno diventare’. Hoederer: ‘Tu non ami gli uomini, Hugo, tu non ami che i princìpi… Io invece, amo gli uomini per quello che sono, con tutte le loro porcherie e tutti i loro vizi… La tua purezza assomiglia alla morte’». L’intellettuale con ‘le mani pulite’ non ama gli uomini per ciò che sono ma ‘per quello che potrebbero diventare’, ama un uomo astratto, quindi non ama nessuno, alla fine neanche se stesso. Solo le mani sporche sanno amare, quelle che lasciano le idee e si gettano nel pantano della realtà. E qui torna ancora la Bibbia.
Quando un gruppo di scribi ebrei definì il canone biblico, il criterio che scelsero per considerare un libro ispirato fu, paradossalmente, la capacità che quel testo aveva di sporcare le mani: «Rabbi Giuda dice: ‘Il Cantico dei cantici e Qoelet sporcano le mani’» (Mishnah Yadayim 3,5). I libri invece troppi lontani dalla storia e troppo preoccupati di angeli e demoni non furono inclusi nel canone perché, appunto, non sporcavano le mani. La storia vera sporca le mani, e questa sporcizia buona ci fa più umani. Il mondo delle ideologie, atee e cristiane, è pieno di mani pulite che non amano nessuno veramente, ma solo principi e idee, anche quando queste idee e principi si chiamano Gesù e Dio: se l’amore per gli esseri visibili non diventa sporcarsi le mani nelle fogne e nei peccati umani, è autoinganno e illusione perfetta. Molto forti, belle e tremende sono le pagine di De Soldà sulle due grandi categorie di Sartre, rilette e inserite creativamente nel suo discorso: l’engagement e lo scacco ( echec). L’engagement, l’impegno politico dell’intellettuale, sono le mani sporche che amano gli uomini e le donne concreti contrapposte alle mani pulite. Lo scacco è il destino inesorabile dell’engagement: «Lo scacco, la sconfitta, è la condizione inaggirabile di ogni impresa umana». È l’esito di ogni engagement: «È la stessa cosa ubriacarsi in solitudine e guidare i popoli». Una frase, questa, che ha colpito molto Del Soldà, colpisce molto anche noi e ci disturba. Per questo l’autore cerca di trovare nell’ultimo Sartre un superamento di questa tesi molto simile a Qoelet o Leopardi, riuscendoci (a mio dire) solo in parte, quando rintraccia nel Sartre più maturo l’idea che «lo scacco è la negazione della negazione, affermazione della trascendenza, rifiuto della complicità col mondo, dunque innocenza».
E Del Soldà commenta: «Prendere il largo», e così ci svela dove si trovi per lui lo scacco dello scacco della vita: «Lo scacco come apertura… La partenza, l’arrischiato avventurarsi è il passaggio decisivo verso l’unico possibile compimento dell’essere umano. Un compimento che però coincide anche, inesorabilmente, con la sua sconfitta». E aggiunge: «Questa sconfitta non è un motivo per lasciar perdere, per non impegnarsi, per ubriacarsi in solitudine… è la forma che rende tragica e bella l’esistenza». Forse bella perché tragica, ma la tragedia non ha una soluzione buona: è scelta tra due mali. È difficile portare fuori Sartre dal suo capolavoro L’Essere e il Nulla, fargli davvero superare l’equivalenza tra una vita trascorsa ad ubriacarsi e una passata a condurre popoli. Non c’è riuscito, forse, neanche Sartre, anche se il lavoro principale di molti grandi autori maturi è liberarsi dalle idee tremende del giovane autore che sono stati, un lavoro però che finisce in uno scacco.
Nessuna impresa si compie, perché l’incompiutezza è semplicemente la condizione umana: Mosè non entrò nella terra promessa, il liberatore dalla schiavitù vide il popolo attraversare il Giordano ma lui terminò la vita fuori della terra che aveva sognato e per la quale si era impegnato per tutta la vita, in uno scacco tanto immenso quanto generativo di futuro. Leggendo il libro nasce fin dalle prime pagine l’attesa di un protagonista che dovrebbe esserci e non arriva: l’Ulisse dantesco. Arriva solo alla fine, ma per essere subito superato da un Ulisse, altrettanto grande e figlio dell’Ulisse di Dante: quello di Nikos Kazantzakis.
Anche il suo Ulisse, una volta tornato a Itaca, riparte per un ultimo viaggio, esce da sé, dopo aver detto ai compagni del suo folle volo queste parole: «Fate scivolare la nave in mare prima dell’alba, poi salutate la patria, ditele addio per sempre… perché all’alba partiamo per il viaggio senza ritorno». Nelle ultime righe Del Soldà dona a Ulisse nuovi compagni: «Piace pensare che a bordo ci siano posti e viveri per il vecchio Erodoto, per Platone non più diretto a Siracusa, per Hugo Marine, per il buon Montaigne, per Alexander Von Humboldt, per Isabelle Eberardt, per Kapuscinski, per Corto Maltese e per tutti coloro che sono convinti d’avere nell’avventura il proprio destino».