Smarrire Gesù, come successe a Maria e Giuseppe, può essere un avvenimento che rigenera e che apre alla serena gioia di seguire con entusiasmo il Cristo, il Figlio del Padre, mandato per dare la vita, per rialzare chi è caduto (di Giuseppe Forlai)

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Sono convinto che perdere Gesù possa essere una delle più grandi grazie della vita cristiana e intendo dire che è bene non ritrovarsi più tra le mani quel Dio perennemente bambino, amabile sì, ma che non vogliamo seguire, quel Gesù che sta dove lo metti come un soprammobile: <<Credi?>>. <<E sì cosa vuoi, a qualcosa bisogna pur credere!>>. <<Ma sì, pure io credo in Gesù. Lui, tanto, voleva bene a tutti>>.

Gesù diventa allora come il figlio piccolo dei vicini di casa: quando lo incontri per le scale lo saluti, magari lo coccoli anche… ma poi è bene che i genitori se lo portino via, tenendolo con la manina per non farci stare troppo in imbarazzo. E poi ognuno ha i suoi affari da sbrigare e la vita non è cosa da bambini!

Molti cristiani amano un Gesù infantile, e la loro fede resta infantile come colui che amano. Lo rispettano perché fa tenerezza, non perché li salva dal non senso e dal male (e a volte anche da loro stessi). La cosa più positiva che si può augurare a costoro, e che dobbiamo augurarci anche noi, è quella di perdere questo Gesù narcotizzato che in fin dei conti non esiste.

Smarrire Gesù, come successe a Maria e Giuseppe, può essere un avvenimento che rigenera e che apre alla serena gioia di seguire con entusiasmo il Cristo, il Figlio del Padre, mandato per dare la vita, per rialzare chi è caduto. Spesso mi chiedo e chiedo agli altri: a quale Gesù sto credendo? È importante farsi questa domanda, poiché il Signore stesso la fece ai suoi discepoli: <<Voi chi dite che io sia?>> (Mc 8,29). Egli non chiede: <<Credete che io esista oppure no?>>, bensì: <<Che idea ti sei fatto di me?>>.

Molti non credono all’esistenza di Dio; molti di più sono coloro che credono a un Gesù creato a misura, ora delle proprie aspettative, ora delle proprie paure.

C’è chi crede a un Gesù buono, che non se la prende con nessuno, che chiude gli occhi su tutto. È il Gesù di coloro che si giustificano dicendo <<ma alla fin fine Dio mi ama così>>! Ciò è vero, ma questo lo si sapeva già. Il problema è sapere quanto lo amo io. C’è chi crede a un Gesù padrone, che manda le disgrazie ora qui ora là lanciandole dalle nubi a occhi chiusi, per il semplice gusto di vedere quanto resistiamo prima di lanciare in cielo le nostre bestemmie.

C’è chi vuole un Gesù potente, che faccia giustizia con fermezza, facendo sapere a chi di dovere che <<non si può andare avanti così>>, e che chi ha sbagliato è giusto che paghi una volta per tutte.

C’è chi vuole un Gesù delle emozioni, presente solo nelle grandi occasioni, ma incapace di sostenerci nella fedeltà quotidiana.

C’è chi vuole credere solo al Gesù dei miracoli, delle visioni, dei pani moltiplicati e dei morti risuscitati, senza porsi mai il problema del cosa Dio abbia pensato come progetto per la propria singolare e irripetibile vita.

C’è chi crede al Gesù della nonna o della mamma, a quello raccontato dal parroco o dalla suora insegnante della scuola cattolica … e basta. Sì, certo, <<lui>> esiste perché mi fido di quello che mi hanno detto, ma io non so dove abiti, cosa mi dica, perché si sia fatto uomo e morto in croce per me (e poi, in fondo, chi glielo ha chiesto di fare tutte queste cose?).

C’è chi tiene nel cassetto un Gesù pronto uso da pregare nei momenti di crisi o di dolore e da dimenticare nel giorno della festa, del successo o della gioia. È questo il Dio di chi ha deciso che tristezza e vittimismo vadano a braccetto con la fede, e solo con essa.

Rinnegare un credo che ha per oggetto questo Gesù, vuol dire fare lutto per un Dio che non c’è, disponendosi a un viaggio interiore che si lasci alle spalle una fede rimasta alla prima comunione e che quindi è diventata piccola come l’abitino bianco di quel giorno di festa: lo si guarda con simpatia, ma non lo si indossa più! Grazie a Dio, diciamo noi, poiché esso non rende più ragione della complessità delle situazioni che la storia personale ci riserva.

Perdere Gesù, come Maria e Giuseppe, vuol dire ritrovare Cristo nel Tempio, nella casa del Padre, casa di preghiera e di lode, ma soprattutto casa dell’ascolto, luogo spirituale in cui la verità su Jhwh non si inventa ma si riceve. Il Gesù che lì ritroviamo è colui che ci ricorda che bisogna occuparsi delle cose del Padre celeste (ma non nel senso che abbiamo un altro dovere da compiere), che siamo figli scelti, amati, pensati, che la sua ricchezza è anche la nostra. Chi ritrova Cristo ritrova se stesso, libero da quelle false aspettative che hanno creato Gesù inesistenti, e si riscopre adulto e non più bambino, come dice Paolo: <<Così anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio… perché ricevessimo l’adozione a figli… Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio>> (Gal 4,3-7).

L’episodio dello smarrimento di Gesù dodicenne è molto simile come trama a quello in cui le donne si recano alla tomba del Maestro morto: anche qui siamo nei giorni di Pasqua, anche qui ci troviamo a Gerusalemme, anche qui lo smarrito non si fa trovare (cfr. Lc 24,1-8). Le donne cercano un Gesù morto su cui piangere e commiserarsi, ma quest’uomo non esiste più. Sono sorprese più che contente. È interessante notare come in nessun racconto evangelico la scoperta della tomba vuota susciti gioia e speranza, bensì perplessità: addirittura nel Vangelo di Marco le donne recatesi al sepolcro scappano via piene di timore e spavento, e tanta fu la paura che non raccontarono niente a nessuno (cfr. Mc 16,8).

Quando ci accorgiamo di avere perso il nostro Gesù, rimaniamo stupiti e rammaricati come le pie donne, anche se era poca cosa l’illusione religiosa in cui ci cullavamo: speravamo che lui fosse così, che facesse questo o quest’altro (cfr. Lc 24,21). E invece no.