È stato bello celebrare l’inizio del secondo anno del cammino sinodale della Chiesa italiana con il Congresso Eucaristico di Matera lo scorso 22-25 settembre. Il Cardinale Matteo Zuppi nel saluto che ha rivolto al Papa al termine della Messa ha parlato di ritrovare il gusto del pane, di scacciare la tentazione dell’individualismo che porta divisione fino alla guerra, «che brucia i campi di grano, toglie il pane e fa morire di fame, trasforma i fratelli in nemici».
Siamo in autunno, è tempo di semina. Il primo anno sinodale è servito per la preparazione del terreno, una sorta di aratura delle comunità diocesane. Sono stati preparati i solchi. Si sono sperimentate gioie e difficoltà. Coraggiosamente non si è tenuta nascosta che «la partecipazione e i risultati della fase dell’ascolto diocesano sono stati inferiori alle aspettative. … È prevalso fra i laici un atteggiamento ancora delegante e tra i preti una qualche diffusa diffidenza».
Non dobbiamo essere pessimisti. Anche lì dove il terreno non è stato sottoposto ad opportuna lavorazione, si può riprendere agevolmente il cammino. È noto che in agricoltura è possibile eseguire anche la semina su «sodo», cioè senza lavorare il terreno, grazie all’utilizzo della seminatrice. Questo sistema è adatto alle semine su terreni difficili, come possono essere alcune diocesi nelle quali lo spirito sinodale ancora trova ostacoli nei cuori. La seminatrice può essere rappresentata dalle diocesi vicine che hanno fatto un buon percorso sinodale. Non si tratta di imitare, ma di lasciarsi contaminare da una buona prassi, iniziando da interessi che sono condivisi dal popolo di Dio. È importante che i vescovi trovino occasioni per incontrarsi, al di là delle riunioni ufficiali e parlare della loro gente e fare «comunione».
Questi sforzi sembrano confermare quello che il cardinale Zuppi ha dichiarato proprio sulla «comunione» commentando il documento della CEI I cantieri di Betania che è lo «strumento di riferimento per il prosieguo del Cammino che intende coinvolgere anche coloro che ne sono restati ai margini»: «dobbiamo imparare a far crescere [la comunione], a rendere le nostre comunità case di relazione intelligente tra di noi e con tanti, cosa che è possibile se ascoltiamo e mettiamo in pratica la Parola di Dio».
Sono tre i cantieri di ascolto «orientato, per poter raccogliere narrazioni utili a proseguire il cammino, per acquisire gli strumenti con cui costruire le novità chieste dallo Spirito»: quello della strada e del villaggio; quello dell’ospitalità e della casa; quello delle diaconie e della formazione spirituale. Tante le diocesi italiane che potrebbero cogliere le occasioni che offre la pietà popolare, che è il «sentire comune» del popolo, per innestare processi sinodali. Si tratta di valorizzare percorsi già intrapresi dal basso, come le feste legate alla mietitura, ai raccolti.
Nel cuore dell’Appennino meridionale, ad esempio, c’è un itinerario antropologico tra Molise e Campania, le Feste del grano, nelle provincie di Avellino, Benevento e Campobasso, dove il grano diventa materia artistica per la realizzazione di carri interamente rivestiti di spighe e paglia intrecciata. Ex voto monumentali attraverso i quali le comunità di Jelsi, San Marco dei Cavoti, Foglianise, Fontanarosa, Flumeri, Villanova del Battista e Mirabella Eclano rifondano periodicamente la propria identità. Il grano, il più prezioso cereale mediterraneo, ormai svilito nelle logiche di mercato e purtroppo soffocato dalle dinamiche della guerra, riacquista il suo valore simbolico e sociale, e si fa arte e seme di vita comunitaria. Nei mesi estivi le opere d’arte realizzate da sapienti artigiani locali, custodi e maestri per le nuove generazioni, vengono portate in processione dall’intera comunità. Le genti di questi paesi «si sono riconosciute come una nuova comunità patrimoniale, un’unica comunità di rete, nel nome delle comuni tradizioni rituali legate al grano e ai propri santi patroni».
Cantieri aperti «della strada e del villaggio» già predisposti ad accogliere il seme della sinodalità, facendo leva sull’antropologia condivisa di queste comunità, espressa nella più sana pietà popolare, e al tempo stesso bisognosa di rinnovamento e di apertura per farsi «Chiesa in uscita», e per far sentire tutti «a casa» nella Chiesa. Queste esperienze portano già in sé «il tempo per avere cura delle relazioni», e sono «libere» dall’efficientismo e dall’affanno.
In queste settimane di celebrazione dell’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II ci piace ricordare Leonidas Proaño, padre conciliare proveniente dall’Ecuador, «vescovo degli indios», una delle figure più carismatiche della Chiesa in America Latina. I suoi genitori, per sbarcare il lunario, intrecciavano cappelli di paglia di Panama e fin da bambino aveva imparato quest’arte e durante le vacanze estive anche lui lavorava la paglia insieme agli altri compaesani. Sosteneva che esistono tre immagini di Chiesa: quella «conservatrice», apologetica, moraleggiante, immobilista; quella «modernizzata», mondana, che ha inteso il Concilio come superficiale adattamento al tempo presente; quella «convertita» che prende sul serio l’idea conciliare del popolo di Dio in cammino, che si fonda su Cristo e sul suo potere straordinario di trasformazione, per essere tutti i giorni segno di salvezza in mezzo al mondo.
Il legame col grano, per il «vescovo col poncho», non è venuto mai meno. Ci commuovono i racconti di chi lo vedeva talvolta, per riannodare i suoi pensieri, per fare discernimento, passare il tempo intrecciando la paglia. Le sue mani portavano le cicatrici delle vesciche e dei calli, segno del senso comunitario del lavoro nei cantieri che costruiscono la Chiesa bella del Concilio.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo