L’evangelizzazione «non comincia con la morale, ma con il kerygma»; o per dirla nel linguaggio del Nuovo Testamento, «non con la Legge, ma con il Vangelo». È quanto sottolineato dal cardinale Raniero Cantalamessa, durante la seconda predica di Quaresima tenuta stamattina, venerdì 10 marzo, nell’Aula Paolo VI , alla presenza di Papa Francesco.
Il predicatore della Casa pontificia ha sviluppato il tema: «Il Vangelo è potenza di Dio per chiunque crede (Rm 1, 16)». E in proposito, ha chiesto quale sia il nucleo centrale e cosa intenda san Paolo per Vangelo quando dice che esso «è potenza di Dio per chiunque crede». L’apostolo nella lettera ai Romani annota: «Si è manifestata la giustizia di Dio! (Rm 3, 21)». Dunque ecco qual è la novità, messa in luce dal porporato cappuccino: non sono gli uomini che, «improvvisamente, hanno mutato vita e costumi e si sono messi a fare il bene»; il fatto nuovo è che, «nella pienezza dei tempi, Dio ha agito, ha rotto il silenzio, ha teso per primo la mano all’uomo peccatore».
La parola di Dio oggi dice a una Chiesa che, «pur ferita in se stessa e compromessa agli occhi del mondo, ha un sussulto di speranza»; che bisogna ripartire dalla persona di Cristo, parlare di lui «a tempo e fuori tempo». Non dare «mai per esaurito, o supposto, il discorso su di lui. Gesù non deve stare sullo sfondo, ma al cuore di ogni annuncio», ha chiarito Cantalamessa, ricordando che dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI all’Evangelii gaudium di Papa Francesco, il tema dell’evangelizzazione è sempre stato al centro dell’attenzione del Magistero. Ad esso, ha spiegato, hanno contribuito le grandi encicliche di Giovanni Paolo II , come pure l’istituzione del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, promosso da Benedetto XVI . Analoga preoccupazione, ha aggiunto, si nota nel titolo dato alla costituzione per la riforma della Curia romana Praedicate Evangelium e nella denominazione Dicastero per l’Evangelizzazione, data all’antica Congregazione di Propaganda Fide. La medesima finalità «è assegnata ora principalmente al Sinodo della Chiesa».
Il cardinale ha osservato che la definizione più «breve e più pregnante» dell’evangelizzazione è quella che si legge nella prima Lettera di Pietro. In essa, gli apostoli sono chiamati: «coloro che vi hanno annunciato il Vangelo nello Spirito Santo (1 Pt 1, 12)». Vi troviamo indicati sia «l’essenziale sull’evangelizzazione, e cioè il suo contenuto: il Vangelo», sia il «suo metodo nello Spirito Santo».
Cosa si intende con la parola “Vangelo”, ben lo spiega san Paolo, che per primo ha usato questa parola greca e «l’ha resa canonica nel linguaggio cristiano». La illustra nella Lettera ai Romani, quando afferma che «è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (1, 16)».
In effetti, ha rimarcato il cappuccino, per la riuscita di ogni nuovo sforzo di evangelizzazione «è vitale avere chiaro il nucleo essenziale dell’annuncio cristiano, e questo nessuno lo ha messo in luce meglio dell’apostolo nei primi tre capitoli della Lettera ai Romani». Il messaggio dell’apostolo in quei capitoli si può riassumere in due punti: «primo, qual è la situazione dell’umanità dinanzi a Dio in seguito al peccato; secondo, come si esce da essa, cioè come si è salvati per la fede e fatti nuova creatura». Paolo fa riferimento all’ira di Dio. Il peccato fondamentale, ha detto il porporato, «l’oggetto primario dell’ira divina», è individuato «nell’asebeia, cioè nell’empietà». Cosa sia, esattamente, egli lo spiega, dicendo che consiste «nel rifiuto di glorificare» e di «ringraziare Dio». Il non glorificare e ringraziare abbastanza il Signore, «a noi sembra, sì, un peccato, ma non così terribile e mortale». Bisogna capire cosa si nasconde dietro di esso, ha aggiunto Cantalamessa, cioè «il rifiuto di riconoscere Dio come Dio, il non tributare a lui la considerazione che gli è dovuta». Consiste, nell’“ignorare” Dio, dove “ignorare” non significa tanto «non sapere che esiste», quanto «fare come se non esistesse».
Ridotto al suo «nucleo germinativo», il peccato è negare questo «riconoscimento»; è il tentativo, da parte della creatura, di «cancellare, di propria iniziativa, quasi di prepotenza, la differenza infinita tra essa e Dio». Il peccato attacca, in tal modo, «la radice stessa delle cose». È qualcosa di molto «più fosco e terribile di quanto l’uomo possa immaginare o dire». Se gli uomini, ha evidenziato il predicatore, «conoscessero da vivi, come lo conosceranno al momento della morte, cosa significa il rifiuto di Dio, morirebbero di spavento».
Tale rifiuto ha preso corpo nell’idolatria, per la quale «si adora la creatura al posto del Creatore». In essa l’uomo non “accetta” Dio, ma «si fa un dio; è lui a decidere di Dio, non viceversa». I ruoli vengono invertiti. Oggi, ha detto il porporato, questo «tentativo antico ha preso una veste nuova», che non consiste «nel mettere qualcosa, neppure se stessi, al posto di Dio, ma nell’abolire, puramente e semplicemente», il ruolo indicato dalla parola “Dio”. Si tratta di «nichilismo! Il Nulla al posto di Dio».
Paolo prosegue «la requisitoria mostrando i frutti che scaturiscono, sul piano morale, dal rifiuto di Dio», ha continuato Cantalamessa. Da esso deriva «una generale dissoluzione dei costumi», un vero e proprio «torrente di perdizione» che trascina l’umanità in rovina. La cosa a «prima vista sconcertante è che san Paolo fa di tutto questo disordine morale, non la causa, ma l’effetto dell’ira divina». Dio non «vuole» certamente tali cose, ma le «permette» per far comprendere all’uomo dove porta il rifiuto di lui. L’attualità del messaggio dell’apostolo sta nel rimedio che il Vangelo propone a questa situazione, ha concluso il predicatore. Esso non consiste «nell’impegnarsi in una lotta per la riforma morale della società, per la correzione dei suoi vizi».