Sempre aperti. Come gli ospedali, come la porta di casa, come le braccia dell’amico. Non a caso, con felice intuizione i santuari sono stati definiti «cliniche dello spirito», luoghi in cui la cura consiste nello stare con Dio, spesso alla scuola di Maria, nella preghiera che si apre alla carità.
«Anche durante la pandemia non siamo mai stati chiusi – osserva padre Mario Magro presidente del Collegamento nazionale dei santuari –. I santuari sono stati una luce di speranza per i tanti che erano nella paura, dando la possibilità di incontrare il Signore e di affidarsi a Lui».
Il Covid però oltre a limitare le celebrazioni ha modificato il calendario degli eventi. Il 56° Convegno nazionale dei rettori e degli operatori dei santuari che si conclude oggi a Villa Cagnola di Varese, si sarebbe dovuto tenere due anni fa. Al centro. “la forza evangelizzatrice della pietà popolare”. I cui puntelli, se così si possono chiamare, sono l’umiltà e la semplicità.
«La pietà popolare ancora mantiene valori spirituali e religiosi che la modernità tende a trascurare – aggiunge padre Magro rettore del santuario di Sant’Antonio di Messina –. La nostra fede, infatti, non è solo razionale. Tante volte fa leva anche sulla corporeità, sui gesti, sui linguaggi».
Tante volte parlare di gente “semplice” è un modo per sminuirla. Vale anche per la pietà popolare, credo.
Certo un po’ dà fastidio, tanto più che sappiamo quanto sia importante, quanto faccia presa più di ogni altro aspetto, la valorizzazione dell’esperienza umana. La pietà popolare fa leva soprattutto su questi elementi. Trascurare o dire che sono cose da poco significa limitare la grazia di Dio che opera al di là delle nostre idee e opinioni.
Tornando al tema del Convegno, quali sono i principi per cui la pietà popolate è evangelizzatrice?
Parlerei di provocazioni che creano problemi enormi alla cultura moderna. Vengono da elementi come la trascendenza del mistero che passa anche attraverso la semplicità, la dimensione della corporeità di cui parlavo prima, il senso della festa, tante volte mortificata dal mito del dominio, dell’utile, dell’efficienza.
Si tratta poi di valorizzare lo stare insieme.
Certo, la pietà popolare è l’esperienza di un popolo che cammina, valorizzando la condivisione, la solidarietà, e tutti quegli aspetti del sentire umano tante volte trascurati in nome di una fede più razionale.
In Evangelii gaudium, il Papa dice che la pietà popolare è anche un modo di essere missionari. Come accade?
È il principio della Chiesa in uscita, presente là dove viviamo, a scuola, sul lavoro, in famiglia. In tal senso la pietà popolare può rappresentare una via maestra per la missione di ciascuno di noi: gente che va incontro ai fratelli e li aiuta a ritornare a Dio.
Non mancano però le distorsioni. Si pensi agli inchini delle statue davanti alle case di persone di malaffare.
Inutile negare, queste devianze ci sono, anche se non molto diffuse. La realtà nel suo insieme è buona, si tratta di impegnarsi al massimo come ministri di Dio per purificarle, per correggere situazioni che complessivamente sono poche.
Dal settentrione al centro, al mezzogiorno, ci sono modi diversi di vivere la pietà popolare?
Come stiamo verificando durante il Convegno, il Sud ancora vive di queste dimensioni di fede, attinge molto alla pietà popolare mentre al Nord il lucignolo si è un po’ spento. Bisogna riaccendere la fiammella. Se la pandemia, come noto, ha fatto scendere la partecipazione, la pietà popolare può offrire l’opportunità di riagganciare la gente che sta rimanendo ai margini della Chiesa.
Sarà lei questa sera a tirare le conclusioni del Convegno. Può anticiparci un pensiero?
Dirò la convinzione che la pietà popolare può diventare una sfida per la nuova evangelizzazione. E che ne possiamo trarre il messaggio cristiano che vive in noi e attorno a noi. La solidarietà si sviluppa dove le persone camminano insieme e si aiutano. Dove si fa famiglia anche con chi non frequenta.