In apertura degli esercizi, padre Bovati ha letto le righe di un breve messaggio in cui Francesco, alle prese con un raffreddore, scrive: «Vi accompagno da qui. Farò gli Esercizi nella mia camera, seguendo le prediche di padre Bovati, che ringrazio tanto. Prego per Voi: per favore, fatelo per me».
La preghiera, ha detto e ribadito padre Bovati, è un «cammino» che segue «tracce divine», e l’emblema di questo dinamismo è Mosè. Quando il Patriarca, come racconta il libro dell’Esodo, si reca nella tenda del convegno, posta fuori dell’accampamento, quello, ha sottolineato il predicatore, «è il tragitto del desiderio», del lasciare tutto per incontrare Dio, e la nube che scende sulla tenda mentre Mosè si avvicina è il segno dell’Altissimo che «gli va incontro». Questo, ha osservato padre Bovati, «rovescia un’idea piuttosto diffusa che identifica la preghiera con una parola che l’uomo rivolge al Signore», quasi una «forma della recitazione», mentre la «preghiera autentica è invece fondamentalmente un’esperienza profetica, quella per cui la creatura umana può nel silenzio ascoltare la voce del Signore». È un «faccia a faccia» in cui, dice la Bibbia, Dio parla a Mosè «come a un amico».
Ecco un primo valore della preghiera, che guadagna quella che il teologo gesuita ha definito «prodigiosa familiarità».
Ecco, la familiarità con Dio non ha nulla a che vedere con la dimestichezza negli affari religiosi, neppure con una buona cultura teologica o biblica. Essa è invece il frutto esclusivo della preghiera autentica, nella quale è dato all’uomo di vedere, gustare il disegno amoroso di Dio, il suo volere benefico da attuare concretamente, prontamente e generosamente. Senza questa esperienza di familiarità non c’è vita autenticamente religiosa ma solo — nel migliore dei casi — il mestiere delle cose sacre.
Ovviamente questa confidenza non si improvvisa, «è punto di arrivo di un processo». È in certo modo una trasfigurazione simile a quella che Mosè vive con l’esperienza del roveto. Per giungere a questa intimità con Dio, ha sostenuto padre Bovati, «è necessario fare esperienza ripetuta del fuoco» e in ciò il roveto può «rappresentare — ha affermato — la persona umana nella sua fragilità, debolezza e miseria come quella di un rovo, che però è investita da una potenza di vita perenne: il fuoco».
Non si tratta semplicemente di rinfocolare un poco il fervore del nostro animo mediante qualche opportuno esercizio di devozione, ma piuttosto di assumere con rinnovato impegno di verità, con una sincera apertura del cuore il dono che Gesù è venuto a portare nel mondo. Quando esclamava: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!».
È il fuoco di cui ha un continuo bisogno il mondo di oggi, nel quale per il predicatore si ravvisano «condizioni di bisogni spirituali urgenti e anche drammatici, che richiedono forze spirituali di guarigione che solo Dio può dispensare».
La Chiesa sempre è desiderosa di rinnovarsi spiritualmente, è chiamata a un processo di riforma che non può certo limitarsi a provvedimenti disciplinari e amministrativi, perché lo Spirito sollecita slanci e martirii che solo i santi possono assumere. Ciò che possiamo fare ora, nella consapevolezza della nostra responsabilità di credenti, è di «salire nella stanza al piano superiore», come narrato negli Atti degli apostoli, e nel segreto, perseveranti e concordi nella preghiera, attendere umilmente la forza dello Spirito Santo che scenderà, secondo la promessa, su tutti coloro che pregano.
In un percorso meditativo che intreccerà il libro dell’Esodo con il Vangelo di Matteo, oltre che la lettura dei salmi, l’ultima «icona» che padre Bovati ha indicato è quella di Mosè che si toglie i sandali nell’avvicinarsi al roveto in fiamme. È la sosta davanti al divino, è l’invito «a sostare, a non distrarre il cuore da altri pensieri» ma a concentrare all’incontro con Dio «tutte le energie del cuore».