Accanto a questi ce ne sono altri che, altrettanto feriti dall’assenza dell’eucaristia e dei preti, sembrano monaci, ma senza noviziato. Sono rassegnati a non voler colmare vuoti incolmabili e provano a resistere rivolgendosi alla vita — proprio questa qui, claustrofobica negli spazi e impazzita nei tempi — cercando da rabdomanti quella grazia la quale, non più disponibile nei sacramenti, non sono disposti a credere abbia lasciato il mondo. Affinano i sensi per lasciarsi trovare. Disimparano le regole della conversazione per impararne un’altra, come quando si videoconnettono e inciampano su parole fuori sincrono, per cui aumentano le pause, sostano con gli sguardi ed esercitano la pazienza della ripetizione. Visto che monaci si ha da essere, non cercano il carisma di un fondatore, ma pratiche di una regola da declinare e praticare, non importa in che ordine, basta sia comune.
«Nei monasteri il tempo del lavoro non è tempo sottratto alla preghiera, né il tempo della preghiera è sottratto al lavoro. Non si prega meno perché si lavora, né si lavora meno perché si prega. Per realizzare questa alchimia […] i monaci inventarono il “tempo-qualità”: mentre l’horologium scandiva rigorosamente il “tempo-quantità”, il chronos, un altro orologio che i greci avrebbero chiamato kairos, allargava questo stesso tempo» (Luigino Bruni) indirizzandolo verso l’infinito. Soprattutto le monache, non potendo barare a causa del genere, impararono che — è vero — si poteva assumere la forma di Cristo diventando misteriosamente ciò che si mangiava, ma lo si poteva anche vivendo semplicemente ciò che si faceva, come un corpo. Non potendo darsi l’eucaristia, trovarono e parteciparono la grazia in luoghi insospettati e comuni: nell’ospitalità, nel frutto del lavoro (birra e formaggio, ad esempio), in giardini ordinati, in miniature e profumi, persino nella convivenza da consorti, senza poter fuggire, nella salute e nella malattia, credendo che in quel tempo Dio sta.
Liturgia delle Ore: i monaci che l’hanno inventata non sono tirchi, non l’hanno tenuta per loro, ma non è solo il titolo del libro che ogni battezzato ha tutta la dignità e l’autorità per aprire e usare. È piuttosto l’azione di un popolo che offre il tempo a Dio, per sé e per gli altri. Per i monaci è un dovere, o non reggerebbero il mondo. Forse anche per noi, oggi. All’ora mediana si recita un frammento del Salmo 118 (119) e alla prima ora della notte ci si accuccia sotto le parole del vecchio Simeone. Ma all’ora quarta (diciamo le 10) si organizzano gli spazi e i compiti, e non è una passeggiata; e all’ora undecima (le 18), almeno nelle grandi città, è convocato sui balconi un coro improvvisato di sconosciuti che prova a agirsi come un tutto. E ovviamente, a qualsiasi ora, quando arriva una chiamata da un amico bisognoso di parole, ci si ferma, anche solo per condividere una lacrima e tenere viva una promessa.
È vero, le case delle chiese sono chiuse e i preti presiedono con frazioni di popolo minuscole, ma la Chiesa non smette di celebrare. Io, per fatica o per vizio, posso smettere. E per fortuna anche essere riaccolto. Ma i santi e le sante, che della Chiesa fanno parte piena, non interrompono mai il loro canto di lode all’Altissimo e di intercessione per il Popolo di Dio che cammina lungo le strade della storia. E la storia è fatta di urgenze, mai evidenti e confuse come oggi. Se le vivessimo per quello che sono e le presentassimo all’Altissimo per quello che si mostrano alla luce della Parola di Dio, forse, faremmo solo cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza. Sacerdoti, senza essere preti. «Di grande sta avvenendo qualcosa che alla fede non deve sfuggire, e che, nell’esperienza cristiana, rivela una sacramentalità che non dipende esclusivamente dai sacramenti» (Giuseppe Bonfrate).
di Marco Ronconi