Il 9 maggio è stato beatificato il giudice Livatino, barbaramente ucciso dalla “stidda” nel settembre del 1990. Il procedimento canonico non è stato per nulla facile poiché ha dovuto farsi strada tra varie domande, molte delle quali – probabilmente – ancora affiorano e meritano attenzione per capire meglio la scelta della chiesa cattolica di additare Livatino come martire. Si possono riassumere attorno a un unico polo con diverse sfaccettature: “perché un servitore della Stato, ucciso dalla malavita viene dichiarato beato? Non sono stati in tanti, purtroppo, a fare la stessa fine? Qual è (se c’è) la differenza fra un eroe della giustizia e un martire? Cosa c’è di così straordinario nella vicenda di Livatino? E ancora: come tradurre l’espressione di San Giovanni Paolo II che ha definito Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”? I martiri cristiani non sono riconosciuti tali perché uccisi in odio alla fede? Siamo proprio sicuri che le mani dei killer che uccisero “il giudice ragazzino” agivano per fare uno sfregio alla sua fede?”
In questo contributo non ho la pretesa di rispondere a queste domande ma vorrei – come posso – semmai, a mettermi in ascolto di esse per approfondire tanto il tema della beatificazione quanto quello del servizio alla giustizia e per tentare di mostrarne il nesso e la luce che da una parte (martire della fede) va all’altra (martire della giustizia) e viceversa.
Desidero prendere l’avvio alla riflessione dalla frase di San Giovanni Paolo II e che ho scelto come titolo di quest’articolo proprio perché ha costituito la stella polare di questa vicenda. Il Santo Padre, che era stato in visita ad Agrigento nel 1993 (quindi tre anni dopo l’uccisione di Livatino), poco prima della Messa alla Valle dei Templi aveva avuto modo di incontrare i genitori del giudice e di raccogliere tutto il loro dolore e la loro amarezza. Si era fatto raccontare i fatti ed era rimasto colpito della descrizione che in tanti facevano di questo giudice come di una persona schiva, estremamente ligia al dovere, equilibrata e animata da una fede autentica che alimentava quotidianamente con la preghiera e con la partecipazione alla S.Messa. Nel frattempo iniziavano a uscire le prime pubblicazioni su Livatino, molte delle quali promosse dalla prof.ssa Ida Abate, che era stata sua insegnante di lettere classiche al Liceo “Ugo Foscolo” di Canicattì e che ne conosceva bene i tratti distintivi del carattere, dell’intelligenza e dell’impegno. Oltre ai pochissimi interventi pubblici vi erano anche le agende private del giudice con delle annotazioni che egli faceva su quanto gli capitava. Le pagine si chiudevano quasi sempre con la sigla “STD” che, ben presto fu decifrata: “Sotto la tutela di Dio”. Dal suo ambiente di lavoro si raccoglievano notizie che riguardavano il suo modo di vivere. Per esempio – solo per rimanere alla vicenda finale – si seppe che rifiutò la scorta (offertagli proprio perché stava lavorando a delle indagini molto delicate) per non impensierire gli anziani genitori e per non mettere in pericolo la vita di alcuni padri di famiglia. Il quadro che si andava delineando era quello di un giudice che, come tanti altri, aveva opposto una resistenza netta alla criminalità organizzata e si era speso con tutte le sue forze attorno all’ideale della giustizia; nonostante la giovane età egli aveva mostrato grande fermezza nelle scelte, nell’interpretazione del suo ruolo e di come questo potesse cambiare le sorti della società. In sintesi, un giudice che, nella fedele e cosciente ottemperanza al suo dovere, aveva deciso di vivere “per” qualcosa, per l’ideale della giustizia e per i valori da essa promossi.
Insieme a questo primo aspetto – se vogliamo quello più evidente – si sentì il bisogno di approfondire quello della fede cristiana che animò la sua vita sin dalla più tenera età. Livatino non amava ostentare la sua fede. Semplicemente la viveva nelle forme e nei modi che gli erano consoni: la preghiera personale, la partecipazione alla S.Messa, la lettura della Bibbia, l’approfondimento di alcuni testi di teologia etc…Il tutto con estrema umiltà e nascondimento. Si potrebbe dire di lui quello che Gesù raccomanda a proposito di alcune opere di pietà come la preghiera, il digiuno o la carità: fatele senza suonare la tromba, senza cercare le prime file e senza far vedere agli altri quanto avete deciso nel cuore. In una parola, nel segreto (letteralmente “in maniera criptata”), in modo che nessuno veda l’azione religiosa in se ma sia visibile l’effetto di quell’azione, cioè la testimonianza. Credo che il criterio scelto da Livatino sia stato proprio questo: non una fede da mostrare nelle forme ma da rendere leggibile nella testimonianza.
Su questo polo di dimensione credente di Livatino si è concentrata l’indagine diocesana prima e quella della Santa Sede, dopo, condotta magistralmente da Mons. Bertolone nella qualità di Postulatore (al quale spetta il compito di svolgere le indagini sulla vita del servo di Dio di cui si tratta, per conoscere la sua fama di santità e l’importanza ecclesiale della causa). La raccolta delle testimonianze del e sul giudice Livatino ha portato ben presto a comprendere che il primato di Dio nella sua vita era assoluto e principiale. Era, cioè, posto al principio e come principio di ogni cosa, di ogni scelta, di ogni attività, di ogni osservanza. Il processo canonico che culmina nel pronunciamento di Papa Francesco trova in questo punto il suo asse fondamentale. E’ vero che Livatino è stato un servitore della giustizia ma, ancor prima è stato un credente che ha cercato, con tutte le sue forze, di servire Dio e ha servito la giustizia mosso dalla forza di Dio, dalla sua grazia e dalla sua luce. In sintesi: se è vero che Livatino ha vissuto per qualcosa (per la giustizia) è altrettanto vero che innanzitutto egli ha vissuto per Qualcuno (per il Dio di Gesù Cristo). La sigla dei suoi diari è stata la cifra della sua vita e del suo impegno. Egli, prima ancora che dedicato alla causa della giustizia, si sentiva consegnato a Dio, sotto la sua tutela, affidato alla sua misericordia, obbediente alla sua Parola. La scelta di fede, alimentata quotidianamente nell’Eucarestia e nella preghiera personale, è stata l’impalcatura forte sulla quale Livatino ha costruito l’edificio della giustizia, dei processi, della dedizione alla verità, della correttezza, del coraggio per non scendere a compromessi o per non accettare scorciatoie. Il grappolo fecondo della sua testimonianza era alimentato dalla linfa di grazia del suo rapporto forte con Dio, vissuto con semplice umiltà, fino alle estreme conseguenze. Questi presupposti mostrano che tra i due poli (giustizia e Dio) non solo non si può attivare un braccio di ferro ad excludendum ma, nell’interpretazione esistenziale di Livatino, bisogna leggerli insieme nella logica della causa-effetto: proprio perché si è posto sotto la tutela di Dio egli ha deciso di vivere la professione del magistrato e del giudice in modo impeccabile e coerente. La scelta di vita abbracciata sin dalla più tenera età è stata concepita come risposta a una vocazione, ad una chiamata a vivere nel mondo (e in quel mondo particolare e delicato che è l’amministrazione della giustizia) da credente a tutto tondo. Il Concilio Vaticano II (1962-1965), raccogliendo i molteplici inviti della Bibbia, aveva insistito molto sulla necessità che tutti i battezzati si impegnassero a condurre una vita santa poiché tale proposta – così come Gesù l’ha formulata nei Vangeli – non è appannaggio per pochi ma è alla portata di tutti. E non si tratta di fare cose straordinarie ma di vivere in modo evangelico ogni scelta, lasciandosi guidare dall’Amore che si fa dono e riempiendo di Verità ogni battito del cuore. Livatino, figlio di una chiesa post-conciliare, cresciuto in un contesto ecclesiale stimolante che tanto si era impegnato a promuovere questo concetto di santità laicale, ha creduto fino in fondo che la proposta del Vangelo è una proposta di bene, di bellezza e di pienezza e si è lasciato guidare passo passo da Dio. Nella scelta della giustizia ha intravisto la “sua” strada, quella alla quale il Signore lo chiamava concretamente, per rispondere alla vocazione di una vita santa. Intravista la strada e presa la decisione di percorrerla ha mostrato fedeltà e perseveranza. Per dirla con le parole di Gesù, una volta messo mano all’aratro non si è voltato indietro ma ha lavorato assiduamente affinchè nella pratica della giustizia fosse rintracciabile l’impronta di un Dio che continua ad amare infinitamente l’uomo e lo vuole libero dalla schiavitù del male, del peccato e di ogni forma di inganno.
“Martire della giustizia e indirettamente della fede”. Alla luce di questa breve riflessione, forse, risulta più chiara l’intuizione di San Giovanni Paolo II confermata dalla scelta di Papa Francesco. Chi ha deciso di togliere di mezzo Livatino pensava di causare un danno alla giustizia eliminandone un servitore fedele e generoso. La “stidda” agrigentina aveva architettato il tutto individuando in Livatino un bersaglio facile (perché senza scorta e abitudinario) e importante (per le indagini che stava conducendo). Lo ha fatto e pure barbaramente. Ma mentre sventrava quel corpo indifeso, come si fa con una conchiglia trovata per caso, è venuta fuori una perla, preziosa e purissima. Attraverso la morte è emersa tutta la portata della vita che Livatino aveva deciso di spendere per Dio. “Indirettamente”, così è la strada obbligata per la santità, perché i santi non si mettono in mostra ma, al contrario, vivono nascosti in Dio e in una condizione di normalità. Solo alla fine emerge la Forza che li ha spinti, l’Amore che li ha abitati, la Sapienza che li ha condotti fino alla misura più alta affinchè dalla loro morte sorgesse ancora la vita e la speranza.
In questo modo la scelta della chiesa di beatificare Livatino si pone come riconoscimento per quello che egli è stato e come modello per quello che ogni cristiano è chiamato ad essere, nella certezza che ponendosi sub tutela Dei si fa sempre centro e si vive ogni scelta in modo pieno, anche se il prezzo da pagare è alto e si chiama “martirio”.