Sangue chiama sangue. Si dice così a voler indicare la spirale della violenza e dell’odio, una “logica” fondata sugli istinti che spesso diventa ferrea, impossibile da scardinare, interrompere, rovesciare. Però la stessa espressione si può leggere in un altro modo, opposto: se vedi un uomo sanguinante quella vista richiama il tuo di sangue, ti tocca nelle viscere, puoi provare compassione, commuoverti e muoverti in soccorso. È il richiamo della pietà di cui parla Daniele Mencarelli nella sua breve riflessione pubblicata in questa stessa pagina, è la “logica”, più grande, della misericordia, che trova l’espressione più riuscita nella parabola del buon samaritano. Tutto parte dalle ferite che ancora sanguinano, dal riconoscersi feriti, tutti feriti in quanto uomini. «L’esistenza», scrive il poeta francese George Bataille, «non si trova dove gli uomini si considerano isolatamente, essa comincia con le conversazioni, il riso condiviso, l’amicizia […] Nella misura in cui le esistenze appaiono perfette e compiute, rimangono separate, chiuse in se stesse. Si aprono solamente attraverso la ferita, che è in loro, del non compimento dell’essere».
Riconoscersi feriti vuol dire ammettere e accettare la propria incompiutezza. Il Papa ha spesso indicato il cristiano come uomo dal “pensiero incompiuto” a salvaguardia da ogni rischio di chiusura ideologica. Ne ha parlato l’altro ieri su queste pagine Marco Bracconi quando ha paragonato il gesto del Papa che è andato a piedi per via del Corso a pregare all’irruzione della vita dentro i rigidi confini dell’esattezza, quell’esattezza che «è l’esatto opposto della spiritualità, uno schema di perfezione geometrica che riduce tutto a moltiplicazione, anche ciò che è umano e che per sua natura è imperfezione, se vogliamo eccedenza». La sua riflessione è critica non verso la tecnologia ma appunto l’ideologia tecnologica ben rappresentata dal computer che anche a livello fonico trasmette l’idea di compiutezza, termine che viene da cum e putare, tagliare, rendere netto a voler dire «confrontare (o comparare) per trarre la somma netta». Tutto è netto, pulito ed efficiente in una visione ideologica, ma non è così la realtà che è sempre concreta, complessa, sporca e imperfetta e proprio per questo sempre “superiore all’idea”. E allora bisogna ripartire dalla realtà della vita e dalle sue ferite (dalle “fessure” e dalle crisi di cui parla il Papa nel videomessaggio a Scholas Occurrentes che pubblichiamo in questa edizione), infine da quel sangue che ci rende fratelli.
È il cammino della Chiesa che riparte da Cristo risorto che mostra le sue ferite agli Undici (non più Dodici, la Chiesa è ferita fin dall’inizio) e fa comprendere che le ferite sono feritoie, aperture attraverso le quali può soffiare il vento della speranza. «Cristo, mia speranza, è risorto!» ha ricordato il Papa il giorno di Pasqua, «Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non scavalca la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio […] il Cristo risorto, nel suo corpo glorioso, porta indelebili le piaghe: ferite diventate feritoie di speranza. A Lui volgiamo il nostro sguardo perché sani le ferite dell’umanità afflitta».
Andrea Monda