Padre Nostro
La natura missionaria della preghiera è insita in ogni richiesta con la quale si pensa all’umanità. L’amore del Padre non è circolare ma espansivo, è guidato dalla gratuità, non dalla reciprocità.
Il Padre Nostro ci è giunto in due forme: quella di Matteo (6,9-13) e quella di Luca (11,2-4). La prima è più ampia e strutturata, la seconda, più breve. La diversità fra le due versioni ci dice che i primi cristiani non erano rigidamente attaccati alle precise parole, ma alla sostanza. E difatti le parole sono diverse, ma la sostanza è uguale in tutte e due le versioni.
Matteo ha collocato il Padre Nostro nel grande discorso della montagna (6,9-13), per suggerire ai cristiani come pregare, non moltiplicando le parole come fanno i pagani, bensì rivolgendosi a Dio con sobrietà e umiltà. Luca ha invece collocato il Padre Nostro in un contesto ancora più bello. I discepoli sono colpiti dal rapporto che intuiscono esserci tra Gesù e il Padre e desiderano entrare anch’essi in questo circuito di amore: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare»” (11,1). La preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli sgorga dalla sua preghiera personale. Il Padre Nostro non è semplicemente una preghiera da recitare. E’ un riassunto dell’intero Vangelo e ogni sua frase deve essere accuratamente meditata e compresa.
E’ ciò che faremo. Anche perché il Padre Nostro è una preghiera altamente missionaria. Lo è ciascuna sua frase e ciascuna sua parola. Il Padre Nostro che ora leggiamo nella versione di Matteo si apre con un’invocazione e si snoda poi in sette domande: le prime tre hanno come oggetto il Regno, le ultime tre il perdono e la vittoria sul male, al centro c’è la richiesta del pane di ogni giorno.
Giustamente si è osservato che queste domande hanno molti paralleli nelle preghiere bibliche e giudaiche. La preghiera insegnata da Gesù è profondamente radicata nelle tradizioni del suo popolo. Ma se le pietre sono antiche, nuova è la costruzione che ne risulta. Le singole domande si possono rintracciare nella pietà biblica e giudaica, ma non radunate tutte insieme, né formulate con tale intensità.
Padre Nostro: Padre è il nome di Dio. L’uomo può rivolgersi a Lui come un figlio, chiamandolo familiarmente “Padre”, come ha fatto Gesù. La familiarità del rapporto con Dio – che nasce nei cristiani dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio – è ricordata molte volte nel Nuovo Testamento. È infatti una nota qualificante, che segnala l’originalità cristiana.
La vera novità, però, non sta nel rivolgersi a Dio con l’appellativo di Padre (questo avviene anche in altre religioni), ma nel poter rivolgersi a Lui con lo stesso tono di Gesù, figli nel Figlio, aspetto questo che Luca col suo semplice “Padre”, senza aggiunte, sembra sottolineare: il discepolo si rivolge a Dio chiamandolo semplicemente “Padre”, come ha sempre fatto Gesù.
Il semplice vocativo “Padre” è infatti il modo costante con cui Gesù si è rivolto a Dio. Ma la paternità di Dio si esprime al plurale: Padre Nostro.
Il suo amore per tutti invita gli uomini a fare altrettanto. Il Padre è insofferente delle discriminazioni: fa sorgere il sole sopra i buoni e sopra i cattivi (Mt 5,44-45). Si noti l’uso del plurale anche nella domanda del pane, del perdono e della prova. In ogni richiesta il discepolo deve pensare all’umanità.
La preghiera cristiana è una preghiera “espropriata” e “missionaria”. Un’ultima osservazione: i passi evangelici insegnano costantemente che la risposta dell’uomo all’amore del Padre che lo raggiunge è la fraternità. L’amore di Dio discende, ma la nostra risposta non deve anzitutto preoccuparsi di risalire verso di Lui, bensì di estendersi agli altri. La nostra risposta al Padre è inclusa nel comportamento fraterno che sappiamo assumere nei confronti di tutti.
L’amore del Padre – come sempre l’amore di un vero padre – non è circolare, ma espansivo. E’ guidato dalla gratuità, non dalla reciprocità.
Che sei nei cieli
L’uomo è sospeso alla memoria di Dio, e qui trova la sua grandezza nonostante la sua piccolezza nei confronti dell’universo. L’esperienza più profonda dell’uomo biblico è lo stupore di essere amato da Dio.
L’invocazione del Padre Nostro secondo la versione di Matteo non si accontenta di dire “Padre Nostro”, ma aggiunge subito “che sei nei cieli”. Questa precisazione vuole ricordarci che Dio è vicino e Signore, creatore e Padre, amore e onnipotenza. Ogni sincero rapporto con Dio risulta sempre di confidenza e timore, familiarità e obbedienza. Ma i sentimenti prevalenti sono altri. La consapevolezza che il creatore del mondo è un Padre ci permette di vedere in ogni cosa e in ogni evento un dono. E ci fa capire che l’essere da Lui scelti e amati è un’immensa e gratuita degnazione, cosa che impedisce di trasformare la grazia del suo amore in spirito di gretto settarismo. E ci conduce inoltre alla fiducia e alla serenità, al senso della provvidenza, conseguenza questa che Matteo esplicita subito dopo (6,24-34).
Se qualcuno mi chiedesse: quale testo biblico può considerarsi il miglior commento alla nostra certezza che Dio è al tempo stesso Padre e creatore, non esiterei a indicare il Salmo 8. Non c’è in questo salmo il nome Padre, ma è ugualmente una preghiera piena di stupore rivolta a un Dio che ha creato il mondo intero, e tuttavia concentra il suo amore verso l’uomo.
E’ un salmo da leggere con cura. Il Salmo 8 si apre proclamando la grandezza di Dio: «O Signore, Signore nostro, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: al di sopra dei cieli è la tua magnificenza!». E si conclude allo stesso modo: «O Signore, Signore nostro, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra». All’interno di questa duplice proclamazione della grandezza di Dio, che in qualche modo fa da cornice, il pensiero corre poi all’uomo: «Quando contemplo i tuoi cieli, opera delle tue dita, che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui? Eppure tu l’hai fatto poco meno di un Dio, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi». Che cos’è uomo? E’ una domanda importante, una domanda che ogni uomo serio si pone.
Dio solo può rispondere a questa domanda. L’uomo ne è incapace. L’uomo biblico non chiede a se stesso, o agli altri uomini, la propria identità, ma a Dio. Per conoscersi guarda in alto. Ma a ben guardare, la domanda del Salmo non è semplicemente “che cosa è l’uomo?”, bensì: “che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui?”. Il salmista si accorge che l’uomo è piccola cosa. E la meraviglia è che nonostante questo egli sia oggetto della memoria di Dio. L’uomo è sospeso alla memoria di Dio, e qui trova la sua grandezza nonostante la sua piccolezza nei confronti dell’universo. E difatti nel salmo c’è un alternarsi di grandezza e di piccolezza. La grandezza di Dio è affermata all’inizio e alla fine, è il punto fermo. Da qualunque parte lo guardi, Dio è grande. Diverso è invece il caso dell’uomo. Ti appare grande o piccolo, secondo l’angolatura da cui lo osservi.
Se lo confronti con la immensità dei cieli (ma noi potremmo dire: se lo misuri col tempo, con la morte, con il susseguirsi delle generazioni, con il numero sterminato degli uomini che nascono, che vivono un’esistenza che pare insignificante, che muoiono) ti viene da pensare: cosa conta un uomo? Eppure Dio, esclama il salmista, si ricorda di lui e l’ha fatto di poco inferiore a se stesso.
Se lo guardi dall’angolatura di Dio, l’uomo è grande, un solo uomo vale più del firmamento: “tutte le cose hai posto sotto i suoi piedi”.
Si direbbe, dunque, che la Bibbia non è giunta ad affermare la grandezza dell’uomo, di ogni uomo, osservando concretamente l’uomo e la sua capacità di dominare la natura, la sua distanza dalle cose e la sua superiorità su di esse. La partenza biblica è teologica: ha accolto la grandezza dell’uomo, di ogni uomo, riflettendo sul comportamento di Dio, sul suo amore, sulla sua alleanza. Tutto questo è significativo.
Ci assicura che il riconoscimento di Dio non è a scapito del senso dell’uomo, ma ne è il fondamento. L’uomo biblico è affascinato dalla bellezza dell’uomo, e lo considera un capolavoro che le mani di Dio misteriosamente costruiscono nel grembo della donna. Ma alla fine l’uomo biblico è convinto che la sua dignità non sta nella propria bellezza, o nella forza, o nell’intelligenza. E’ l’amore di Dio che dà dignità all’uomo. L’esperienza più profonda dell’uomo biblico è lo stupore di essere amato da Dio. Che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui?
Sia santificato il tuo Nome
E’ l’amore disinteressato, solidale, diretto a ogni uomo che trasforma la comunità cristiana in un involucro che svela al mondo intero il volto del vero Dio.
La prima domanda del Padre Nostro è “sia santificato il tuo Nome”. Si tratta di un’esperienza un po’ lontana dal nostro modo usuale di parlare, e richiede di essere intesa alla luce dell’Antico Testamento, in particolare di Ezechiele 36,22-29 e Levitico 22,31-32. Non indica una lode fatta di culto e di parole, quanto piuttosto un permettere a Dio di svelare, nella sua vita del singolo e delle comunità, la sua potenza salvifica.
Con questa domanda il discepolo chiede che la comunità diventi un involucro trasparente, capace di mostrare, di fronte al mondo, la presenza di Dio. Alla domanda in che modo gli uomini possono santificare il Nome, i rabbini solevano rispondere: con la parola, ma soprattutto con la vita.
La vera santificazione del Nome è il dono della vita.
Ho detto che per comprendere il significato della domanda “sia santificato il tuo Nome” occorre riferirsi a un passo del Levitico (22,31-32) e a un passo del profeta Ezechiele (36,22-29). Nel primo si legge: «Non profanerete il mio nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli israeliti. Io sono il Signore che vi santifico, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto per essere vostro Dio». Già in questo passo sono indicati tutti i tratti essenziali della santificazione. Sono cinque. Il primo è che la santificazione è opera di Dio, non dell’uomo: «Sono io il Signore che vi santifico». Lo dice anche la formula del Padre Nostro (“Sia santificato il tuo Nome”), con la quale chiediamo a Dio che Egli stesso santifichi il suo nome.
Il secondo tratto è la appartenenza al Signore: «Vi ho fatto uscire dall’Egitto per essere il vostro Dio». Dio libera il suo popolo dalla schiavitù del faraone per legarlo a sé. Si abbandona una schiavitù per una diversa appartenenza. Santo è chi appartiene totalmente al Signore.
Il terzo tratto è la novità: si lascia una schiavitù per un’appartenenza nuova. Santo è chi si lascia condurre fuori da Dio dalla logica del mondo, dalle idolatrie («vi ho fatto uscire dall’Egitto»), separato dal mondo non perché non ami il mondo ma perché non ne accetta il peccato. In questo senso santificare il Nome significa vivere una separazione.
Il quarto tratto è la trasparenza: «Perché io mi manifesti santo in mezzo agli israeliti». La comunità santifica il nome di Dio quando si rende trasparente al suo amore, permettendo in tal modo al mondo intero di scorgere in lei stessa – nella sua vita, nei suoi rapporti, nella sua organizzazione – il volto del vero Dio. E’ un concetto, questo, espresso con forza particolare anche nella nota pastorale dei Vescovi “Evangelizzazione e testimonianza della carità”: «Tra le caratteristiche della carità il Vangelo pone in evidenza il suo carattere pubblico, e insieme trasparente, proprio come la Croce di Cristo è un evento pubblico, che si è svolto davanti a tutti e nello stesso tempo è l’icona più luminosa dell’amore di Dio… La visibilità (delle opere che la Chiesa compie) deve essere accompagnata da una sorta di trasparenza, che non fermi l’attenzione su di sé, ma invita gli uomini a prolungare lo sguardo verso Dio… Nella sua vita e sulla Croce, in ogni suo gesto, Gesù è stato la trasparenza del Padre.
Allo stesso modo la Chiesa, nelle molteplici forme del suo servizio, deve rivelare il volto di Dio, non anzitutto se stessa» (n. 21). In altre parole il popolo di Dio deve essere – nel mondo e di fronte al mondo – una sorta di palcoscenico che permette a Dio di mostrare, visibilmente e pubblicamente, la sua azione. E’ la prima missionarietà della Chiesa e del cristiano.
Il quinto tratto della santificazione del nome è un imperativo, che avverte di un’esistenza di una reale possibilità: «Non profanerete il mio nome». Il popolo di Dio può diventare un luogo che “oscura” il volto di Dio, nascondendolo anziché svelandolo. In questo caso il popolo di Dio non è più il luogo della santificazione del Nome, ma della sua profanazione.
Su quest’ultimo aspetto insiste molto, quasi con durezza, il passo del profeta Ezechiele: «Così dice Dio, mio Signore: non è per voi che agisco, o casa d’Israele, per il mio santo nome, che avete profanato fra le genti dove andaste. Mostrerò santo il mio grande nome profanato tra le genti, nome che profanaste in mezzo a loro» (36,22-23). Naturalmente il profeta Ezechiele non si accontenta di questa sottolineatura. Con pari insistenza ce ne dice un’altra: «Le genti riconosceranno che io sono il Signore, quando mi si riconoscerà santo per mezzo vostro, al loro cospetto, e vi prenderò di tra le genti, vi radunerò da tutte le parti del mondo e vi condurrò al vostro paese… Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno Spirito nuovo» (36,24-26). Ma il miglior commento alla nostra domanda del Padre Nostro è forse racchiuso nella grande preghiera che Gesù ha rivolto al Padre prima della sua passione (Gv 17). Ecco due affermazioni che fanno al caso nostro: «Santificali nella verità: la tua parola è verità… Per loro santifico me stesso, perché siano anch’essi santificati nella verità» (17,17-19).
Gesù ha santificato il Padre con la sua perfetta obbedienza, accettando di essere in tutto la trasparenza del suo amore universale.
Con la sua totale obbedienza Gesù ha permesso al mistero di Dio di “trasparire”: un’obbedienza vissuta in tutta la propria esistenza, ma che ha trovato il suo pieno compimento sulla Croce, dove l’amore di Dio si è manifestato in tutto il suo splendore e in tutta la sua universale gratuità. E così la Chiesa. Gesù ha pregato perché la sua comunità venga santificata, il che significa trascinata nel movimento di Dio e, insieme, separata dal mondo.
Nella sua preghiera Gesù accentua la separazione dal mondo. Ma bisogna osservare che tale separazione deriva dalla fedeltà a Dio che è, paradossalmente, una fedeltà all’amore. Il discepolo è separato dal mondo perché ama veramente il mondo.
Il mondo non si riconosce nel movimento dell’amore e della solidarietà. E’ l’amore disinteressato, solidale, diretto a ogni uomo che trasforma la comunità cristiana in un involucro che svela al mondo intero il volto del vero Dio.
Venga il tuo Regno
La prassi missionaria di Gesù è sempre caratterizzata dalla accoglienza degli esclusi.
Per comprendere la seconda domanda del Padre Nostro («Venga il tuo Regno») bisogna anzitutto ricordare che il Regno di Dio è già presente nella nostra storia, ma in modo ancora incompiuto, come un seme. Il discepolo di Gesù prega perché Dio ne affretti il compimento. «Vieni, Signore Gesù» era l’invocazione pressante, quasi impaziente, dei primi cristiani (1 Cor 16,22; Ap 22,20). Ma che cosa significa “Regno di Dio”? Per rispondere occorre riferirsi a tutta la predicazione di Gesù e a tutta la sua vita.
L’evangelista Marco introduce la missione pubblica di Gesù con una frase riassuntiva, che tocca direttamente il nostro argomento (1,14): «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo». In questa affermazione sintetica e certamente missionaria, il Vangelo e il Regno sembrano quasi sovrapporsi. Dio è qui e agisce, ecco la lieta notizia del Regno, dalla quale scaturisce per il credente un duplice stupore: che Dio ami l’uomo fino a quel punto e che l’uomo conti fino a quel punto. La lieta notizia del Regno svela contemporaneamente il volto di Dio e dell’uomo, è al tempo stesso teologica e antropologica.
Se poi si legge questa notizia nel complesso dell’intero Vangelo e alla luce della prassi di Gesù, allora si comprende non soltanto che Dio è fra noi, ma che la sua presenza è carica di novità. In qualsiasi modo Gesù parli del Regno e qualsiasi aspetto illustri, non manca mai di sottolineare una novità che esige dall’ascoltatore un’inversione di marcia, un modo nuovo di considerare le cose, a incominciare dalla stessa azione di Dio. Capire questa novità, e restarne affascinati, è importante, perché il cristiano non è chiamato ad annunciare un Regno di Dio come lui lo immagina, ma come Gesù lo ha veramente annunciato. Nuovi, ad esempio, sono i tratti della misericordia e della universalità. Per mostrare il Regno di Dio Gesù ha accolto, servito, perdonato. La sua prassi missionaria, che egli stesso ha indicato come uno specchio dell’amore di Dio, è sempre caratterizzata dall’accoglienza degli esclusi, a incominciare dai peccatori.
Nella misericordia di Gesù è poi racchiuso anche il tratto della universalità. La misericordia di Gesù supera ogni differenza fra gli uomini, travolge ogni barriera emarginante. Gesù, infatti, Vede l’uomo semplicemente nel suo rapporto con Dio o, meglio, nel rapporto che Dio ha con lui.
Qui sta la nota sorprendente del Regno di Dio, che deve qualificare ogni atteggiamento cristiano. Gesù vede l’uomo davanti a Dio, e le altre cose per lui scompaiono: se appartiene a una razza o a un’altra, a una cultura o a un’altra, persino se è giusto o peccatore, Gesù vede l’uomo come Dio guarda quell’uomo: questo è lo sguardo nuovo che scende nella profondità dell’uomo, cogliendovi quella dignità che appartiene a ogni uomo. La società del tempo, sia civile che religiosa, si è ribellata a questo sguardo di Gesù, perché la società ha sempre bisogno di catalogare gli uomini, dividendoli e separandoli. Ma se si osserva l’uomo come Dio sta davanti a quell’uomo, allora non si ha più motivo per accettare differenze, gerarchie e privilegi. E si diventa universali. Questo sguardo è il Regno di Dio.
Certo la giustizia e il peccato, la verità e la menzogna non sono la stessa cosa. Se un uomo è nel peccato bisogna dirgli che è peccatore, se è nell’errore bisogna dirgli che sbaglia. Ma tutto questo non deve minimamente intaccare la solidarietà nei suoi confronti, l’accoglienza, il perdono, il coraggio di annunciargli il Regno. Aiutare l’uomo a sentirsi accolto da Dio, aiutarlo a scoprire il volto sorprendente del Dio di Gesù Cristo, è pregare «venga il tuo Regno».
A questo punto si comprende perché Gesù – volendo elencare i segni dell’appartenenza al Regno – vi abbia incluso anche questo: «Ero straniero e mi avete ospitato».
Straniero significa l’uomo diverso e distante per razza, cultura, costumi e religione. E’ proprio in quest’uomo che il Signore Gesù si identifica. E lo fa perché il Regno di Dio è proprio così. La seconda domanda del Padre Nostro «venga il tuo Regno» – è davvero impegnativa.
Sia fatta la tua volontà
Non si tratta semplicemente di compiere delle azioni buone, ma di un modo di esistere che coinvolge la persona nella sua totalità.
La terza invocazione del Padre Nostro ripete sostanzialmente le prime due, sottolineandone però maggiormente l’aspetto morale: «Sia fatta la tua volontà». Diciamo subito che per volontà di Dio non si deve intendere soltanto i comandamenti, la legge, ma il disegno di salvezza.
Ma che cosa significa fare la volontà di Dio? E quale è il preciso contenuto della volontà di Dio? Per rispondere – o, meglio, per avvicinarci a una risposta – possono bastarci tre passi evangelici; due di Matteo e uno di Giovanni.
Nel discorso della montagna si leggono queste parole di Gesù: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21-23). Dunque c’è chi parla continuamente di Dio («Signore,. Signore»), ma poi dimentica di fare la sua volontà. C’è chi si illude di lavorare per il Signore («abbiamo profetato nel tuo nome, cacciato i demoni e compiuto miracoli nel tuo nome»), ma poi scoprirà, nel giorno del rendiconto, di essergli sconosciuto («Non vi ho mai conosciuto: allontanatevi da me»). Con queste forti parole – e con la parabola delle due case che le illustra – Matteo probabilmente polemizza con certi entusiasti presuntuosi che avevano sempre sulle labbra il nome di Gesù, e che poi non concludevano nulla.
C’è il rischio di una preghiera («Signore, Signore») che non si traduce in impegno («la volontà di Dio»), o di un accolto che non diventa pratica.
Certo, Matteo non condanna la preghiera né l’ascolto. E’ anzi convinto che sono la radice della prassi cristiana. E tuttavia l’essenziale non è l’ascoltare e il dire, ma il fare. La differenza fra l’uomo saggio che costruisce la casa sulla roccia e l’uomo stolto che la costruisce sulla sabbia sta appunto nel “fare”. Con una precisazione: non un qualsiasi fare – neppure cacciare i demoni e operare i miracoli! -, ma fare la carità, come è appunto detto nel discorso della montagna e come è ribadito nel grande affresco del giudizio (Mt 25,31-46).
«Le mie vie non sono le vostre», ripete spesso la Bibbia. Fra il progetto di Dio e il progetto dell’uomo non raramente si insinua una tensione. Fare la volontà di Dio può richiedere – a volte – un totale cambiamento dei nostri desideri. Un esempio è la preghiera di Gesù nel Getsemani, che riporto nella versione di Matteo: «E, scostatosi un poco, cadde con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile passi da me questo calice. Però non come voglio io, ma come vuoi Tu» (26,39). Gesù è nell’angoscia e la sua preghiera la esprime. Non si tratta dell’angoscia del dubbio, ma quella dell’obbedienza dolorosa. La lacerazione non è fra obbedienza e disobbedienza. Gesù è costantemente in un atteggiamento di fondamentale obbedienza. Non lo sfiora il pensiero che l’uomo possa fare la propria volontà anziché quella di Dio. Nell’imminenza della passione, però, chiede che la volontà di Dio sia, se possibile, diversa. Si osservi, poi, come l’angoscia non metta in crisi la fede di Gesù. Anche in questa circostanza Egli non cessa di rivolgersi a Dio con l’appellativo “Padre”, che è stata la scoperta e la rivelazione più grande che egli ha fatto ai suoi discepoli.
Nel Vangelo di Giovanni il tema dell’obbedienza è ancora più fortemente sottolineato. L’evangelista presenta Gesù come l’obbediente, la trasparenza della volontà del Padre. Suo cibo è fare la volontà del Padre. Un’immagine, questa, che dice la totalità dell’obbedienza. Fare la volontà del Padre, e non la propria, è la tensione di tutta la vita di Gesù, il punto verso cui tutte le sue azioni e le sue parole si protendono, senza distrazioni. Gesù sembra annullare radicalmente la propria volontà in una totale obbedienza, ma è proprio in questa obbedienza che egli ritrova la sua libertà e la sua consistenza di Figlio. Gesù è la “trasparenza” del Padre. Per questo è portatore di una rivelazione decisiva, nell’ascolto o nel rifiuto della quale l’uomo gioca il proprio destino.
La conclusione è che la terza domanda del Padre Nostro fa riferimento a Gesù. Se la si vuole comprendere si deve guardare a Lui. E se ne deduce che fare la volontà di Dio non è semplicemente compiere delle azioni buone, ma è un modo di esistere. Coinvolge la persona nella sua totalità.
Come in cielo così in terra
Lo sguardo largo di questa preghiera sottolinea la signoria universale di Gesù e di conseguenza l’universalità della missione dei discepoli.
L’espressione che conclude la prima parte del Padre Nostro («come in cielo così in terra») non si riferisce soltanto alla terza domanda («sia fatta la tua volontà»), ma anche alle prime due. Può significare semplicemente «dappertutto», e in questo caso viene sottolineata l’universalità delle prime tre domande: si prega perché Dio sia dovunque santificato, il suo Regno venga esteso a tutto il mondo e la sua volontà sia fatta in ogni angolo della terra. Una preghiera, dunque, di grande respiro. Soprattutto una preghiera missionaria. Lo sguardo largo segnala sempre, infatti, una passione missionaria. Gesù stesso – come si legge nella conclusione del Vangelo di Matteo – è ricorso all’espressione «in cielo e in terra» per indicare la sua signoria universale e, di conseguenza, l’universalità della missione dei discepoli: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra: andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni» (28,18-19).
«Come in cielo così in terra» può però avere anche un senso più pregnante: come in cielo il nome di Dio è santificato, il suo Regno perfettamente compiuto e la sua volontà obbedita, così avvenga sulla terra. Il discepolo chiede al Padre che la terra diventi il risvolto del cielo. E’ questo un pensiero ricco di prospettive. Significa, ad esempio, che il cristiano deve guardare verso il mondo di Dio, se vuole veramente comprendere se stesso e la propria attuale esistenza.
Per valutare nel modo giusto le cose del mondo il cristiano non desume i suoi criteri valutativi dal mondo stesso, ma dal Regno di Dio. Per comprendere le cose di quaggiù il cristiano guarda in alto. Ce lo fa comprendere Gesù stesso parlando della sua regalità con Pilato: «Il mio Regno non è da questo mondo: se il mio Regno fosse da questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio Regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).
Il Regno di Gesù è qui, nel mondo, ma la sua origine viene da altrove. E così è il cristiano: vive nel mondo, ma le regole del proprio vivere le mutua da un’altra parte – dal mondo di Dio -, la sua regola di vita obbedisce a un’altra logica. Si può leggere «come in cielo così in terra» anche da un’altra angolatura.
Pregare perché la terra assomigli al cielo significa riconoscere che la pienezza è nel cielo, non qui: un modo di pensare, questo, che relativizza il mondo. Questo non è il nostro tutto. Siamo fatti per una patria che è altrove.
Al tempo stesso, però, questo modo di pensare dà importanza al mondo, a questo mondo: la vita terrena non è la pienezza del Regno, questo è vero, ma può esserne il riflesso! Le cose del mondo futuro si preparano qui, ora. Di più: si possono anticipare qui, pregustarle, sia pure in modo incompiuto. Un riflesso, non la pienezza della luce. Ma anche il semplice riflesso di una grande luce è già luminoso!
Due passi del Vangelo possono aiutarci a chiarire questi pensieri. Il primo è il canto degli angeli nella notte di Natale (Le 2,14): «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama». Sono parole da considerare con attenzione, a incominciare dalla loro forma. Si tratta di due brevi frasi disposte in modo che il pensiero passi continuamente dall’alto al basso: i cieli e la terra, Dio e gli uomini, la gloria e la pace. Risulta così con evidenza che la pace fra gli uomini è la contropartita terrestre della gloria che Dio ha nei cieli.
E’ soprattutto, però, nella grande preghiera di Gesù che si legge nel cap. 17 del Vangelo di Giovanni che tutto si chiarisce. Gesù prega perché il dialogo di conoscenza e di amore che circola fra Lui e il Padre venga esteso alla comunione dei discepoli fra loro. L’amore vicendevole è il risvolto umano, terrestre, già ora possibile, del mondo divino.
Il nostro pane quotidiano
In un tempo in cui si moltiplica l’ingiustizia per quanti non hanno la possibilità di sfamarsi, il “nostro pane quotidiano”, la richiesta più umile fra le domande del Padre Nostro, diventa pegno e dovere di solidarietà, perché la carità non può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza.
La richiesta del pane è la più umile delle domande del Padre Nostro, ma si trova al centro (è infatti la quarta delle sette domande), e questo ne dice l’importanza.
Dalla formulazione della domanda del pane traspare un vivo senso della dipendenza da Dio: il pane è «nostro», frutto del nostro lavoro, e tuttavia lo si chiede al Padre come un dono.
E’ un primo tratto importante, da esprimere non soltanto nella preghiera, ma nella vita.
La Bibbia si è accorta da sempre che l’orgoglio dell’uomo di fronte ai frutti del proprio lavoro non raramente conduce alla violenza e all’ingiustizia, e ancora più frequentemente alla dimenticanza di Dio, come avviene quando l’uomo attribuisce a se stesso – soltanto a se stesso – ciò che invece è dono. Si legge nel libro del Deuteronomio: «Guardati dal dire nel tuo cuore: la mia forza e la robustezza della mia mano mi hanno procurato questo benessere. Ricordati del Signore tuo Dio, poiché Lui ti ha dato la forza di procurarti questo» (8,11-18).
Accanto al senso della dipendenza da Dio, un vivo senso di fraternità.
Il cristiano che recita il Padre Nostro prega al plurale, chiede il pane comune, il pane per tutti, non soltanto per se stesso. Questo tratto rinvia all’esempio della prima comunità di Gerusalemme, di cui parla Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. Due volte Luca precisa che «avevano tutto in comune» e che «vendevano le loro proprietà» (2,44; 4,32).
Non si tratta di un’abolizione della proprietà, ma del desiderio di condividere fra tutti le proprie sostanze. Un desiderio che sorgeva spontaneo da una duplice convinzione: che Dio è Padre di tutti e che il Signore Gesù è morto per tutti. Luca precisa poi che i beni emersi in comune venivano distribuiti «a ciascuno secondo le sue necessità» (4,35).
E’ dunque chiaro che l’ideale perseguito non era quello della povertà volontaria, ma quello di una carità che non può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza. E infine Luca annota che «erano un cuor solo e un’anima sola» (4,32).
Quest’ultima annotazione è fondamentale per comprendere le due facce inseparabili della fraternità cristiana, che è insieme interiore ed esteriore, coinvolge l’anima e la vita. La sua radice è nel cuore dell’uomo. «Cuore e anima» non è tanto un’espressione che dice l’interiorità, quanto piuttosto la totalità: cuore ed anima designano il “centro” della persona. Potremmo parafrasare così: tutta la persona – a partire dal suo centro o dalle sue radici – deve protendersi nella fraternità.
Dalla domanda del pane traspare un vivo senso di sobrietà. Si chiede al Padre il pane sufficiente per oggi, nulla di più. Nessun inutile affanno, nessuna passione per l’accumulo. Il Regno al primo posto, il resto quanto basta.
Il contrario di questa sobrietà è l’affanno, come spiega Matteo in un passo che costituisce un diretto commento al Padre Nostro: «Per la vostra vita non affannatevi per quello che mangerete o berrete: per il vostro corpo di come vestirete… Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste altre cose vi saranno date in più…
Basta a ciascun giorno il proprio affanno» (6,25-34). Affannarsi per accumulare è idolatria. Non è nell’accumulo che va posta la sicurezza della vita. L’affanno – che cosa mangeremo? che cosa indosseremo? – è contro l’uomo, perché lo priva della gioia di vivere. Perennemente insoddisfatto, insicuro, l’uomo cade nell’esasperazione del lavoro e dell’accumulo e, quindi, nella schiavitù.
La domanda del pane rinvia anche all’episodio anticotestamentario della manna: «Mosè disse loro: nessuno ne avanzi per domani. Ma essi non ascoltarono Mosè e alcuni ne presero di più per l’indomani: sorsero dei vermi e si corruppe» (Es 16,19-21). La lezione del miracolo della manna non è soltanto la fiducia nel dono di Dio, che ogni giorno pensa al suo popolo, ma anche – e forse ancora di più – la proibizione dell’accumulo: si deve soltanto raccogliere il cibo che basta per un solo giorno. L’accumulo imputridisce.
Come conclusione di quanto detto riporto l’intelligente preghiera di un antico saggio, che si legge nel libro dei Proverbi: «Due cose ti chiedo, non negarmele prima che io muoia: allontana da me falsità e menzogna, non darmi povertà o ricchezza, ma fammi gustare il mio pezzo di pane, perché, saziato, non abbia a insuperbire e dica: chi è il Signore? Oppure, trovandomi in povertà, non rubi e bestemmi il nome del mio Dio» (30,7-9).
Rimetti a noi i nostri debiti
L’uomo è debitore per essenza. La domanda del perdono è perciò il modo giusto di stare davanti a Dio, nella preghiera come nella vita quotidiana.
La domanda “rimetti a noi i nostri debiti” suppone che in noi sia vivo il senso della colpa. Qualora mancasse, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità: uno stereotipo, una parola rituale, non più una vera domanda. Purtroppo non si tratta di una consapevolezza scontata, perché il problema non è di riconoscere semplicemente i propri limiti o i propri sbagli, ma di avere la chiara percezione delle proprie colpe morali, responsabili, liberamente commessi: azioni che offendono Dio, non solo se stessi o gli altri. Questa percezione “teologica” delle proprie azioni è già dono di Dio. E difatti è quando sente i passi e la voce del Signore che Adamo prende coscienza della sua disobbedienza; è quando è raggiunto dalla parola dei profeta che Davide avverte la gravità del proprio peccato. La Scrittura è convinta che non si misura rettamente il proprio debito, se ci si confronta con se stessi o con gli altri: occorre confrontarsi con la Parola di Dio. Può succedere di essere ciechi al punto da non più vedere le proprie colpe, come già accadeva ad alcuni della comunità di Giovanni (1 Gv 1,8). E c’è persino chi vede le responsabilità degli altri e non le proprie.
Confrontandosi con la Parola di Dio si avverte che il debito – anzi i debiti, al plurale – non è soltanto questione di precise trasgressioni della legge, che pure ci sono: e le molte omissioni? Il padrone della parabola dei talenti esige più di quanto ha dato: condanna il servo perché pigro e dimissionario, non perché particolarmente cattivo: non ha sperperato, semplicemente non ha trafficato. E ad essere tagliato e bruciato è l’albero che non porta frutto (Le 13,6-9). Bastano queste poche annotazioni per dirci che la domanda del Padre Nostro mette in questione l’uomo nella sua interezza. In questione è lo slancio in avanti, verso Dio («con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze»), non soltanto il male che si fa.
La versione di Matteo non parla direttamente di peccati, ma di debiti, una metafora che ricorre con frequenza nel parlare di Gesù, anche se non sempre vi si trova la parola precisa: per esempio nella parabola del creditore senza pietà (Mt 18,23ss), dell’amministratore astuto (Le 16,1-8), dei talenti (Mt 25,14-30), dei due debitori (Le 7,41ss), dell’uomo trascinato in tribunale (Le 12,51ss) al quale conviene accordarsi lungo la strada per non essere gettato in prigione. Il fatto che l’immagine del debito ritorni con frequenza nel parlare di Gesù suggerisce che per Lui essa si prestava bene a ritrarre la situazione dell’uomo: davanti a Dio, ma anche di fronte agli altri. L’uomo è per essenza debitore: di fronte a Dio, dal quale ha tutto ricevuto, senza aver nulla in cambio da ridare. E di fronte agli altri: quante sono le cose ricevute (a incominciare dalla propria esistenza!), che non si possono restituire?
Il vocabolo opheilema dice l’obbligo che sorge di fronte a qualcosa che si è ricevuto. Penso che è su questo ricevuto che debba concentrarsi la nostra attenzione. Non immaginiamo un Dio che vuole di ritorno qualcosa per sé, bensì un Dio che vuole si capisca che ciò che si possiede è ricevuto, dono, e dunque qualcosa per cui ringraziare e, soprattutto, qualcosa da non trattenere egoisticamente per se stessi.
E’ per questo che il servo della parabola, che si è visto condonare un debito immenso, avrebbe dovuto, a sua volta, condonare un piccolo debito al suo compagno di lavoro (Mt 18).
A questo punto la metafora del debito – che sin qui si è rivelata molto utile – non basta più. E’ in gioco qualcosa di diverso dalla semplice cancellazione di un debito materiale. Se si esce dalla metafora – che è commerciale e giuridica – per coglierne il significato reale, si comprende che qui si tratta di un debito che è un’offesa. Non tocca i beni del creditore, ma la persona. Il “peccato” è il rifiuto di un dono, non semplicemente l’insolvenza di un debito.
Si diceva che l’uomo è debitore per essenza. La domanda del perdono è perciò il modo giusto di stare davanti a Dio, nella preghiera come nella vita. E’ l’atteggiamento assunto dal pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me» (Le 18,13). Enumerare puntigliosamente le proprie opere, come ha fatto il fariseo, non serve: non si raggiungerà mai, in ogni caso, la parità fra il ricevere e il restituire, e il debito rimane. L’unica soluzione aperta all’uomo è la domanda del perdono. Se il mondo regge è perché Dio lo perdona sempre. Racconta un’antica storia ebraica che Dio, dopo aver creato il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi: lo metteva dritto e cadeva, lo metteva dritto e cadeva. Allora Dio creò il perdono e glielo pose accanto, e il mondo stette in piedi. Anche la domanda del perdono è formulata alla prima persona plurale: rimetti a noi i nostri debiti. Perché al plurale? Probabilmente per più motivi. Il soggetto primario della preghiera è la comunità: il Padre Nostro è una preghiera corale. E’ anche vero, inoltre, che ci sono colpe comunitarie, collettive, non solo individuali. Tuttavia non è questa la direzione principale della domanda: in tal caso sarebbe stato preferibile dire il “nostro peccato”, anziché i “nostri peccati». Il peccato collettivo non relega in secondo piano la responsabilità personale, come a volte sembra di avvertire quando si parla dei peccati della società, colpa di tutti e di nessuno.
Nel Padre Nostro è anzitutto in questione la mia e la tua responsabilità. Si dice nostri perché si tratta, appunto, dei miei e dei tuoi peccati. Ma il motivo principale del plurale è un altro, comune a tutte le richieste del Padre Nostro: si chiede perdono per sé e per tutti.
Anche la domanda del perdono è missionaria. Neppure qui il cristiano si isola. Chiedere perdono per gli altri è la preghiera che lo stesso Gesù sulla Croce ha rivolto al Padre (Le 23,34). La preghiera del perdono è di per sé la più umile delle preghiere, ma è anche la preghiera che più delle altre rischia di diventare retorica. Non così nel Padre Nostro, dove la domanda è sobria, schietta, oserei dire piena di dignità. Nessuna traccia di aggettivi o avverbi che dicano la nostra umiliazione, né si suggerisce di fare un qualche gesto penitenziale, come battersi il petto e simili. Al Padre Nostro basta un semplice verbo all’imperativo: «rimetti». Ovviamente l’imperativo non dice qui la pretesa, certo però la confidenza, e soprattutto l’urgenza: quando il bisogno è impellente non c’è spazio per inutili parole, si domanda e basta. Sobrietà ammirevole e ricca, tanto ricca da farci capire – come dimenticarlo? – che siamo “figli” anche se peccatori, e che il perdono lo stiamo chiedendo a un Padre, non a un padrone.
Come noi li rimettiamo ai nostri debitori
Quale che sia il significato del “come”, il perdono ai fratelli è di assoluta importanza e si collega con quello di Dio in senso stretto e necessario.
La quinta domanda del Padre Nostro non si limita a chiedere il perdono di Dio, ma allarga il discorso aggiungendo: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il perdono di Dio e il nostro perdono ai fratelli sono dunque legati da un “come”. Certamente questo “come” non significa che il nostro perdono costituisca la ragione, la misura e il modello del perdono di Dio. Sarebbe un modo capovolto di guardare Dio! Il suo perdono precede sempre il nostro, incondizionato, gratuito e senza misura.
Tuttavia il “come” pone fra i due perdoni un legame stretto e decisivo. Lo ribadiscono diversi testi evangelici. Per esempio Matteo in una sorta di breve commento allo stesso Padre Nostro. Fra tutte le frasi che poteva scegliere da commentare, ha scelto proprio la nostra: «se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (6,14-15).
Lo stesso concetto ritorna anche più avanti, sia pure con parole diverse: «Col giudizio col quale giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (7,2).
Lo stesso pensiero, infine, riappare in un’affermazione di Marco (11,25), che sembra un’eco del Padre Nostro: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, lo perdonate, perché il Padre vostro che è nei cieli perdona a voi i vostri peccati».
A questo punto si può già trarre una prima conclusione. Comunque si intenda il significato preciso di quel “come”, resta fermo che il perdono ai fratelli è di assoluta importanza. Il legame col perdono di Dio è stretto, addirittura in un certo senso necessario. Anche il perdono dato, e non solo il perdono ricevuto, è decisivo.
Ma che cosa significa rimettere i debiti? E quali debiti? La formulazione del Padre Nostro è negativa, ma il suo contenuto non può che essere positivo. E’ sempre il Vangelo che lo dimostra. In un passo in cui si parla del perdono, Matteo (5,44) dice di amare i nemici e di pregare per loro. Il verbo amare non può che avere il contenuto pieno dell’amore. E’ dunque partecipazione, solidarietà, preoccupazione, aiuto. E’ molto più del semplice perdonare.
E anche il verbo pregare suggerisce un atteggiamento positivo: pregare significa desiderare il bene del proprio nemico. Matteo non parla di nemici, ma di “persecutori”, termine che generalmente indica il nemico della comunità, dei cristiani come tali, non semplicemente il nemico personale. E il plurale (amate, pregate) sembra voler dire che l’intera comunità è invitata a perdonare, non soltanto i singoli. E si conclude, infine, sottolineando che il perdono è necessario, se si vuole essere figli di quel Dio che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
In un passo che si può dire parallelo, Luca (6,27.33-35) non parla solo di amare e pregare, ma aggiunge «far del bene» e «benedire». La positività del rimettere i debiti è qui ancora più chiara. E poi Luca non parla del nemico come persecutore, ma come colui che maledice, odia, maltratta. Si tratta dunque di una figura di nemico più generale, e anche più quotidiana.
Il Padre nostro non precisa di che si tratta: dice semplicemente «i nostri debitori». E nemmeno precisa quali debiti. Ma proprio questa non precisione dice l’ampiezza e l’universalità del perdono: si tratta di rimettere qualsiasi torto, qualsiasi danno ricevuto, chiunque l’abbia fatto. Abbiamo lasciato in sospeso il tentativo di precisare ulteriormente il significato di quel “come”, che pone un legame stretto tra il perdono di Dio e il nostro. Un passo evangelico, che sembra fatto apposta per aiutarci, è la parabola che si legge in Mt 18,21-35. E’ una narrazione a tre quadri.
Nel primo si racconta che un servo aveva un debito immenso, del tutto inverosimile tanto è grande. Avendo supplicato un rinvio del pagamento, il padrone gli condona l’intero debito. Il gesto del padrone va oltre la domanda del servo. La risposta di Dio è sempre oltre la misura della domanda, oltre le aspettative e le speranze, oltre il giusto. Nulla viene detto sulle qualità del servo, se buono e fedele, se abile nel lavoro, se ha reso grandi servizi. Si dice soltanto che ha «supplicato». A spingere il padrone a rimettere il debito, dunque, sono state la sua grandezza d’animo e la sua compassione, non i meriti del servo. Il secondo quadro ci riporta nel mondo degli uomini. La relazione non è più fra il servo e il padrone, tra l’uomo e Dio, ma fra uomo e uomo. Qui la scena è inaspettata: il servo perdonato incontra un collega che gli deve pochi denari, viene a sua volta supplicato, ma non si muove a compassione, esige il pagamento del debito fino all’ultimo. Come è possibile, dopo un tale condono ricevuto, non essere capace, a propria volta, di una piccolissima remissione? Chiunque si sarebbe aspettato che il servo -sopraffatto dalla gioia e dalla gratitudine – avesse ritenuto normale perdonare a sua volta un piccolo debito. Ma il servo non ha compreso la fortuna che gli è capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, né rincontro con la gratuità di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un circolo nuovo di rapporti, nel quale i criteri dello stretto dovuto diventano inadeguati.
Se ci si ricorda di essere stati perdonati, non si può più essere i difensori della rigida giustizia, al punto da volerla imporre anche a Dio. Chi si fa difensore della rigida giustizia, non è più un annunciatore del volto nuovo e sorprendente del Dio di Gesù, ma l’annunciatore ripetitivo di una figura ovvia di Dio, rigida, triste, troppo simile a come gli uomini se la immaginano per avere la forza di stupirli.
Nel terzo quadro tutto sembra capovolgersi. Il servo prima perdonato, ora non lo è più. Certo resta fermo che il perdono di Dio precede, del tutto gratuito e senza misura. Su questo la parabola è chiara: il perdono fraterno è la conseguenza del perdono di Dio, che ne costituisce la motivazione e la misura («come io ho avuto compassione di te»). Tuttavia il perdono generoso di Dio non può confondersi con l’indifferenza.
Che l’uomo estenda il perdono ricevuto o lo tenga per sé, agli occhi di Dio non può essere la stessa cosa. Il perdono fraterno va preso sul serio. Non è la ragione del perdono di Dio, però è il luogo della sua verità. Se non dai il perdono, significa che non hai compreso il perdono ricevuto. E’ come se il perdono di Dio dentro di te svanisse. Il perdono al fratello non è la condizione perché Dio, a sua volta, ci perdoni. E’ però la prova che il perdono di Dio l’abbiamo veramente ricevuto, accolto, e che veramente ci ha trasformato.
Non ci indurre in tentazione
La prova di cui si parla non è semplicemente quella dell’uomo in generale, ma quella del discepolo, del missionario che ha fatto del Regno l’unica ragione della sua vita.
Nella sesta domanda del Padre Nostro chiediamo a Dio di «non indurci in tentazione». Il verbo indurre ci sorprende, persino ci infastidisce. La tentazione non può venire da Dio. Già nelle prime comunità cristiane qualcuno lo pensava, e Giacomo nella sua lettera ribatte con decisione: «Nessuno, quando è tentato, dica: sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13). Meglio sarebbe, e anche più fedele al testo originario, tradurre: «Non lasciarci soccombere nella tentazione».
Al posto di tentazione, poi, si potrebbe usare il termine “prova”. La parola greca dice ambedue le cose. Si dice che la prova purifica e affina lo spirito, fortifica la fede. Può essere vero.
Tuttavia la prova è anche pericolosa. Qui nel Padre Nostro se ne sottolinea la pericolosità, e perciò si chiede a Dio di venirci in aiuto. Non si chiede a Dio di evitarci le prove, ma di venirci in aiuto.
«Non è forse una tentazione la vita dell’uomo sulla terra?» si chiede Giobbe (7,1). Ha ragione. La vita è tutta una prova. Ma quali prove? Sono molte e di vario genere.
Ci sono le prove eccezionali e ci sono le prove quotidiane. Nella spiegazione della parabola del seminatore, Luca dice: «Quelli sulla roccia, sono coloro che, dopo averla ascoltata, accolgono la Parola con gioia: costoro non hanno radici e per un certo tempo credono e nel tempo della prova crollano». Luca non parla qui di prove eccezionali, come potrebbe essere una persecuzione o una grande tribolazione. Egli sa che per spiegare i cedimenti di molti cristiani non è necessario riferirsi alla persecuzione. Bastano le prove comuni, la monotonia della vita, il logorio del quotidiano. Per spegnere gli entusiasmi, anche i più genuini, a volte basta il tempo che passa. Luca adopera qui un verbo che significa: staccarsi, sfaldarsi, cedere.
Le immagini suggerite esprimono efficacemente quanto la semplice vita quotidiana possa sfiancare e spegnere. E’ come un tarlo che giorno dopo giorno, senza apparenti mutamenti, svuota di ogni consistenza la fede. Il pericolo di questa prova è grande, perché frequente perché subdola. Si cede senza rendersi conto, si viene meno e non lo si sa. Occorre, allora, vigilare e pregare per non trovarsi a terra senza accorgersi di essere caduti, per non lasciarsi, cioè scivolare piano piano quasi inavvertitamente verso la perdita della fede. Romano Guardini – in un suo libro molto bello che ha per titolo “Le età della vita” – scrive che nessuno è dispensato dal vigilare e pregare continuamente, perché «a costituire una tentazione che spegne ogni entusiasmo, anche nel campo della fede, non sono solo le grosse tribolazioni, ma può essere anche il semplice passare del tempo.
La trascuratezza del vigilare sulla propria fede è la strada per perderla a poco a poco, quasi inavvertitamente. E’ proprio il tempo che passa a indebolire, a far perdere freschezza, a costituire una tentazione di fronte alla scoperta del proprio limite, tanto maggiore quanto più l’uomo invecchia».
Ho sottolineato la prova quotidiana, normale, perché è la più frequente e la più subdola.
Tuttavia ii Padre Nostro intende anzitutto una prova più precisa. Di fatti non parla di prove al plurale, ma di prova al singolare. Di che si tratta?
Per rispondere alla domanda – come sempre quando si vuole comprendere il Padre Nostro – dobbiamo guardare a Gesù Cristo. Egli è stato sottoposto alla prova nel deserto (Mt 4,l ss): si trattava di decidere se condurre la propria missione secondo la parola di Dio, o secondo la logica del mondo.
Gesù è stato poi sottoposto alla prova nella passione: si legga l’episodio del Getzemani. Le due prove sono congiunte, al punto che si potrebbe parlare di una sola prova in due tempi.
Nel primo momento la prova viene dal fascino del mondo, che vorrebbe far credere al discepolo che la logica della parola di Dio è inefficace, improduttiva, certo non adeguata alla missione che si intende svolgere.
Nel secondo momento – quello decisivo – la prova sembra venire da Dio stesso, il cui volto appare così diverso da come siamo soliti immaginarlo: un volto certamente sorprendente e bellissimo e tuttavia anche sconcertante: è il volto del Crocifisso. In ambedue i momenti, lo spazio della prova è la stessa identità del Regno, è il suo modo di farsi presente nella storia. Paradossale, ma verissimo: la prova accompagna sempre il Regno di Dio. Scaturisce, per così dire, dal suo interno, dalla sua natura di piccolo seme, dal suo modo di crescere sotto la terra, dal suo totale rispetto della libertà dell’uomo (che pare debolezza). Se davvero il Regno è di Dio, non dovrebbe essere più grandioso, apparire in modo più convincente, irrompere nella storia e mutarla? E’ proprio vero: è lo stesso Regno di Dio che crea lo spazio per la prova.
Si comprende allora che la prova – o la tentazione – di cui si parla nel Padre Nostro, non è semplicemente la tentazione dell’uomo che si dibatte nelle molte difficoltà della vita. E’ la tentazione del discepolo, del missionario che ha fatto del Regno il suo principale desiderio, l’unica ragione della sua vita.
Se la tentazione è così strettamente congiunta alla natura del Regno di Dio, allora si deve anche concludere che Dio non può evitarci questa prova. L’incontro con il Crocifisso è necessario, se si vuole veramente conoscere chi è Dio. Ma se non può sottrarci alla prova, il Padre può aiutarci a non soccombere. Anzi, può aiutarci a scorgere la bellezza del Crocifisso, così da rimanerne stupiti anziché scandalizzati.
Ma liberaci dal male
Il cristiano sa che il male che c’è nel mondo e nell’uomo non si spiega soltanto con la cattiveria dell’uomo. E sa che va combattuto a partire dal cuore stesso dell’uomo.
«Ma liberaci dal male» è l’ultima invocazione del Padre Nostro. Si chiede la liberazione da quale male? Il termine greco può essere tradotto in due modi: liberaci dal male, oppure liberaci dal maligno. E’ una indeterminazione intelligente, perché tutti e due i significati sono veri. Il cristiano sa che il male, che c’è nel mondo e negli uomini, non si spiega soltanto con la cattiveria dell’uomo. C’è un tentatore che spinge al male. Ma il cristiano sa anche che non tutto il male è da attribuirsi al tentatore: il male viene da noi.
La formula del Padre Nostro non dice «liberaci da questo o quel male, da questa o quella cosa cattiva», ma «dal male», con l’articolo: dunque il male nel suo significato complessivo o, forse meglio, nella sua radice.
Non è certo il caso di elencare qui le molte forme del male, sono tante e le conosciamo.
Più utile chiarire alcuni atteggiamenti che il cristiano deve assumere di fronte al male. Se questi atteggiamenti mancassero, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità: non più una invocazione sincera, ma stereotipa, abitudinaria.
II primo atteggiamento è l’umiltà di riconoscersi peccatori. La serenità poggia sulla certezza del perdono di Dio, non sull’illusione di essere senza peccato. E’ questione di verità e di lealtà. L’uomo ha la tendenza a scusarsi: il male fa parte della natura dell’uomo, si sente dire. Il male è inevitabile, è necessario. Non colpa, ma limite. Il Vangelo non ragiona così. Il male è nostro. Non va combattuto fuori, nelle cose, negli altri, ma in noi stessi. Una frase di Gesù è in proposito lapidaria: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, malvagità, inganni, impudicizia, occhio cattivo, bestemmia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose vengono fuori dal di dentro» (Me 7,21-23).
Accanto all’umiltà, un atteggiamento di vigilanza: perché il nostro cammino non può mai dirsi definitivamente confermato in una direzione. Deviare è sempre possibile. Qualsiasi uomo, dovunque si trovi, qualsiasi cosa abbia fatto, può sempre correre il pericolo di tornare indietro. E’ anche questione di prendere coscienza della propria debolezza: il male è forte, conserva sempre il fascino. Per questo si chiede a Dio: liberaci dal male. Nessuno vince il male da solo. Occorre l’aiuto di Dio. Del resto il verbo “liberaci” è forse troppo debole. Il senso letterale del verbo greco è “strappar via”, come se noi fossimo attaccati al male, incollati, incapaci di scrollarcelo di dosso. Il male è qualcosa che si accumula, si appesantisce, ci tira sempre più giù. E tuttavia una incrollabile fiducia. Il Padre Nostro si è aperto con il nome del Padre e termina con la parola male. Qui sta la drammaticità dell’esistenza cristiana, tesa – e contesa – tra il Padre e il male. Ma nessuna paura, perché il Padre è più forte del male. Nessuna angoscia, perché il perdono del Padre è più grande del male, persino più certo, più pronto.
Abitualmente concludiamo il Padre Nostro dicendo: «Ma liberaci dal male». Gli antichi preferivano, però, un’altra traduzione, altrettanto corretta: «ma liberaci dal Maligno».
Sulla presenza del maligno, il tentatore, si possono dire molte cose. Ma noi stiamo a quanto dice il Vangelo. Satana ha tentato anche Gesù. In che modo? Rispondere a questa domanda è importante per comprendere il senso di “ma liberaci dal maligno”. Sono note le tentazioni di Gesù nel deserto. Qui Satana non cerca (almeno apparentemente) di distogliere Gesù dal suo compito messianico, ma gli suggerisce piuttosto di svolgerlo servendosi del prestigio e della potenza. Satana cerca di distogliere Gesù dall’obbedienza alla parola di Dio, non subito e direttamente dal suo compito messianico. Anzi: moltiplicare i pani, gettarsi dal pinnacolo del tempio e dominare il mondo vengono suggeriti, appunto, come una strada convincente per affermare la propria messianicità. Satana è furbo, e non dice direttamente di disobbedire a Dio. Piuttosto suggerisce di interpretare a modo nostro la volontà di Dio.
E difatti a ben guardare la tentazione è sottile. Per due volte Satana si rivolge a Gesù dicendogli: «Se sei Figlio di Dio…». Per Gesù essere Figlio si esprime nell’obbedienza e nella dedizione al Padre. Per Satana invece l’essere Figlio significa poter disporre della potenza divina a piacimento e per la propria gloria.
La pericolosità della tentazione sta anche nel fatto che Satana non parla a nome proprio, non oppone la parola di Dio alla propria saggezza, ma si sforza – ingannando – di partire dalle Scritture, pretendendo presentarsi con il sostegno della stessa parola di Dio: nel deserto Satana cita le Scritture. E’ sorprendente, ma è proprio così. E qui sta la pericolosità della tentazione, in questa furbizia del maligno. La tentazione è suggerita da Satana, ma proviene al tempo stesso dall’interno, da una distorta lettura delle Scritture sempre possibile, che può persino portare a una capovolta concezione della gloria di Dio. In ogni caso, il Vangelo sa molto bene che la tentazione di Satana nel deserto ha trovato altri portavoce. Per esempio, gli avversari, che per “tentarlo” gli chiedevano un “segno dal cielo”, cioè una convincente affermazione di potenza.
Oppure la folla, che lo circonda e pretende strumentalizzarlo, piegandolo alle proprie attese. O anche, e direi soprattutto, lo stesso discepolo: «Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e disse: via da me, Satana! Perché non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Me 8,33). Pietro, volendo distogliere Gesù dalla via della Croce (ancora una volta non si tratta di distogliere il Cristo dal suo compito messianico, bensì di indicargli una via più facile per svolgerlo) ripropone esattamente la tentazione di Satana nel deserto. Una tentazione sottile, che viene dal di dentro del gruppo. Una tentazione definita satanica («via da me, Satana») ma che poi – in realtà – non è altro che un “ragionare da uomini”. Ciò che viene da Satana e colpisce al cuore la verità di Gesù può apparire ragionevole al punto che il discepolo se ne fa portavoce senza accorgersi, se non addirittura pensando di servire il Signore. Se così, è veramente importante pregare continuamente dicendo al Padre: «Liberaci dal Maligno».
I mille volti del Padre Nostro
Il pane per ogni giorno,
il perdono dei peccati,
la forza per vincere il male:
questi i bisogni dell’uomo
che il Cristo ha individuato
e che affida alla forza dell’orazione.
Dopo aver meditato il Padre Nostro domanda per domanda, quasi parola per parola, è bello volgersi indietro per contemplarlo nelle sue qualità fondamentali, nelle strutture che lo sorreggono e gli imprimono uno stile inconfondibile. Sono molte, ma dobbiamo accontentarci soltanto di alcune.
Il Padre Nostro è una preghiera ammirevole per la sua sobrietà: non c’è una parola di troppo né aggettivi ingombranti. Già il saggio Qohelet diceva che la preghiera deve essere di poche parole. Poche, ma vere. A che serve moltiplicare le parole? Le parole inutili stancano Dio e gli uomini. E difatti Gesù ha insegnato il Padre Nostro proprio per contrapporsi alle interminabili preghiere dei pagani, «i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno, ancor prima di chiederle».
Il Padre Nostro è una preghiera di domande, non di lode, né di ringraziamenti. Semplicemente di domande. E questo è splendido. Si pensa – a volte – che la preghiera di domanda sia la più umile, la più interessata delle preghiere, in un certo senso persino indegna dell’uomo maturo. Forse.
Personalmente penso invece che sia la preghiera più vera, quella che fotografa l’uomo nelle sue dimensioni più reali: il pericolo, l’impotenza, la paura e il bisogno.
Proprio perché è una preghiera fatta di domande, soltanto di domande, il Padre Nostro è la preghiera dell’uomo. Però dell’uomo autentico, semplificato, che chiede le cose necessarie, non cose inutili e ingombranti, non le cose di troppo: il Regno di Dio, il pane di ogni giorno, il perdono, la vittoria sul male.
I bisogni dell’uomo sono tanti. Così – per lo meno – pensiamo noi. Il Padre Nostro, però, ne indica soltanto tre: il pane per ogni giorno, il perdono dei peccati, la forza per vincere il male. Perché questi tre e non altri? Evidentemente perché il Padre Nostro li considera essenziali e sufficienti.
Con questa scelta la preghiera di Gesù ci invita ad un chiarimento della nostra vita: ci dice quali sono i veri bisogni, invitandoci a indugiare su questi e a lasciar perdere gli altri, perché inutili, indotti e frastornanti.
La preghiera del Padre Nostro è la preghiera dell’uomo semplificato. Una condizione, questa, assolutamente necessaria perché la preghiera del Padre Nostro trovi la sua verità.
Il Padre Nostro è la preghiera del discepolo di Gesù, di un uomo, cioè, che vive tutto raccolto nell’attesa del Regno di Dio. Il discepolo è un uomo che prende molto sul serio l’avvertimento evangelico: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in più».
“Cercare” è un verbo che esprime un desiderio sentito, sincero, un modo di vivere appassionato e concentrato. Chi si disperde in molte cose, sembra cercare molto, ma in realtà non cerca nulla. Un simile uomo è tutto il contrario del discepolo. E sulle sue labbra il Padre Nostro non dice nulla: parole, formule, ma non domande vere.
Le prime tre richieste del Padre Nostro esprimono un solo grande desiderio: «Venga il tuo Regno».
Se chi le recita non desidera il Regno, tutto si affloscia: il Padre Nostro diventa una formula abituale, una confusa domanda generale in cui si chiede a Dio tutto e niente.
Se un uomo non desidera Dio, che senso può avere per lui quel «Venga il tuo Regno?». Il Padre Nostro è una preghiera che richiede delle condizioni di verità che non sono di tutti. Il Padre Nostro è una preghiera impegnativa.
Pur essendo la preghiera del cristiano, anzi del vero cristiano, il Padre Nostro può dire qualcosa anche all’uomo non cristiano: non però all’uomo qualunque, all’uomo senza qualità, ma all’uomo insoddisfatto delle cose che ha e che raggiunge: un uomo che cerca una pienezza che non trova e che tuttavia continua a desiderare e a cercare.
Anche quest’uomo – senza accorgersi, senza parole – esprime a modo suo il grande desiderio: «Venga il tuo Regno».
Il Padre Nostro è la preghiera dei figli. Giustamente la liturgia della Messa lo introduce con queste parole: «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire…» Osiamo: recitare il Padre Nostro è, difatti, un modo coraggioso di stare davanti a Dio. E’ il coraggio dei figli. Se il cristiano prega con tanta dignità davanti al Padre, a testa alta, non è perché è arrogante, ma perché si sente autorizzato dalla parola del Signore. Egli sa che si tratta di un coraggio regalato, ricevuto, non scoperto in noi stessi in nome di non so quale dignità. La sua radice è la dignità di essere figli come Gesù: e questo è un puro dono, che non si può vantare come cosa propria, ma della quale si può solo ringraziare. Pregare il Padre con dignità e coraggio, con confidenza, è un modo di ringraziarlo e di riconoscerlo “Padre”.