Uscirà il prossimo 14 luglio Dante Alighieri. Durante di Alighiero degli Alighieri di Indro Montanelli (De Piante Editore, pagine 56, euro 20,00), con una prefazione di Gianfranco Ravasi di cui anticipiamo una parte in queste colonne. Si tratta un ritratto che Montanelli fece di Dante, inserito in un fascicolo che faceva parte di una pubblicazione destinata agli abbonati del “Giornale”.
Montanelli è consapevole che Dante è soprattutto la sua opera poetica, ma è altrettanto conscio di non poter scalare questa vetta così ardua. Si accontenta, così, di ricorrere a una serie di bozzetti, talvolta anche sbrigativi, soprattutto riguardo agli scritti minori. Davanti al capolavoro, la Divina Commedia, ricorre a un’immagine suggestiva: «Contemporaneo di Giotto e di Arnolfo, cioè dei grandi costruttori di cattedrali, anche lui volle elevarne una secondo gli stessi rapporti e simmetrie ». Infatti, l’architettura dell’endecasillabo, della rima, delle terzine, dei canti diventa la strumentazione per erigere questo monumento unico e mirabile. «Diede così agl’italiani lo strumento più necessario a diventar tali: la lingua».
Egli cerca anche di riservare un cenno alla teologia sottesa al capolavoro, ma è un azzardo perché è una componente aliena al giornalista (che pure aveva nella sua mente interrogazioni religiose, come ho potuto scoprire nei nostri incontri). Infatti, contrariamente al giudizio di Montanelli, Dante aveva una straordinaria dotazione teologica, come attestano tutti gli esegeti storico-critici della Commedia. Ora, sulla scia del simbolo sopra evocato della cattedrale poetica, a suggello di questa nota minima e marginale riguardante il profilo dantesco montanelliano, vorremmo gettare solo uno sguardo su questo «poema al quale ha posto mano e cielo e terra», come confessava lo stesso Poeta ( Par. XXV, 1-2).
Ci riferiremo soltanto al contrappunto armonico che rende la Divina Commedia un testo supremo nella sua capacità di tenere in armonia perfetta gli antipodi. Pensiamo proprio all’euritmia mirabile tra la poesia purissima e la più raffinata speculazione teologica. Oppure allo straordinario connubio tra l’assoluta creatività del genio poetico e lo stampo rigido dei versi rimati e della scansione degli accenti endecasillabici, come accadrà, in maniera analoga nell’eccezionale consonanza tra l’impeccabile e sofisticata tecnica musicale di Bach e le sue affascinanti architetture melodiche. O ancora pensiamo all’interazione unica tra astrazione tematica e parola dipinta, come, tanto per fare un esempio, accade nell’Antipurgatorio davanti a una schiera di anime che avanzano «come le pecorelle escon dal chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette, atterrando l’occhio e ’l muso, / e ciò che fa la prima e l’altre fanno, / addossandosi a lei s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno » ( Purg. III, 79-84).
Potremmo continuare a lungo in questo elenco dei sorprendenti equilibri armonici della scrittura dantesca tra poli antitetici. C’è, infatti, anche l’arcobaleno delle sintonie tra storia e trascendenza, tra carnalità e spiritualità, tra contingenza ed eternità, tra epifania e mistero, tra peccato e grazia, tra tragedia e gloria, tra cronaca e profezia, tra giustizia e salvezza. In Dante si compie veramente la definizione del bello coniata da un altro grande poeta, Rainer Maria Rilke, nell’avvio stesso delle sue Elegie duinesi: «Il bello è nient’altro che l’inizio del tremendo» (I, 4).
In questa suprema “simbolicità” – nel senso etimologico del termine, ossia del “tener insieme” gli estremi – la traiettoria che regge l’intero itinerario terrestre, infernale e celeste di Dante è il transito «all’etterno dal tempo» ( Par. XXXI, 38), è, in ultima analisi, il mostrare «come l’uom s’etterna» ( Inf. XV, 85).