Il biblista domenicano commenta un testo del Papa su presbiteri e spiritualità annotando l’importanza di mettersi umilmente in ascolto di Dio, dei confratelli e dei fedeli
Pubblichiamo qui uno stralcio dell’intervento di Timothy Radcliffe, teologo e biblista, contenuto nel volume a firma di papa Francesco Secondo lo stile di Dio. Riflessioni sulla spiritualità del presbitero (Libreria Editrice Vaticana, pagine 72, euro 5,50), che presenta l’intervento del pontefice al recente Simposio internazionale “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, tenutosi nel febbraio scorso in Vaticano. Il testo di Francesco viene commentato appunto da padre Radcliffe, domenicano e già maestro generale dell’Ordine dei predicatori, e da don Luigi Maria Epicoco, docente di Filosofia all’Università Lateranense e assistente spirituale del dicastero per la Comunicazione. Ezio Falavegna, parroco e teologo della Facoltà teologica del Triveneto, ha curato alcune schede per la formazione permanente del clero che arricchiscono il testo.
Sono entrato nell’Ordine dei frati predicatori col desiderio di diventare un fratello in mezzo ad altri fratelli. Arrivato al momento dell’ordinazione ho avuto qualche dubbio: mi ero sempre sentito a disagio di fronte a qualsiasi accenno di clericalismo e avevo accettato di essere ordinato perché lo desideravano i miei confratelli ed era utile per la predicazione. Mi sarebbe piaciuto leggere le parole del papa in quella circostanza! Infatti Francesco afferma che la vocazione al sacerdozio ministeriale dischiude nel prete «quel potenziale di Amore che abbiamo ricevuto nel giorno del nostro Battesimo ». È proprio quello che ho scoperto anch’io, sperimentando inoltre che, da quando sono sacerdote, «la vita si complica sempre meravigliosamente».
È attraverso le complicazioni, le piccole vittorie della grazia e i nostri fallimenti che accediamo all’eterna semplicità di Dio. Francesco esamina le quattro forme di vicinanza che sono alla base di questo amore: vicinanza a Dio, al vescovo, ai presbiteri, al popolo. «Un sacerdote è invitato innanzitutto a coltivare questa vicinanza, l’intimità con Dio»: quando ero un giovane frate faticavo a capire il significato di questa affermazione. Ho una relazione personale con il Signore? Rimanevo coscienziosamente in silenzio nella cappella chiedendomi che cosa stessi facendo. Non sentivo nessuna voce. Non riuscivo a pensare a Gesù come a una specie di amico invisibile accanto a me. Stavo ingannando me stesso e il prossimo o gli illusi erano gli altri? Tuttavia continuai ad aspettare. Condividere questo silenzio con i confratelli e gli amici laici mi ha aiutato a sperare che un giorno avrei percepito più profondamente la vicinanza di Dio.
Col tempo quello che sono arrivato a credere e a sperimentare è che questa intimità non significa che Dio mi è accanto come una persona sta vicino a un’altra. Il fatto che Dio si rivolga a me mi dona continuamente l’esistenza. «Io sono una missione» (Evangelii Gaudium, n. 273), esisto in quanto Dio mi ha trovato, come dice dolcemente Francesco, e che Dio chiama all’esistenza in ogni momento. Nella Bibbia, quando Dio si rivolge a qualcuno, solitamente la risposta che riceve è Hineni, “Eccomi”. La mia identità più profonda risiede in quella parola: “Eccomi”. Rimango seduto in silenzio, vulnerabile di fronte a Dio, e lascio svanire ogni altra sensazione superficiale di identità. Sant’Agostino dice a Dio: «Tu eri con me e io non ero con te». Dio aspetta che io torni a casa, a me stesso, dove Lui è pronto ad abbracciarmi come il padre con il figliol prodigo. Ogni volta che ho perso il senso della mia vocazione ciò è avvenuto perché sono fuggito da quel silenzio in cui ho il coraggio di essere me stesso, nudo di fronte a Dio e senza vergogna. Spesso Francesco chiedeva ai suoi sacerdoti di Buenos Aires come si preparavano ad andare a dormire la sera: «E non passi dal Signore, almeno a dargli la buonanotte?». Questo devo farlo più spesso, non basta dire solo “Buongiorno”.
Inoltre Francesco indica la desolazione come un momento d’incontro con Dio: «La via del deserto è la via che conduce all’intimità con Dio, a patto però di non fuggire, di non trovare modi per evadere da questo incontro ». Di recente sono stato operato per un tumore alla mascella. Sono rimasto in ospedale per cinque settimane. Per un certo periodo la mia percezione di chi fossi è stata messa a dura prova. Scrittore e predicatore, non riuscivo a pensare con chiarezza e in qualche momento non avevo idea di dove mi trovassi. Normalmente mi piace fare tante cose, ma non riuscivo a far nulla. In quell’umile condizione di privazione mi sono sentito più vicino che mai a nostro Signore che si è incarnato in un bambino indifeso, dipendente in tutto dagli altri. Per giorni e giorni ho sofferto di una terribile sete, ma l’unica cosa che potevo fare era inumidirmi le labbra. Pensavo ossessivamente alla sete che tormentò Israele mentre vagava nel deserto e continuavo a ripetermi: «Ti ho messo alla prova alle acque di Merìba» (Salmo 81,8). In quel deserto arido ho incontrato l’uomo che disse alla donna samaritana al pozzo: «Dammi da bere» (Giovanni 4,7) e che morì assetato sulla croce. In una tale desolazione tutto quello che abbiamo realizzato è come un nulla, crollano le immagini che ci siamo fatti di noi stessi e ci ritroviamo accanto al Figlio dell’uomo che si è fatto ultimo. […] Ho conosciuto molti ottimi vescovi, ma solo uno è stato per me un vero padre: Francesco, vescovo di Roma.
Dopo l’operazione sono rimasto addormentato per quasi trenta ore, riprendendo coscienza solo per pochi istanti mentre mi trovavo in terapia intensiva; in quel periodo il mio priore mi ha portato un biglietto scritto a mano per me. Arrivava da Francesco. È un tipico esempio del modo in cui esercita la sua paternità episcopale: il papa fa migliaia di telefonate, bussa alla porta di decine di persone e scrive lettere di suo pugno che stupiscono sempre chi le riceve. Francesco inizia la sua riflessione sulla vicinanza al vescovo parlando dell’obbedienza. Questa «non è un attributo disciplinare, ma la caratteristica più forte dei legami che ci uniscono in comunione». Essa comporta confronto, ascolto, in alcuni casi persino tensioni, ma mai rottura. Come domenicano, è questa l’obbedienza che devo, oltre che a Dio, anche ai miei confratelli riuniti in Capitolo o ai miei superiori. Nella tradizione domenicana l’obbedienza non è tanto una sottomissione della volontà quanto un’apertura delle orecchie – ob-audire – e quindi della mente. Il teologo domenicano Herbert McCabe ha scritto: «L’obbedienza diventa perfetta quando chi comanda e chi obbedisce arrivano a condividere la stessa visione.
L’obbedienza cieca, nella nostra tradizione, non ha più senso di quanto ne abbia l’apprendimento cieco». Obbedienza significa aprire il cuore e la mente gli uni agli altri, cercando insieme di scoprire ciò che è buono e vero. L’obbedienza, quindi, si radica nel dialogo. Soprattutto durante quel momento comunitario che è il capitolo, noi frati cerchiamo di entrare in dialogo con i fratelli con cui siamo in disaccordo, cercando di capire perché credono a cose che a noi sembrano sbagliate. L’obbedienza richiede la capacità di entrare nella loro esperienza, l’intelligenza di capire le verità che custodiscono, l’umiltà di imparare da loro.
Il sacerdote dovrebbe eccellere nell’arte della conversazione. […] L’unità all’interno delle diocesi e della parrocchia non consiste in un’uniformità frutto di imposizione, ma in un dialogo continuo che allarga e migliora la nostra mente superando divisioni etniche, ideologiche e generazionali. Così condividiamo la vita del Verbo di Dio, il cui ministero fu un dialogo continuo con amici e nemici, autorità religiose e mendicanti finché non fu messo a tacere sulla croce. Il terzo giorno, però, il dialogo riprese nel giardino: «Maria» – «Rabbunì». Nessun silenzio dovrebbe essere infinito. Ogni dialogo interrotto dovrebbe avere la sua mattina di Pasqua.