Nel tempo degli incontri con il Risorto, i Discepoli riflettono insieme sugli eventi emozionanti e traumatici dell’avventura vissuta con Gesù e pregano Dio – insieme con la Madre – perché li custodisca in attesa della loro ora, che deve venire. Dopo cinquanta giorni, un rombo di tuono, un passaggio di vento, un lampo di fuoco. E i suoi “ragazzi” (così li chiamava il Signore, anche da Risorto, cfr. Vangelo di Giovanni, 21, 5) sono tutti fuori, a riaprire le promesse della vita “per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani” (Atti degli Apostoli, 2, 39).
Finiscono oggi, praticamente, anche i nostri cinquanta giorni. Vorrei prendere ispirazione dal significato di questa coincidenza della drammatica chiusura del tempo della pandemia, per illuminare l’appello che ci viene incontro: per noi e per tutti. Lo faccio, allusivamente, con due parole-chiave.
La prima è interiorità. Il lockdown ha imposto prepotentemente la forza vitale di questa risorsa, massacrata dalla società dei consumi e del godimento e dalla scuola delle competenze e delle prestazioni. Senza riserve di interiorità, ogni paura sconfina nell’angoscia e nello smarrimento totale. La nostra separazione forzata, l’isolamento, la perdita di esteriorità (pur necessaria) hanno messo alla prova le riserve dell’anima: la capacità di colloquio con sé stessi, l’attitudine a dare il giusto peso alle emozioni, il gusto di dare forma creativa ai pensieri e forza delicata alle relazioni, anche quando rimaniamo distanti. L’abitudine all’arricchimento della nostra interiorità è la riserva strategica della nostra resilienza alla forzata perdita di mondo. Questa riserva si apprende, si coltiva, si sviluppa affettivamente e culturalmente nell’intero tempo della scuola. (Nessun segno di conversione, su questo punto, è pervenuto: nonostante qualche accorato e motivato appello).
La seconda parola è delicatezza. Delicatezza è un modo di toccare i corpi che crea un contatto con la nostra anima. Lo abbiamo visto: la competenza e l’organizzazione affondano – e ci affondano – nei loro stessi apparati, senza interpreti generosi, all’altezza dell’umana capacità di toccare con delicatezza e maneggiare con cura l’umano. Una società manesca, una società dell’ammucchiata, una società delle tecniche, questa ricchezza dell’umanità la perde più velocemente della discesa del Pil. La delicatezza umana è virtù tipicamente familiare: la sua iniziazione nasce lì, non c’è altro inizio possibile. Il virus lo ha portato allo scoperto: la forma dei legami famigliari ha sopportato il peso maggiore, e retto nel modo più degno, all’aggressione. La grammatica delle relazioni famigliari è più istruttiva ed efficace di qualsiasi prontuario politicamente corretto delle buone maniere. Qualcuno ha intenzione di sostenere politicamente ed economicamente questo rovesciamento di prospettiva, nell’interesse delle giovani generazioni e della comunità tutta?
E la Chiesa? La Chiesa sapeva già da tempo che la parrocchia (Dio la benedica sempre) non è certamente più in grado di contenere neppure tutti i suoi figli battezzati: né tutti i credenti o tutti i lontani e gli estranei che il Signore chiamerebbe. L’opportunità di trarre dal segno apocalittico, che ha fermato il mondo per una buona “mezz’ora” (Apocalisse 8, 1), un cambio di passo ormai quasi obbligato, apre il verso per un tempo favorevole. Deve essere voluto, naturalmente. La piccola comunità eucaristica, ritrovata in termini di “rappresentanza” e “intercessione” di un più vasto popolo che Dio ama, ridiventerà segno irradiante – letteralmente: per noi e per tutti – di una nuova cultura del regno che Dio va costruendo fra tutte le genti, senza eccezione di persona. E non appena lo Spirito darà il segnale, tutti fuori, per il piacere di vederla crescere.