La lettura del conflitto russo-ucraino sotto la lente religiosa del teologo Francesco Braschi. “La frattura della Chiesa tocca l’identità ecclesiale di milioni di persone e rischia di alimentare una contrapposizione che confligge con l’unità fraterna di milioni di famiglie miste”
Un conflitto presentato esclusivamente in termini di «contrapposizione geopolitica». Ma che in realtà s’inserisce in un quadro in cui entrano in gioco fattori storici, culturali, religiosi, etnico-linguistici, di cui spesso si tiene troppo poco conto. Monsignor Francesco Braschi, docente di Teologia all’Università Cattolica, guarda al conflitto scatenato dalla Russia contro l’Ucraina da un osservatorio privilegiato, quello della Biblioteca Ambrosiana di Milano, dove ha fondato e dirige la Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana. «Quello a cui stiamo assistendo è lo scandalo di un conflitto in cui i diretti interessati non hanno voce in capitolo. Tanto la popolazione del Donbass quanto quella dell’Ucraina si trovano nella condizione di vedere il destino e la sorte della propria terra decisa altrove», afferma monsignor Braschi. «Nella “Fratelli tutti” Papa Francesco parla di nuove forme di una “colonizzazione culturale” che, in ossequio agli interessi economici di attori molto grandi, permette di annientare il valore e il diritto all’esistenza di alcuni popoli. Un passaggio che mi è tornato alla mente, proprio osservando la crisi ucraina».
Com’è vissuto il conflitto tra Russia e Ucraina dalla popolazione?
«La questione legata alla geopolitica e alle regioni del Donbass viene percepita dalle opinioni pubbliche dei due Paesi, al di là degli schieramenti politici, non come lo scontro di due popoli ma come la divisione di un popolo che – nonostante viva in due diversi Stati – mantiene legami fortissimi. Mi riferisco ai milioni di famiglie miste ucraine-russe che rappresentano una realtà estremamente consistente e diffusa. Nonostante le possibili strumentalizzazioni di questo dato di fatto, c’è una sostanziale unità di una buona parte degli abitanti dell’Ucraina nei confronti della Russia. Quello che viene percepito in questo momento è l’innaturalità della contrapposizione e della forzata divisione. Un aspetto che, a sua volta, va a toccare due ferite aperte. La prima ferita è relativa al Donbass dove alla questione geopolitica se ne intreccia una di tipo culturale. Mi riferisco al bilinguismo: in questa regione fino a qualche tempo fa c’era una forte presenza di persone che vivevano un monolinguismo russo pressoché esclusivo, che a un certo punto è diventato un problema. Tant’è che negli ultimi anni, anche come reazione all’aggressione russa, si sono visti provvedimenti e orientamenti dell’opinione pubblica volti a descrivere come un traditore della patria ucraina chiunque avesse madrelingua russa».
Lei parlava anche di una seconda ferita…
«L’Ucraina, dopo essere stata per anni luogo di drammatiche divisioni e conflitti tra le Chiese, ha assistito a una spaccatura tra l’ortodossia. Esiste dal 2018 una Chiesa ortodossa autocefala riconosciuta dal patriarcato di Costantinopoli, ma non dalla Chiesa di Mosca, e una Chiesa del patriarcato di Mosca, numericamente maggioritaria ma considerata con sempre maggiore ostilità dal governo e da buona parte dell’opinione pubblica perché legata a una “potenza straniera”. Nonostante le aspettative dei promotori della sua fondazione, non si è verificato un esodo di massa verso la nuova Chiesa ortodossa autocefala e fortemente connotata come identità ucraina, visto che appena il 10-15% degli appartenenti alla Chiesa ortodossa russa si è riconosciuto in essa. Questo dato ci fa capire che – soprattutto nelle regioni orientali – il legame con la Russia non è semplicemente una questione politica e nemmeno solo linguistica, ma testimonia un “sentire comune” che ha radici molto profonde in tanti cittadini ucraini russofoni. Da questo punto di vista mi ha colpito molto quanto è accaduto in occasione della giornata di preghiera per la pace, celebrata in gennaio a seguito della richiesta di papa Francesco: un folto gruppo di cattolici, con al suo interno anche alcuni ortodossi appartenenti a comunità cristiane diffuse in Russia, Ucraina, Bielorussia, Kazakistan, ha voluto incentrare la preghiera per la pace sulla confessione della propria fatica a vivere la comunione e l’unità. La pace, quindi, veniva implorata non solo come assenza di guerra, ma soprattutto come luogo nel quale vivere in modo comunionale l’appartenenza a diversi popoli diffusi in tutta l’ex Unione Sovietica e che trovano nella fede cristiana un punto di riferimento e di coagulo».
Ma il rapporto tra Chiesa e Stato nell’ambito ortodosso e ortodosso-russo è storicamente problematico.
«Intanto, bisogna partire dal presupposto che i punti di riferimento culturali e storici sono totalmente diversi dai nostri. Nella storia della Chiesa russa non c’è mai stato un periodo in cui questa fosse in una posizione di libertà davanti allo Stato, tranne che nei pochi mesi intercorsi tra la deposizione dello zar Nicola II e la rivoluzione bolscevica, da marzo a ottobre del 1917. È soltanto negli ultimi 25 anni che la Chiesa ortodossa russa ha faticosamente cominciato a elaborare un paradigma di relazione con lo Stato che non ne contempli la totale fusione, e ciò avviene comunque all’interno di una tradizione – quella bizantina – che non riesce a distinguere adeguatamente tra la lealtà nei confronti dell’autorità civile e il rischio di un totale appiattimento su di essa».
È anche vero, però, che Putin ha cercato in tutti i modi l’appoggio del Metropolita di Mosca.
«L’uso da parte del potere politico dell’ortodossia russa come fattore di coesione culturale e statale esiste da sempre in Russia, e con Pietro il Grande ha assunto forme estremamente radicali e strumentali che ancora fanno sentire la loro influenza storica. Così da un lato lo Stato si serve tranquillamente della Chiesa come alleata nella difesa dei “valori tradizionali del popolo russo”; ma è anche vero che anche la volontà del patriarca di Costantinopoli di affermare la sua “primazialità” rispetto alle altre chiese ortodosse ha generato situazioni inedite e che sono state percepite da Mosca come una indebita forzatura. Ma nonostante questo qualcosa sta cambiando. Se per tanti anni la Chiesa ortodossa russa in Ucraina ha cercato di ridurre al minimo gli elementi di autonomia concessi alla Metropolita di Kiev, di recente – forse anche sotto il timore della “concorrenza” della neonata Chiesa autocefala ucraina – si è visto intensificare l’uso della lingua ucraina e la coltivazione di tratti nazionali. C’è dunque una crescente consapevolezza che la comunità ortodossa russa sia comunque una comunità multinazionale: si tratta di un fattore nuovo, e che testimonia l’esistenza di una unità ecclesiale all’interno di un contesto multistatale».
Quindi la frattura della Chiesa complica il quadro geopolitico?
«Prima ancora che di un quadro geopolitico, si tratta di una contraddizione che tocca la fede e l’identità ecclesiale di milioni di persone, che si trovano divise tra loro nonostante professino la medesima fede. Naturalmente, ciò in questo momento non aiuta e in qualche modo rischia di alimentare una contrapposizione che va a confliggere con quel sentimento di unità fraterna che accomuna milioni di famiglie miste. Ricordiamoci che fino al 1991 tra Ucraina e Russia non c’era se non un confine amministrativo interno, e che molti elementi culturali ucraini – come ad esempio i canti popolari – erano considerati un patrimonio dell’intero popolo russo. Tuttavia, anche questa vicinanza e prossimità è stata strumentalizzata in modo del tutto ideologico nel discorso pronunciato da Vladimir Putin il 21 febbraio e che ha dato avvio all’invasione cui stiamo assistendo, allorquando il leader moscovita ha sostenuto che l’Ucraina non ha mai avuto una cultura propria e distinta da quella russa, e che quindi si possa giustificare la sua esistenza solo nel quadro del “mondo russo”. Piuttosto, è da temere che l’invasione e tutto ciò che ne conseguirà, davvero possano essere fattori distruttivi di quella coesistenza da popoli fratelli – pur nel rispetto delle reciproche peculiarità e della diversa appartenenza statuale – che continua a essere la migliore opzione possibile: sia perché fondata sul riconoscimento oggettivo della storia e della tradizione, sia perché capace di promuovere un mutuo riconoscimento le cui positive conseguenze per l’ambito europeo sarebbero ciò che davvero possiamo aspettarci da queste due nazioni, quale contributo prezioso all’unità dell’Europa “dall’Atlantico agli Urali”».