Non è bene abbandonare le pratiche esteriori, ma vanno riempite di spiritualità e preghiere gradite a Dio
Subito dopo la Messa, gli oggetti liturgici, compreso l’altare, sono stati ritirati per iniziare un’altra attività. A un certo punto, quel bambino è passato di nuovo davanti al palco, e anche se non c’era alcun altare si è genuflesso, suscitando le risate dei presenti.
Quello che ci sembrava un gesto di pietà non era altro che il rispetto di una regola rafforzato dall’efficacia del costume. Probabilmente i genitori gli avevano detto “Quando passi qui devi fare un inchino”, e il bambino, obbediente, così faceva. Senza ignorare la condizione del bambino, possiamo chiederci: i suoi genitori gli hanno dato quantomeno una spiegazione di base sul miracolo davanti al quale si stava inchinando, o si sono semplicemente preoccupati di insegnargli un gesto esteriore?
Questo non è un testo sulla formazione spirituale dei figli, ma vogliamo chiederci se accade lo stesso anche a noi. Viviamo pratiche spirituali o atti di pietà per costume o per mero rispetto di una regola? Ad esempio, quando facciamo la genuflessione entrando in una chiesa o in una cappella, ricordiamo che lo facciamo perché entriamo nello spazio di un Re e vogliamo rendergli omaggio?
Quando alziamo le braccia o battiamo le mani in una preghiera comunitaria, rispondiamo semplicemente alla sonorità e al ritmo della musica o stiamo pregando con il nostro corpo? Quando in fila per la Comunione facciamo un inchino o ci inginocchiamo, lo facciamo ricordando che stiamo per accogliere Dio stesso in noi o perché lo fanno tutti? Quando chiediamo la benedizione del cibo, lo facciamo per ringraziare per la Provvidenza di Dio che si prende cura di noi o è meramente una convenzione sociale che indica l’inizio del pasto?
La Quaresima, l’origine dei gesti esteriori
Tutti i momenti della vita spirituale (che è intrinsecamente interiore) sono caratterizzati da un gesto corporeo (intrinsecamente esteriore). Possiamo dire che i gesti esteriori hanno origine e ragion d’essere nella spiritualità. Questo principio e vincolo fa sì che ogni gesto sia buono per natura.
In effetti, i gesti esteriori fanno parte della “composizione” della pratica religiosa. Basta vedere la vita di Gesù Cristo, le cui parole e i cui segni erano sempre accompagnati da un gesto del corpo. Questo esempio è stato adottato dalla Chiesa fin dai primi secoli. Nella celebrazione dei sacramenti, ad esempio, sovrabbondano i gesti corporei, a loro volta ricchi di significato spirituale.
Se i gesti sono naturalmente positivi, cosa c’è di negativo nell’esempio che abbiamo fatto all’inizio? Il gesto dev’essere sempre accompagnato dal suo significato spirituale, altrimenti è svuotato. Possiamo tuttavia affermare che il gesto è stato realizzato per essere pieno di significato. Se il gesto trova il suo principio nel suo significato spirituale, lo svuotamento del gesto diventa una specie di annullamento della “ragion d’essere”, o logos, del gesto.
Il vero logos di ogni esperienza spirituale cristiana, però, è Cristo, il logos di Dio. Di conseguenza, la negazione del logos della spiritualità è una negazione di Cristo stesso. In termini più semplici, se Gesù è la Parola che riempie, lo svuotamento del gesto può essere compreso come una sua negazione. In modo ancor più grave, possiamo dire che un gesto vuoto significa una non incarnazione del mistero, come una vera negazione o un rifiuto del “Verbo che si è fatto carne”.
Gesti svuotati di senso
Quale sarebbe un buon esempio di uno svuotamento del gesto? I farisei. Erano una setta ebraica dei tempi di Gesù, come i sadducei, gli esseni e gli zeloti, ma sono stati rimproverati da Cristo soprattutto per la loro arroganza e mancanza di conversione interiore. Gesù li definiva costantemente “ipocriti”, esortandoli citando le Sacre Scritture: “E Gesù disse loro: ‘Ben profetizzò Isaia di voi, ipocriti, com’è scritto: ‘Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”” (Mc 7, 6-7).
Con la stessa fermezza avvertiva i suoi discepoli: “Guardatevi dal lievito dei farisei!” (Mc 8, 15). I farisei rispettavano la legge alla lettera e la insegnavano in modo rigoroso. Va sottolineato che per gli ebrei dei tempi biblici (e anche per Gesù) la Legge non era qualcosa di negativo, anzi, era considerata assai positiva ed era al centro dell’ebraismo. Il salmista canta con giubilo: “I precetti del Signore sono giusti” (Sal 19/18, 8), e ancora: “Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà” (Sal 39).
Per il popolo di allora, il rispetto della Legge non era un’imposizione o un’oppressione, ma il modo più eccelso di amare Dio. Vale la pena di sottolineare che Gesù non ha mai ripreso i farisei per le loro pratiche, ma perché erano svuotate del loro senso. I gesti esteriori come la decima, i digiuni e le preghiere non erano accompagnati da un atteggiamento interiore sincero, ma da vanagloria e privilegi.
Quaresima, l’azione di Dio non è esteriore
Nei profeti, si inizia a capire che l’azione di Dio non è meramente esteriore e non si esprime solo in terre e vittorie militari. Dio manifesta il desiderio della stessa risposta nelle pratiche del suo popolo: “Poiché io desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6, 6).
Questo movimento di interiorizzazione della Legge non annulla le pratiche esteriori, ma le solidifica. In Geremia, Ezechiele e Osea, la conoscenza di Dio è presentata come la via per raggiungere Dio e la meta a cui aspirare: “Tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande” (Ger 31, 34). Di conseguenza, la conoscenza di Dio e del suo amore deve portare il popolo alla conversione del cuore.
Il rispetto delle norme sorge quindi come conseguenza del cambiamento interiore: “Io darò loro un medesimo cuore, metterò dentro di loro un nuovo spirito, toglierò dal loro corpo il cuore di pietra, e metterò in loro un cuore di carne, perché camminino secondo le mie prescrizioni e osservino le mie leggi e le mettano in pratica” (Ez 11, 19-20).
La perfezione della Legge
La grande novità portata da Cristo è la perfezione della Legge, uno dei temi più polemici nella sua predicazione. Il Signore è chiaro: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento” (Mt 5, 17). In questo “portare a compimento” si nasconde quello che è probabilmente il messaggio centrale di Gesù: l’amore. Cristo non cambia niente della Legge, e di fatto ribadisce che “neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto” (Mt 5, 18), ma viene a presentare l’amore come la perfezione del modo di vivere questa Legge, perché “l’amore è l’adempimento della Legge” (Rm 13, 10).
Lungi dal rappresentare proposte relativiste o un rilassamento delle esigenze della Legge, Gesù viene a presentare il vero cammino, che è anche più esigente della Legge in sé. In Matteo (5, 20-48), abbiamo una serie di avvertimenti sul vivere la Legge, come la nota formula “Avete udito che fu detto…, ma io vi dico…”. Gesù prende varie delle leggi stabilite da Mosè e ci invita a vivere al di sopra della Legge. La Legge di Gesù è molto più esigente di quella di Mosè. In questo modo, in Quaresima riceviamo la grazia di lottare per questa esperienza interiore.
Comprendiamo che questa “nuova Legge” vissuta nell’amore corrisponde al tempo della grazia vissuto in Quaresima, al giorno del Signore. Gesù, parlando del divorzio, ricorda che Mosè ha previsto alcuni atteggiamenti per la durezza del cuore dell’uomo, ma in principio non era così. Con l’espressione “in principio” non si riferisce ad alcun ricordo storico, ma alla Genesi e alla Legge naturale di Dio, alla condizione dell’uomo prima del peccato. Cristo mostra che ci sono norme che Dio ha permesso all’uomo di vivere, ma che è già arrivato il tempo di vivere in modo più elevato la perfezione dell’amore, attraverso Cristo stesso, che è l’abolizione del peccato.
Quaresima, l’Amore non spegne la Legge
L’Amore non spegne la Legge, né risparmia da alcuna delle sue esigenze – al contrario, chiede di più. Per poter vivere l’amore bisogna prima vivere la Legge. Secondo Gesù, l’amore è al di sopra della Legge. La Legge diventa così, in Cristo, una base per l’amore. L’amore è la perfezione della Legge, e allora come potrò vivere l’amore se non riesco a vivere in primo luogo la Legge? L’invito di Gesù è esigente e radicale.
Cristo mostra l’amore reale offrendo la sua vita sulla Croce, e chiama a viverlo, comunicandolo sotto forma di comandamento: “Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). In questo contesto della “nuova legge”, Gesù non si colloca al livello di Mosè che è profeta (che parla in nome di Dio), ma al livello dell’autore della Legge, Dio stesso.
Ci sono farisei che hanno fatto la propria esperienza con Cristo, tra cui Nicodemo, ma la testimonianza più importante è probabilmente quella di San Paolo, che da fariseo, difensore rigoroso della Legge (al punto da acconsentire alla morte di Stefano), è diventato Apostolo dell’Amore, colui che ha proclamato: “Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile” (1 Cor 6, 12). Questa frase, centrale nella teologia morale paolina, indica che al di là del fatto che esista un’autorità sull’individuo, bisogna adere in modo personale al progetto di Dio ed evitare ciò che non conviene per diventare un uomo nuovo in Cristo.
Forse questa potrà essere la Quaresima dell’unione di gesti esteriori e atteggiamenti interiori. Non è ben abbandonare le pratiche esteriori, ma vanno riempite di spiritualità e di preghiere gradite a Dio.