Il cammino quaresimale che stiamo percorrendo in questo difficile tempo di pandemia dovrebbe essere un’occasione per chiedere al Verbo sofferente di aiutarci a rileggere i testi sacri e a lasciarci interpellare dalle Scritture in un modo particolare. In mezzo a tanto dolore, morte e incertezza, vediamo con paura avanzare il peccato dell’individualismo, dell’egoismo e della disuguaglianza. Dalle periferie esistenziali di tanti popoli e individui dimenticati, scartati e resi invisibili, il volto di Gesù si presenta nuovamente a noi come parola, specchio e chiave ermeneutica.
La teologia pasquale si deve nutrire, impegnare e radicare in quanti il mondo attuale ha decretato “sfortunati”, dei quali i “capri” disumanizzati (cfr. Matteo, 25, 33) di oggi non si sono voluti prendere cura neanche un istante. Il pianeta si confronta con un virus che non solo non discrimina, ma che, a causa delle iniquità strutturali di un sistema disegnato dai potenti, si accanisce liberamente con i deboli della terra. Perciò sarebbe auspicabile che vivessimo in riflessione e azione questo pellegrinare pasquale, cercando tra i “beati” del vangelo e le “pecore” umanizzate (ibidem) le chiavi di un’ermeneutica santa. Alcuni giorni fa, nella liturgia, abbiamo ricordato che Gesù, quale Verbo incarnato, si presenta come esegeta dei testi sacri. In quel tempo disse infatti ai suoi discepoli: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Matteo, 5, 17). Queste parole, alla luce del loro contesto simbolico — «vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna» — con cui Matteo inizia il quinto capitolo del suo vangelo — sono la chiave esegetica delle Beatitudini (cfr. Matteo, 5, 3-12). In seguito, e fino alla fine del capitolo, Gesù Cristo dice per sette volte «Avete inteso che fu detto…. ma io vi dico». In questa dinamica d’interpretazione biblica, Gesù ci invita a guardare il popolo sofferente con le lenti con cui si deve leggere la Bibbia e, al tempo stesso, come in un doppio specchio, a lasciarci leggere come popolo e individui dalle sue stesse parole.
Nell’omelia pronunciata nella cattedrale caldea di “San Giuseppe” a Baghdad, Papa Francesco ha affermato: «Gesù, la Sapienza in persona, completa questo ribaltamento nel Vangelo: non in un momento qualunque, ma all’inizio del primo discorso, con le Beatitudini. Il capovolgimento è totale: i poveri, quelli che piangono, i perseguitati sono detti beati… La proposta di Gesù è sapiente perché l’amore, che è il cuore delle Beatitudini, anche se pare debole agli occhi del mondo, in realtà vince. Sulla croce si è dimostrato più forte del peccato, nel sepolcro ha sconfitto la morte». Si tratta di un invito che ci aiuta a porre questo tempo di vittoria pasquale alla luce della sapienza dei beati di Gesù.
In due delle messe mattutine celebrate a Santa Marta, il Santo Padre ha fatto riferimento all’unità ermeneutica dei testi delle Beatitudini di Matteo, 5 e a quelle del Giudizio contro le nazioni di Matteo, 25. Nella messa del 9 giugno 2014 ha affermato che le Beatitudini sono «il programma di vita che ci propone Gesù, tanto semplice ma tanto difficile». E se noi volessimo qualcosa di più, Gesù ci dà anche altre indicazioni», quel «protocollo sul quale noi saremo giudicati» nel capitolo 25 del vangelo di Matteo: «Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare; ero assetato e mi hai dato da bere; ero ammalato e mi hai visitato; ero in carcere e sei venuto a trovarmi». Due anni dopo, nella messa celebrata a Santa Marta lunedì 29 febbraio 2016, Papa Francesco ha ribadito che «quando Gesù fa la proposta della via di salvezza, mai parla di “cose grandi”, solo “di cose piccole”». Sono «i due pilastri del vangelo», che si leggono in Matteo, le Beatitudini e, nel capitolo 25, il Giudizio finale, «Vieni, vieni con me perché hai fatto questo: cose semplici. Come preparazione alla Pasqua io vi invito, anche io lo farò, a leggere le Beatitudini e a leggere Matteo, 25», ha concluso il Santo Padre.
Nel capitolo 85 di Fratelli tutti, il Santo Padre ci insegna che: «Per i cristiani, le parole di Gesù hanno anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr. Matteo, 25, 40. 45). In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro, perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con un amore infinito e che “gli conferisce con ciò una dignità infinita”. A ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale. E se andiamo alla fonte ultima, che è la vita intima di Dio, ci incontriamo con una comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune. La teologia continua ad arricchirsi grazie alla riflessione su questa grande verità».
In questo tempo di quaresima, di nuovo nel ben mezzo di una pandemia mondiale, dobbiamo ammettere con chiarezza che “nessuno si salva da solo”. Ma anche che, nella lettura soteriologica indispensabile per questo periodo pasquale, nessuno, e tanto meno noi cristiani, ci salveremo se non procederemo mano nella mano con i sofferenti delle nostre periferie. Questi ultimi devono essere, se vogliamo guardare con santità il volto di Cristo, le nostre guide nelle letture dei vangeli. La nostra teologia biblica in ogni tempo, e soprattutto in questo, deve avere come chiavi ermeneutiche i poveri, gli afflitti, i diseredati, quanti hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati per causa della giustizia, quanti hanno fame, quanti hanno sete, gli emigranti, gli ignudi, i malati e i carcerati del Giudizio contro le nazioni.
di Marcelo Figueroa