Riguardo all’identità sacerdotale, la grande tradizione più antica vede al centro del ministero del prete la predicazione del Vangelo, mentre c’è una grade tradizione medievale, poi confermata dal Concilio di Trento, secondo la quale al centro dell’identità sacerdotale c’è l’Eucarestia. A mio avviso, questa dialettica è feconda, allora come oggi, perché l’Eucaristia è senza dubbio il punto più alto, più sublime dell’essenza del ministero sacerdotale, ma la predicazione del Vangelo è il punto primo: senza la predicazione del Vangelo non si fa l’Eucaristia. Quarant’anni fa, sulla teologia del ministero ordinato c’era un grande fervore, poi dopo il Concilio il dibattito si è addormentato. Oggi trovo attinente questa dialettica tra predicazione del Vangelo ed Eucaristia, in un tempo in cui anche i Paesi di antica tradizione cattolica si sta riaprendo la difficoltà non nella predicazione del Vangelo in Chiesa, ma dell’annuncio del Vangelo ai non credenti, che anche in questi Paesi sono diventati ormai numerosissimi. Per questo è importante concepire l’identità del sacerdote in senso sempre più missionario e sinodale.
Uno degli snodi forse da affrontare è lo scarto che c’è tra la formazione dei preti in seminario e la formazione permanente.
Il cardinale Tagle, nella sua introduzione al Convegno, è stato molto robusto e provocatorio su questo punto. Del resto, occorre tener presente che in un’epoca sempre più caratterizzata dai ritmi frenetici come la nostra ciò accade anche in altre professioni: molto spesso, infatti, la formazione personale si ferma a quella dell’università. Tra i preti, comunque, lo scarto tra la formazione dei seminari e la formazione permanente è abbastanza frequente, anche perché la pressione delle tante attività che si devono svolgere è così forte che difficilmente un prete trova il tempo per leggere un libro. Se, da un lato, la formazione permanente dei preti deve avere al centro la formazione teologica e pastorale, anche per approfondire le teorie e le conoscenze che caratterizzano il mondo contemporaneo e che sono in continua evoluzione, dall’altro occorre tenere conto del lato umano e sentimentale che fa parte del compito molto duro e difficile del sacerdote, molto spesso destinato alla frustrazione. Se manca un impegno serio per la formazione permanente, il rischio per i preti è quello di scoraggiarsi, di incrociare le braccia e di venirsi a trovare in una situazione moralmente e spiritualmente deplorevole, perdendo così quello slancio che li aveva spinti ad abbracciare la vita sacerdotale.
Una parte importante della formazione di un sacerdote, oltre all’aspetto pastorale, spirituale e teologico – come ha sottolineato anche il Papa nell’udienza concessa ai partecipanti al convegno – è la “formazione umana integrale”, anche per scongiurare le derive più gravi degli abusi. Come affrontare questo capitolo così delicato?
Secondo me ha pesato e pesa tuttora molto, anche sui preti giovani – anzi, per loro è perfino accentuata – quella inveterata abitudine per cui il prete è considerato una persona “diversa”, con qualcosa in più di irraggiungibile, perché è una persona sacra. Tutto ciò fa enormi danni, come ho constatato anche durante il convegno nel mio gruppo di lavoro. Due preti africani, ad esempio, hanno raccontato come da loro nessuno mai osa fare una critica ad un sacerdote. Da noi i preti sono criticatissimi ma sui media, pochissimo invece faccia a faccia: nelle nostre comunità parrocchiali raramente si crea un rapporto di parità, per cui un prete possa ricevere anche rimproveri e critiche che sarebbero fecondissimi. In questo senso, l’esperienza recente del Sinodo è stata notevole, perché fra preti, laici, religiose e religiosi, vescovi, cardinali, c’era uno spirito di parità: scomparivano i titoli e si passava facilmente al “tu”. L’autocoscienza di un prete si forma moltissimo in parrocchia, e il seminario è il luogo della formazione teologica, spirituale ma anche umana: è qui che bisogna agire soprattutto. Se già in seminario l’elemento in cui si insiste è la predicazione del Vangelo, prima che l’elemento della celebrazione dei riti sacri, l’equilibrio dell’identità sacerdotale si sposta immediatamente in maniera feconda.
Nel suo discorso, Papa Francesco ha parlato anche della necessità di una “pastorale generativa”, legata al proprio popolo di appartenenza. Quale fotografia della Chiesa italiana lei scatterebbe, sotto questo aspetto?
Una fotografia senza ombra di dubbio positiva. Ho girato molti Paesi lungo la mia lunghissima vita, e devo dire che la Chiesa italiana – e lo dobbiamo a Don Bosco – dall’Ottocento in poi ha dato vita ad una figura di prete molto più legata alla popolazione, molto più familiare. Don Bosco è finito anche in manicomio, perché giocava a pallone con i suoi ragazzi, e questo profilo dell’identità sacerdotale è rimasto fino ad oggi. Rispetto ad altri Paesi del Nord Europa, ad esempio, dove la figura del prete è quasi assimilata a quella di un impiegato, con un orario di ufficio stabilito, la tradizione italiana è molto buona. Il rischio è che la si perda con le unità pastorali, in cui i parroci hanno quattro o cinque comunità, devono correre dall’una all’altra per celebrare la Messa e non hanno il tempo per stare con la gente. E’ un rischio che va evitato in tutte le maniere, ad esempio selezionando tra le attività del prete le cose più importanti e decentrando le responsabilità: in Italia abbiamo laici preparatissimi. Per questo, ancora una volta, è importante la sinodalità, affinché l’identità del sacerdoti trovi la sua definizione e regolazione anche con una riforma del Diritto Canonico, che il Sinodo sta chiedendo.