Il 3 Ottobre scorso, sulla tomba di san Francesco in Assisi, il Santo Padre firmava la sua enciclica sulla fraternità “Fratres omnes”. In poco tempo, essa ha ridestato in tanti cuori l’aspirazione verso questo valore universale, ha messo in luce le tante ferite contro di essa nel mondo d’oggi, ha indicato alcune vie per giungere a una vera e giusta fraternità umana e ha esortato tutti –persone e istituzioni – a lavorare per essa.
L’enciclica è diretta idealmente a un pubblico vastissimo, dentro e fuori la Chiesa: in pratica all’umanità intera. Spazia su molti ambiti della vita: dal privato al pubblico, dal religioso al sociale e al politico. Dato questo suo orizzonte universale, essa evita – giustamente – di restringere il discorso a ciò che è proprio ed esclusivo dei cristiani. C’è però, verso la fine dell’enciclica, un paragrafo dove il fondamento evangelico della fraternità è riassunto in poche ma vibranti parole. Dice:
Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti.(FO, 277).
Il mistero che stiamo celebrando ci spinge a concentrarci proprio su questo fondamento cristologico della fraternità, perché è sulla croce che essa fu inaugurata.
Nel Nuovo Testamento, “fratello” significa, in senso primordiale, la persona nata dallo stesso padre e dalla stessa madre. “Fratelli” sono detti, in secondo luogo, gli appartenenti allo stesso popolo e nazione. Così Paolo dice di essere disposto a diventare anatema, separato da Cristo, a vantaggio dei suoi fratelli secondo la carne, che sono gli Israeliti (cf. Rom 9, 3). È chiaro che in questi contesti, come in altri casi, “fratelli” comprende uomini e donne, fratelli e sorelle.
In questo allargamento dell’orizzonte si arriva a chiamare fratello ogni persona umana, per il fatto di essere tale. Fratello è quello che la Bibbia chiama il “prossimo”. “Chi non ama il proprio fratello…” (1 Gv 2,9) vuol dire: chi non ama il suo prossimo. Quando Gesú dice: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40), intende ogni persona umana bisognosa di aiuto.
Ma accanto a tutti questi significati antichi e conosciuti, nel Nuovo Testamento la parola “fratello” va sempre più chiaramente indicando una categoria particolare di persone. Fratelli tra di loro sono i discepoli di Gesú, quelli che accolgono i suoi insegnamenti. “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? […] Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12, 48-50).
In questa linea, la Pasqua segna una tappa nuova e decisiva. Grazie ad essa, Cristo diventa “il primogenito tra molti fratelli” (Rom 8,29). I discepoli diventano fratelli in senso nuovo e profondissimo: condividono non solo l’insegnamento di Gesú, ma anche il suo Spirito, la sua vita nuova di risorto. È significativo che solo dopo la sua risurrezione, per la prima volta, Gesú chiama i suoi discepoli “fratelli”: “Va’ dai miei fratelli – dice a Maria di Magdala – e di’ loro: ‘Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro’” (Gv 20,17). “Colui che santifica e coloro che sono santificati –si legge nella Lettera agli Ebrei – provengono tutti da una stessa origine; per questo [Cristo] non si vergogna di chiamarli fratelli” (Ebr 2, 11).
Dopo la Pasqua, questo è l’uso più comune del termine fratello; esso indica il fratello di fede, membro della comunità cristiana. Fratelli “di sangue” anche in questo caso, ma del sangue di Cristo! Questo fa della fraternità in Cristo qualcosa di unico e di trascendente, rispetto a ogni altro genere di fraternità ed è dovuto al fatto che Cristo è anche Dio. Essa non si sostituisce agli altri tipi dei fraternità basati su famiglia, nazione o razza, ma li corona. Tutti gli esseri umani sono fratelli in quanto creature dello stesso Dio e Padre. A ciò la fede cristiana aggiunge una seconda decisiva ragione. Siamo fratelli non solo a titolo di creazione, ma anche di redenzione; non solo perché abbiamo tutti lo stesso Padre, ma perché abbiamo tutti lo stesso fratello, Cristo, “primogenito tra molti fratelli”.
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Alla luce di tutto questo, dobbiamo ora fare alcune riflessioni attuali. La fraternità si costruisce cominciando da vicino, da noi, non con grandi schemi, con traguardi ambiziosi e astratti. Questo significa che la fraternità universale comincia, per noi, con la fraternità nella Chiesa Cattolica. Lascio da parte, per una volta, anche il secondo cerchio che è la fraternità tra tutti i credenti in Cristo, cioè l’ecumenismo.
La fraternità cattolica è ferita! La tunica di Cristo è stata fatta a pezzi dalle divisioni tra le Chiese; ma – quel che non è meno grave – ogni pezzo della tunica è spesso diviso, a sua volta, in altri pezzi. Parlo naturalmente dell’elemento umano di essa, perché la vera tunica di Cristo, il suo corpo mistico animato dallo Spirito Santo, nessuno la potrà mai lacerare. Agli occhi di Dio, la Chiesa è “una, santa cattolica e apostolica”, e tale rimarrà fino alla fine del mondo. Questo, tuttavia, non scusa le nostre divisioni, ma le rende più colpevoli e deve spingerci con più forza a risanarle.
Qual è la causa più comune delle divisioni tra i cattolici? Non è il dogma, non sono i sacramenti e i ministeri: tutte cose che per singolare grazia di Dio custodiamo integri e unanimi. È l’opzione politica, quando essa prende il sopravvento su quella religiosa ed ecclesiale e sposa una ideologia. È questo, in certe parti del mondo, il vero fattore di divisione, anche se taciuto o sdegnosamente negato. Questo è un peccato, nel senso più stretto del termine. Vuole dire che “il regno di questo mondo” è diventato più importante, nel proprio cuore, che non il Regno di Dio.
Credo che siamo chiamati tutti a fare su ciò un serio esame di coscienza e a convertirci. Questa è per eccellenza l’opera di colui il cui nome è “diabolos”, cioè il divisore, il nemico che semina zizzania, come lo definisce Gesú nella sua parabola (cf. Mt 13, 25).
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Dobbiamo imparare dal Vangelo e dall’esempio di Gesú. Intorno a lui esisteva una forte polarizzazione politica. Esistevano quattro partiti: i Farisei, i Sadducei, gli Erodiani e gli Zeloti. Gesú non si schierò con nessuno di essi e resistette energicamente al tentativo di trascinarlo da una parte o dall’altra. La primitiva comunità cristiana lo seguì fedelmente in questa scelta. Questo è un esempio soprattutto per i pastori che devono essere pastori di tutto il gregge, non di una sola parte di esso. Sono essi perciò i primi a dover fare un serio esame di coscienza e chiedersi dove stanno portando il proprio gregge: se dalla propria parte o dalla parte di Gesù. Il Concilio Vaticano II affida soprattutto ai laici il compito di tradurre le indicazioni sociali, economiche e politiche del Vangelo in scelte anche diverse, purché sempre rispettose degli altri e pacifiche.
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Se c’è un dono o un carisma proprio che la Chiesa Cattolica deve coltivare a beneficio di tutte le Chiese, esso è quello dell’unità. Il recente viaggio del Santo Padre in Iraq ci ha fatto toccare con mano cosa significa, per chi è oppresso o reduce da guerre e persecuzione, sentirsi parte di un corpo universale, con qualcuno che può far udire il tuo grido al resto del mondo e fare rinascere la speranza. Ancora una volta si è realizzato il mandato di Cristo a Pietro: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).
A Colui che è morto sulla croce “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11, 52) eleviamo, in questo giorno, “con cuore contrito e spirito umiliato”, la preghiera che la Chiesa gli rivolge a ogni Messa prima della Comunione:
Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace», non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.