La Prima Lettera di Pietro è una lettera impegnativa, per niente scontata. Certo, parla di gioia e di speranza, ma in termini robusti. Gioia della vita nuova, della grande misericordia che ci ha rigenerato, di credere e di amare Gesù «pur senza averlo visto» (1,3-9); gioia della fraternità, di un amore vicendevole cordiale e senza ipocrisia (2,22).
L’evangelo è in primo piano in questa lettera, è all’origine della comunità cristiana: «siete stati rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1,23). Nati dalla Parola, i cristiani sono allora dei comunicatori. Lo sono per vocazione e missione: «affinché annunciate le opere meravigliose di lui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (1,9). L’annuncio della bella notizia non è aspetto marginale, ma inderogabile missione. Ecco il sacerdozio regale dei cristiani, che va giocato in campo aperto: non tra nuvole d’incenso ma in una bella condotta di vita, nella società e nella famiglia, tra le genti e i non-credenti (2,11-4,11).
La 1Pietro punta decisamente sulla testimonianza di vita, sulle belle opere più che sulle belle parole. Oggi è nuovamente arduo vivere il Vangelo, come lo fu all’inizio dell’avventura cristiana. Perciò abbiamo bisogno di ascoltare nello Spirito come rivolta a noi questa lettera di consolazione e incoraggiamento. Per dare ancora ragione della speranza, con mitezza e rispetto (3,15).
Pietro vede anzitutto i cristiani in una fondamentale relazione di gratuità con il Padre, lo Spirito e Gesù Cristo. Essi sono «eletti», personalmente scelti e chiamati secondo il piano salvifico del Padre, mediante lo Spirito, per l’obbedienza di Gesù Cristo. Infatti, l’indirizzo prosegue con un saluto dal carattere trinitario, come se lo scrivente non sapesse immaginare i suoi interlocutori se non in stretto rapporto con la Santa Trinità:
scelti secondo il piano stabilito da Dio PADRE, mediante lo SPIRITO che santifica, per obbedire a GESÙ CRISTO e per essere aspersi dal suo sangue (1,2).
All’origine della identità cristiana c’è una chiamata, una divina elezione che connota l’esistenza anche sotto il profilo storico sociale: rende, infatti, «stranieri», «forestieri». Come già Abramo e i patriarchi.
Capiamo subito che la seconda designazione risuona provocatrice nel nostro attuale contesto, che vede una forte presenza di immigrati e forestieri. Ma la cosa sorprendente è che la parola «forestieri» non indica qui semplicemente una condizione sociale. Non si riferisce a quelli che sociologicamente sono «stranieri e di passaggio», ma designa i cristiani come tali e il loro peculiare modo di essere nel mondo. Interpella, dunque, direttamente anche noi che, in base alla carta di identità, non siamo forestieri ma cittadini. Pietro mette subito avanti le mani: il credente, in quanto «eletto» è «straniero» anche se geograficamente abita in patria. Questa concezione della identità cristiana verrà ripresa e sviluppata in un celebre passo della Lettera a Diogneto: «I cristiani… adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera» (I Padri Apostolici, Città nuova editrice, Roma 1978, 356).
Per noi, oggi
In una società come la nostra che non sa più cosa proporre alla speranza delle giovani generazioni, è quanto mai opportuno rivisitare la 1Pietro che parla di speranza viva e invita a «cingere i fianchi della mente» allo scopo di sperare perfettamente (1,13).
Siamo invitati anche noi a rimanere «stranieri e pellegrini». A non conformarci al modo di vivere corrente, ma a diventare santi. Radicalmente anticonformisti (1,14). Non per vezzo mentale o per mera contestazione, ma perché abbiamo incontrato Gesù Cristo e ne seguiamo le orme (2,21). La rigenerazione determina un nuovo modo di essere-nel-mondo.
Respirare a pieni polmoni la libertà e dignità cristiana, come insegna a fare la 1Pietro, mette ali alla speranza e radici alla responsabilità per questo nostro mondo. Testimoniare la bellezza del vangelo nel quotidiano, nell’ambiente sociale e nella famiglia, senza emigrare dalle situazioni difficili: ecco la sfida posta ai cristiani del primo secolo, e anche a noi del terzo millennio.
Attualizzazione
La benedizione trinitaria che apre la 1Pietro invita a celebrare con gratitudine la grande misericordia che ci ha rigenerati.
Imparare a benedire
Siamo stati chiamati «per avere in eredità la benedizione», ci viene detto in 1 Pt 3,9. E questo comporta che diventiamo concretamente e in ogni circostanza uomini e donne di benedizione. Il Nuovo Testamento insegna a più riprese questo atteggiamento fondamentale. Pensiamo al cantico del Benedictus, in cui il vecchio Zaccaria benedice «il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo» (Lc 1,68). La nascita del figlio Giovanni è l’evento concreto che genera il canto di lode, ma la benedizione ne coglie il significato profondo: la visita e la liberazione divina. Ritroviamo un’esperienza simile nel cantico di Simeone (Lc 2,28-32).
Lode e benedizione sono abituali nel comportamento di Gesù. Ricordiamo il giubilo che gli sgorga spontaneo in presenza dei suoi discepoli per il fatto che Dio ha rivelato la sapienza ai piccoli: «Ti benedico o Padre creatore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25 = Lc 10,21).
Nella scena della moltiplicazione dei pani Gesù benedice e ringrazia il Padre prima ancora che l’evento si realizzi (Mc 6,41 e par.). Egli non dubita minimamente che il Padre esaudisca la sua preghiera. Avviene così anche prima della risurrezione di Lazzaro: «Gesù allora alzò gli occhi e disse: Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto…» (Gv 11,41-42). L’atteggiamento benedicente qualifica in profondità la spiritualità cristiana, come lascia intendere la conclusione del terzo vangelo dove Luca presenta i discepoli che «stavano sempre nel tempio benedicendo Dio» (Lc 24,53).
Speranza viva
La 1Pietro è stata definita la lettera della speranza, e non a torto. Speranza è parola importante in questo scritto, è la prima finalità che caratterizza la nuova generazione: siamo rinati per una speranza viva!
È soprattutto di speranza che oggi le singole persone e la società nel suo insieme hanno bisogno. Se ne parla molto, ma dove trovarla e quale speranza?
Avvertiamo l’importanza di respirare a pieni polmoni la speranza viva che ci è stata donata con l’evangelo e la rinascita battesimale. Abbiamo bisogno di riscoprirne il senso e la freschezza per contagiare nuovamente di speranza cristiana la famiglia, l’ambiente in cui viviamo, la scuola, il lavoro, la cultura. È speranza capace di guardare lontano e di orientare la vita puntando sulla meta decisiva: l’eredità nei cieli, la salvezza piena e definitiva.
Diventare uomini e donne di benedizione significa lasciare spazio a questa speranza viva nelle nostre scelte quotidiane, e lasciarci da essa guidare.
Gioia di essere cristiani
Con la speranza abbiamo bisogno di riscoprire anche la gioia di essere cristiani, lo stupore di amare Gesù e di credere in lui.
Gioia e stupore per quello che Dio ha fatto di noi. «Riconosci, cristiano, la tua dignità», esclama papa Leone Magno nel Discorso per il Natale. E, quasi facendo eco alla 1Pietro, invita alla gioia, perché non c’è spazio per la tristezza quando nasce la vita: «O carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, perché nella infinita misericordia con cui ci ha amati, ha avuto pietà di noi, e, mentre eravamo morti per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo, perché fossimo in lui creatura nuova, nuova opera delle sue mani» (Liturgia delle Ore I, 397, Città del Vaticano 1979).