«Molta morale, poca comunità, zero cultura»: è questa la sintesi dell’impietosa analisi del cattolicesimo italiano compiuta nei giorni scorsi su Avvenire dal teologo Pierangelo Sequeri. Un intervento lucidissimo che dovrebbe aprire un dibattito sulla scarsa attenzione verso la cultura da parte della Chiesa.
Eppure la necessità di una presenza, senza pensare a formule ormai superate o a schieramenti monolitici, è stata rimarcata anche dal cardinale Zuppi in una recente intervista a Civiltà cattolica. Il presidente della Cei ha rilevato come, nonostante «certe pregiudiziali negative», in generale vi sia «una buona disponibiltà al confronto e al dialogo da parte di molti». Ed è certamente vero: si pensi ai passi avanti compiuti negli ultimi decenni per quanto riguarda il dialogo fra credenti e non credenti. Ma Zuppi ha anche onestamente ammesso come oggi l’apporto dei cattolici al mondo della cultura, per quanto «prezioso», faccia «molta fatica a trovare delle modalità espressive», anche a causa di «una certa timidezza davanti ad atteggiamenti a volte aggressivi di una certa cultura dominante». E infine ha invitato a mettere in campo «quella fantasia creativa che sa superare muri e steccati».
Durante il periodo della pandemia ad esempio, a parere di chi scrive, la Chiesa italiana si è mostrata spiazzata e timorosa, quasi incapace di accompagnare chi veniva colpito pesantemente dal Covid e di pronunciare parole in grado di lenire la sofferenza dando un senso alla morte; parzialmente la voce del Papa – soprattutto la sera del 20 marzo 2020, in quel momento solitario di preghiera in piazza San Pietro – e il concreto operato di singoli sacerdoti hanno saputo far fronte a questo immenso dolore, parlando finalmente di speranza e resurrezione. Ma l’impressione è che la nostra Chiesa si sia rivelata nel suo complesso inadeguata, in una situazione che da molto tempo peraltro vede quella cattolica come una cultura socialmente insignificante.
Del resto, durante il lockdown c’era chi si lamentava per le chiese vuote non potendo celebrare i riti, ma ora alle messe domenicali i fedeli sono pressoché dimezzati per una crescente disaffezione. Penso a un articolo di un anno fa di Antonio Polito uscito su Sette, il settimanale del Corriere della sera, dopo i funerali di un ragazzo morto in un incidente stradale a Roma, in cui durante l’omelia il parroco ha parlato della resurrezione. Il cristianesimo ha parole decisive sulla morte e sulla resurrezione, sul senso della vita e sulla vita eterna: perché non le dice più – si chiedeva il giornalista, da laico – in un mondo che sembra non aspettare altro? Ecco, della Chiesa diremmo che c’è questo innanzitutto da salvare, oltre che l’impegno educativo e caritativo, che sono caratteri dominanti ma non possono essere esclusivi. Ricordo quanto rispondeva lo scrittore americano David Foster Wallace, a chi gli chiedeva da dove venisse il suo interesse verso la Chiesa cattolica: «Mi interessa la religione, solo perché alcune chiese mi sembrano posti dove si può parlare di certe cose. Che senso ha la nostra vita? Crediamo in qualcosa di più grande di noi?».
Un esempio? La paccottiglia spirituale che imperversa nelle librerie religiose, oggi come ieri, quegli opuscoli edificanti tutti basati sui buoni sentimenti che edulcorano la realtà. C’è il rischio di una “sottocultura” nel mondo cattolico, per cui si guardano solo quei film o si leggono quei libri che dicono bene del cristianesimo. Non si può dare torto a quanto rileva il filosofo Jean de Saint-Cheron, dell’Institut Catholique di Parigi, nel saggio polemico ma pieno di humor Les bons chrétiens (da poco tradotto da Lev col titolo Chi crede non è un borghese): «Oggi Palestrina, Van Eyck o Racine sono più ammirati da una microscopica élite che non crede in Dio che dai cattolici. Ma una pagina di Molière, una tela di Van Gogh, una scena di Chaplin tendono più alla verità che i litri di zuppa spiritualizzante cui si abbevera la sottocultura cristiana contemporanea». Evidentemente, tanta sciatteria culturale diventa contro-testimonianza evangelica. Qualche lieve segnale, è bene dirlo, si è manifestato negli ultimi tempi nel mondo dell’editoria cattolica, come una significativa presenza al Salone del libro di Torino dopo tanti anni di latitanza e la nascita di una nuova casa editrice, Il Pellegrino.
Iniziativa tutta da costruire e che può coinvolgere parrocchie e movimenti, centri di animazione culturale e certamente senza ignorare le potenzialità della Rete, come in Francia recentemente è stato fatto con “1000 raisons pour croire”, un sito web da consultare che raccoglie domande e risposte sulla ragionevolezza della fede cristiana, un’opera di evangelizzazione attraverso la diffusione della conoscenza, un approccio multidisciplinare che coinvolge teologia, filosofia, storia, arte e letteratura, un messaggio forte che possa essere ascoltato nello spazio pubblico. Ma tantissime altre idee possono essere messe in campo, mentre si ha l’impressione che la cultura sia svalutata e che si faccia coincidere l’impegno nel sociale solo con la carità. Eppure, la fede cristiana non si esprime al di fuori della cultura (o delle culture) e c’è bisogno di un nuovo immaginario della fede che attragga i giovani. E senza cultura non è possibile.