La ricchezza del dinamismo pasquale.
La forza della pasqua non va pensata come realtà che si manifesterà solo alla fine dei tempi, perché essa penetra e trasforma già oggi la storia del cristiano, della chiesa e del mondo. I “cieli nuovi e la terra nuova” sono già iniziati, i segni della risurrezione sono presenti tra noi. Quando parliamo di risurrezione, noi parliamo di una energia che trasfigura l’intera vita ed ogni creatura.
La “memoria” che lo Spirito di Dio compie degli eventi della salvezza nella via liturgica continua il metodo dell’incarnazione e della pasqua. Una glorificazione della condizione umana, che viene assunta nella sua concretezza. È questo che fa di ogni tempo liturgico un’esperienza antica nella perennità del dono e un’esperienza nuova nella concretezza sempre diversa della vicissitudine storica.
Nei fatti l’attuale cammino storico è segnato da profondi disagi di varia natura. La crisi economica che porta impoverimento in molte famiglie (e a fronte di questo sta insopportabile il lusso di altri); l’oscurità delle prospettive dei prossimi mesi; una crisi evidente sul piano della validità e dell’orientazione vitale delle persone e della società; un politica persa nei luoghi del potere, degli interessi particolari e delle menzogne senza vergogna; la difficoltà di una chiesa che sembra voler seguire sempre più una chiusura conservatrice perdendo la sua funzione di lievito e di speranza concreta per gli uomini e le donne di oggi; la precarietà dell’ecumenismo ridotto spesso ai convenevoli dei pasticcini e delle parole retoriche.
È un quadro pesante. Può essere alleggerito in uno sguardo al futuro possibile e alla certezza escatologica? Ma, in questa maniera, non lasciamo questi giorni al serpente? Non facciamo della pasqua un lusso alienante? Dinanzi a questo, è opportuno vivere il tempo grande di quaresima-pasqua, la santa decima dell’anno e il cinquantenario della gloria, collocandoli dentro una prospettiva che assuma la difficoltà attuale portandola dentro la luce pasquale senza alienarsi dalla durezza delle sue oscurità, anzi portandole dentro la luce del risorto Signore. La risurrezione non è un evento che avverrà alla fine, perché è un evento già avvenuto e illumina il cammino dei giorni e delle opere. La luce della pasqua è ora e qui.
Che s’intende per “risurrezione”?
La quaresima prende luce e ragione dalla pasqua, come suggerisce in modo così bello s. Benedetto: «Attendere la santa pasqua nella gioia di un più intenso desiderio spirituale» (RM 49,7). Lo Spirito «che dà la vita» è questo istinto vitale che ci porta verso la vita vincente sulla morte. Egli “fa memoria”, rende attuale la risurrezione aiutandoci a compiere un cammino di verifica della sorgente e delle ragioni della vita che viviamo e che siamo.
Questa luce illumina la creazione, che è un discorso della fede non sulle origini ma sul progetto di pienezza con il quale Dio vuole le creature: la creazione è di suo escatologica e Tertulliano parlando della creazione dell’uomo afferma: «Quando il fango assumeva la sua forma veniva configurato Cristo, l’uomo futuro», e il Cristo risorto, l’èschatos Adàm (1Cor 15,45), è la pienezza dell’uomo.
Quando parliamo di escatologia non intendiamo semplicemente parlare delle “cose ultime”, perché vengono alla fine della vita, ma di quella “realtà di pienezza” che già intride la vita presente. E questa realtà di pienezza trova anticipazione nella storia. Nel presente la pienezza finale, anche se in passi poveri, trova realizzazione (se Dio asciugherà ogni lacrima, un anticipo avviene ogni volta che si asciuga una lacrima, anche con una politica seria di giustizia verso i poveri). Perciò la risurrezione vive nei nostri giorni, soprattutto quando l’abisso vorrebbe ingoiare la luce, il che avviene ogni volta che la nostra finitudine viene attentata dal nulla che la segna nel profondo: tanto il nulla che si esprime nel limite, nelle impotenze, nel fallimento, nel dolore, nella malattia, nella decadenza e, infine, nella morte, quanto il nulla che vince in ogni peccato. Quando la speranza vince la rinunzia che viene dal limite e dall’impotenza, quando il perdono vince il peccato, è pasqua e ne sperimentiamo la gioia. Forse tutti abbiamo ammirato il dono della risurrezione farsi presente nella pace serena, anche se dolorosa, e nella forza capace di fratelli e sorelle particolarmente feriti dalla vita: sono stati e sono vincenti come frutto vivente della risurrezione del Signore.
Partecipare al Risorto
La prima istanza pasquale è il senso della risurrezione, il senso di una vita così forte che vince la morte (e con lei la disperazione e il peccato), sicché essa appare un’attrice che sulla scena realizza un evento, ma è finto. Ma forse questa interpretazione di S. Kierkegaard nasce da una fede troppo sbrigativa. Occorre più veracemente congiungere la fede della pasqua con la difficoltà concreta della morte e del morire.
Questo è possibile se il senso della fede nell’invincibilità della vita, assicurato dalla risurrezione del Signore, ha un impatto personale profondo in noi, congiungendosi a quel desiderio di vita che tutti siamo.
Ora, avviene che il desiderio della vita per molti diventa il tema dell’immortalità dell’anima. In questa prospettiva si perde troppo del prezioso essere umano. Si trascura l’entità profonda della corporeità, come realtà in sé, ricca e viva, e come atto e capacità di relazione e di vivere nella storia, di fare la storia. La vita cristiana santifica il corpo, solo che si pensi all’acqua battesimale, al crisma, all’eucaristia, all’unzione confortante nella malattia, all’onore al corpo defunto che non è un cadavere e lo si incensa come un corpo santo. La pienezza della vita riguarda l’uomo per intero.
Inoltre, il fatto che il desiderio di vita sia segnato da un’inevitabile finitudine può far ripiegare in un interesse su di noi che rischia di impoverirci. Il senso della pasqua, infatti, ci assicura che la “cornice” della nostra esistenza non è solo la finitudine, ma l’apertura all’oltre, all’altro, al Dio santo. Senza questa apertura, si rischia di camminare nella proiezione di un desiderio invece di vivere una realtà visitata dalla grazia.
Per questo emerge e ha da emergere in noi la luce della risurrezione, anzi del Risorto. Se il riferimento a Cristo per la nostra fede è cosa di sempre, nel caso della risurrezione si ha il massimo del verismo del rapporto con il Verbo della vita. Nel rapporto con lui noi viviamo la continuità fra il suo prendere la nostra carne fino a partecipare alla nostra morte (con un’espressione potente dice s. Gregorio: «Si è fatto più profondo dell’abisso della morte, perché la trascese portandola sulle sue spalle», Moralia in Job 10,9) e la sua risurrezione. Tutto si stabilisce nel verismo di una unità vitale per la quale noi partecipiamo di lui: «sepolti con Cristo nel battesimo, in lui anche risuscitati» (Col 2,12).
Certamente il riferimento al Risorto comporta una difficoltà perché chiede la fede in un evento che apre oltre la storia, mentre il pensiero della risurrezione si trova coinvolto nel profondo desiderio della vita che è ogni persona e riguarda la storia dell’umanità. E tuttavia esso ha una potenza che attrae con forza perché inserisce nella nostra persona il riferimento ad un evento nel quale la storia reale e la nostra singolare e reale storia si trasformano in un “oltre storia”, cioè nel compimento che risponde alla stoffa umana e storica, ma anche la trasforma.
Qui si tocca il grave problema dell’evento reale della risurrezione. La stessa liturgia nella gloria pasquale sa di essere davanti ad una realtà che nessuno ha visto e paradossalmente canta la luce di una notte: l’evento lo ha visto solo la notte («O notte beata, tu solo hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagl’inferi!»). Questo grido ha l’umiltà della verità e lo stupore di un’eccedenza che nessuno ha visto accadere. Ci resta (e ci basta) alzare la lode della notte «di cui è stato scritto: la notte splenderà come il giorno e sarà fonte di luce per la mia delizia».
Se si insiste sull’esperienza della risurrezione, si rimane nella “notturnità”. Infatti, se noi non abbiamo rapporto di verifica sulla risurrezione (ma lo abbiamo forse della sua incarnazione? è forse un caso che la nascita sia avvenuta nell’altra notte santa?), noi abbiamo rapporto col Risorto. Così fu per gli apostoli e noi ne accogliamo la testimonianza.
La risurrezione non è un tema che rimanda solo ad un futuro, ma raggiunge l’esperienza umana, vi si colloca all’ interno, diventando non solo l’aspettativa di un futuro escatologico, ma una realtà sempre presente e operante. La risurrezione è insieme storia (è una realtà che avviene all’interno della storia) e trapasso nell’oltre della storia come sua pienezza.
È chiaro che tutto questo vive ed è in un ambito di fede. Ma la fede è un dato divino e insieme umano ed ha la possibilità di portare un beneficio esperienziale importante, perché la risurrezione non è una luce oltre le tenebre, ma una luce che si fa presente nella fragilità creaturale.
Vita trasfigurata e trasfigurante
Se leggiamo i vangeli – come in realtà sono – come un racconto che è stato composto a partire dalla luce trasfigurante del Risorto e se siamo convinti della densità del termine “corpo di Cristo” con il quale viene indicata la chiesa, e della “ricapitolazione” che interessa l’intero creato, noi arriviamo a cogliere il vangelo come un commento liberatore della vita nella sua integralità. La risurrezione infatti è non solo una verità che riguarda il Signore, ma una verità che riguarda la comunità dei credenti e tutta la storia e il cosmo intero (la cui materia vediamo accomunata al destino del corpo di Gesù). In verità, noi comprendiamo che quando parliamo di risurrezione, noi parliamo di una energia che trasfigura l’intera vita ed ogni creatura.
Questo non diventa un criterio di retorica vuota, perché tutto parte dal realismo nel quale Dio assume la carne nella sua fragilità e le dà amore: l’incarnazione porta la risurrezione nel tessuto vivente dell’umanità, del cosmo, di ogni vita.
Questo determina la possibilità di un annunzio che fa della proclamazione del Risorto un’esperienza di liberazione, nell’incontro con la libertà umana nella storia concreta (era l’ispirazione della teologia della liberazione). In questo sta la fedeltà di Dio alla carne nella sua debolezza: egli l’ha esperita e segnata nella morte del Signore, vivificato dallo Spirito.
Nella vita della fede
Dinanzi a questa prospettiva di gloria, la fede accetta senza sviamenti la fragilità umana, ma non come umiliazione o destino di entropia, di inarrestabile declino verso la morte e il nulla, bensì come fonte di quell’affidamento motivato dalla potenza del Risorto che si proclama nella beatitudine della povertà. Il povero è beato solo perché c’è la risurrezione e si apre alla potenza di vita che si dischiude nel Risorto. Così si apre un modo diverso, nuovo, di vita e di esperienza.
Il «non conformarsi alla mentalità di questo secolo» (Rom 12,2) non è un invito ad una snobistica forma alternativa e non si inscrive in un ambito di obblighi che nascono da un’appartenenza, perché indica che la vita quotidiana ha da essere resa coerente con la luce trasfigurante. Questa non apre un percorso di ostentazione o di trionfo, non di sicurezze né di presunzione, perché è un cammino che porta e vive il segreto di una certezza di gloria nell’umiltà dei giorni feriali con la loro fatica, durezza, creatività. La fedeltà di Dio alla fragilità della carne porta in noi e sostenta la fedeltà alla vita ordinaria. Pasqua così diventa una pro-vocazione, una chiamata dell’intera esistenza nella piccola e preziosa opera e presenza di ogni uomo/donna. Si parla non solo di “opera”, ma anche di “presenza”, perché la trasfigurazione impedisce di cogliere qualsiasi persona come scarto, come un nulla che appesantisce il cammino degli altri: nessuna persona è più trascurabile, tutti siamo una gloria di Dio.
Di più: la trasformazione in “corpo spirituale” per l’opera del Cristo risorto divenuto “Spirito datore di vita” (1Cor 15,45) porta una specie di transustanziazione, mai di alienazione. L’ombra del nulla che sta dietro ogni creatura è come vinta dalla gloria dell’intenzione creativa di Dio che, come suo principio, ha voluto la creatura per la sua pienezza. In conseguenza di questo, il mondo e la sua esistenza, l’umanità e l’esistenza dei singoli si capiscono superando la limitazione di uno sguardo che si posa soltanto sulla loro origine, per cogliere l’universo nella luminosità della sua verità escatologica. La loro pienezza di vita trova il primo compimento nella risurrezione del primogenito della creazione che è anche primogenito dei risorti da morte (Col 1,15-18).
Questa è la profonda ricchezza della fede. Essa ci rende coscienti che la visione cristiana dell’uomo non è secondo una “natura” concepibile solo a livello di ragione. Il discorso paolino sulla risurrezione (1Cor 15) ci fa capire che “la natura” è la decadenza del “corpo di polvere” e l’insufficienza del “corpo psichico”. Essa ha da essere trasformata nella potenza del “corpo spirituale” (1Cor 15,42-46).
La fede apre la speranza, e qui ritorna l’espressione bella e determinante del vescovo Dionigi di Milano: «La speranza per la vita porta l’intelligenza della vita», un’espressione profondamente e fondatamente pasquale. Il Risorto è sorgente di una vita intrinsecamente, veracemente risorta, e questo porta la luce su ogni forma di vita. Apre anche la preoccupazione e l’impegno a che la vita sia più grande possibile. Qui si collocano l’impegno politico e l’impegno ecologico (e si coglie la contraddizione di un’ecologia che non ha orrore dell’aborto).
In questa luce l’amore è conoscenza e la conoscenza è amore. L’amore prende questa forma particolare e diventa un riconoscimento relazionale che coglie l’intensa profondità ed essenzialità di vita vincente in ogni creatura e la vuole, la mette in atto nella storia con gesti forse poveri ma veri di risposta al desiderio vitale di pienezza. Sempre si ama non un/a morituro/a ma un vivente. Questo porta ad una forza di volere incondizionato che conduce o almeno tenta di organizzare il reale non secondo il principio della morte, perché la morte e il nulla non sono più condizioni che bloccano il vivere e l’impegno.
Se la vita non ha il gusto della vita, ma ha il gusto della morte, nasce l’angoscia che determina la ricerca – vana – del potere, di ogni forma di potere, come vano surrogato di esistenza e di potenza, che trasforma la storia in un processo di competizioni e la relazione in un contesto di paure, perché l’altro – nella fosca ombra del niente -è un non-me, un attentato al mio essere. Inoltre, si scambia la gioia col piacere, come un disperato risarcimento in frammenti che non conoscono l’arte di essere posti come tessere nell’intero di un mosaico di vita.
L’esistenza nel Risorto fa cessare ogni istinto di potere, perché l’eredità del Risorto porta il senso “signorile” (Rom 6,5-9) della propria vita, dal momento che egli, Spirito vivificante, è il segreto del corpo che è sotto la luce del suo essere.
Noi abitiamo un tempo trasfigurato, come anticipo che non sogna un “al di là”, ma vive con fedeltà il “qui-ora” come veracità della verità risorta di tutto il cosmo e la storia (qui tutta la forza di Rom 8,19-25) e che avrà compimento “lassù” (Col 3,1-4), quando si manifesterà Cristo nostra vita.
Memoria passionis e promissionis
Quando dallo sguardo al mistero passiamo allo sguardo sul mondo e sulla storia, la prima cosa che abbiamo da compiere è la memoria passionis: nella liturgia celeste l’agnello che “sta” nella posizione del Risorto resta sempre immolato (Ap 5). In lui resta il segno della passione e della morte, per ricordarci che la fede nella risurrezione, anzi nel Risorto, contiene dentro di sé e sancisce il criterio dell'”autorità dei sofferenti”. Di qui la chiamata ad un «ecumenismo della compassione» (J.B. Metz) che porta dentro di sé una speranza che si basa sulla memoria della promessa (quale forza in Cristo assume anche la “grande compassione” buddista!).
La memoria che lo Spirito realizza in noi (Gv 14,26) non è un ricordo, ma l’attualizzazione della promessa di Dio attraverso l’opera nostra, come chiesa e come singoli. L’escatologia chiede che la storia sia un anticipo della pienezza finale, attraverso gesti forse poveri ma realizzatori della pienezza.
In concreto, qui l’affermazione conclusiva della storia che Dio dà in Ap 21,4 (che riprende la promessa di Is 25,8: «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»), diventa la necessità di coloro che vivono la caparra della risurrezione ad essere asciugatori di lacrime, dal gesto maternale della carezza fino all’impegno in una politica, come arte di costruire una polis dove pace, giustizia, verità non siano parole ma stoffa della vita, non gioco di potere ma potenza di servizio (e tutti sappiamo quanto questo sia manchevole e necessario). Quanto avviene nella gloria che il cuore vive nella celebrazione della pasqua, nella luminosa notte pasquale, ha da muovere le mani nei giorni feriali della storia.
Di questo sono testimoni la teologia della speranza e la teologia della liberazione, che non sono episodi culturali, ma presenze necessarie nel vivere dei cristiani.
Uomo e cosmo
Se ricordiamo la Contra gentiles di s. Tommaso nei capitoli 15-19 del terzo libro, noi comprendiamo che il destino della pienezza riguarda non solo l’uomo, ma tutte le creature e l’intero cosmo: «conseguire Dio ognuno nella propria maniera». Lasciamo nell’enigma il tema dei “cieli nuovi” e della “terra nuova” (2Pt 3,13), ma teniamo di conto la bellezza della comunanza del desiderio e della promessa che riguarda tutte le creature. L’antico cuore della chiesa ha sentito questo quando nell’Exultet, dopo gli angeli, per prima viene invitata alla gioia non la chiesa ma «la terra inondata da così grande splendore». Ora si adempie la promessa di Gen 8,21-22 e l’arco delle saette degli dèi è stato trasformato nell’iride dell’alleanza di Dio con ogni “carne” (Gen 9, 11-17). Questa promessa raggiunge la verità del compimento nel corpo risorto di Gesù. In lui l’intera materia e l’intera basar-carne diventano glorificate. E questo ha il suo acme nel mistero dell’ascensione, che porta la materia e l’universo nel cuore stesso di Dio mediante il corpo dell’Agnello immolato e risorto che sale nel fastigio della gloria.
Nasce un nuovo modo di procedere, quello di un cuore largo come la spiaggia del mare che accoglie ogni onda e ogni relitto. In esso l’operosità di carità di una fede ricca di speranza vive la feconda intesa insieme a tutte le creature, in ogni nuova via verso la verità (GS 44).
La fede sente sorelle e sodali le scienze e la cultura creativa umana. La coscienza della risurrezione intride il quotidiano e porta motivazione ad una tecnica che chiede una risposta di senso. E anche se non la chiede – ma ce l’ha dentro di sé! – noi la portiamo e la doniamo, non come colonizzazione delle scienze, ma come offerta fraterna di un servizio di gioia.
Paolo Giannoni