La recente istruzione La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa, pubblicata dalla Congregazione per il clero, prova a indicare una delle vie di rinnovamento della parrocchia. Partendo da un’analisi dei diversi cambiamenti socio-culturali in atto da qualche tempo, essa sottolinea che la parrocchia, pur con il suo valore, risulta oggi appesantita, statica, incapace di portare avanti il compito che le è proprio, quello dell’evangelizzazione. Allo stesso tempo, il documento propone che la conversione pastorale della parrocchia assuma la forma, già sperimentata in diversi modi, di una comunità inclusiva, non più determinata da limiti di tipo giuridico-territoriali, ma caratterizzata dalla missionarietà e da un agire improntato alla comunione e alla compartecipazione, attraverso le unità o zone pastorali.
Il testo, sulla scia del magistero di Papa Francesco, afferma con determinazione che, nell’attuale congiuntura storica e socio-culturale, particolarmente segnata dalla mobilità, dagli spostamenti, da un costante allargamento dei “confini esistenziali”, la parrocchia così come l’abbiamo conosciuta non può andare oltre la mera preservazione delle cose di sempre; nonostante gli sforzi, infatti, in un tempo così profondamente mutato, «la parrocchia talora non riesce a corrispondere adeguatamente alle tante aspettative dei fedeli» (n.16) e ha bisogno di superare l’idea di un «campo d’azione esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia», che la rende incapace di “uscire” verso l’esterno e prevalentemente segnata dalla «mera ripetizione di attività senza incidenza nella vita delle persone concrete» (n. 17). C’è bisogno allora di un dinamismo nel segno dell’evangelizzazione, attraverso «nuove attenzioni e proposte pastorali diversificate» (n. 18), e l’individuazione di «prospettive che permettano di rinnovare le strutture parrocchiali “tradizionali” in chiave missionaria» (n. 20). L’istruzione incoraggia, offrendo anche una normativa canonica utile specialmente ai vescovi, «un processo graduale di rinnovamento delle strutture», per giungere a «modalità diversificate di affidamento della cura pastorale e di partecipazione all’esercizio di essa, che coinvolgono tutte le componenti del Popolo di Dio”» (n. 42).
Tali modalità differenti sono già note come unità o zona pastorale. Non si tratta di una semplice ristrutturazione organizzativa, né di sopperire a difficoltà numerico-sociologiche come la scarsità di preti; qui è in gioco una rilettura teologica della parrocchia sulla scorta dell’ecclesiologia di comunione e del “sogno missionario” delineato da Papa Francesco in Evangelii gaudium.
Cosa serve per cambiare
Cosa serve davvero per attuare un cambiamento del genere, al di là degli aspetti strutturali e delle norme canoniche? L’istruzione afferma che «la conversione delle strutture, che la parrocchia deve proporsi, richiede “a monte” un cambiamento di mentalità e un rinnovamento interiore, soprattutto di quanti sono chiamati alla responsabilità della guida pastorale» (n. 35). Questo inciso è naturalmente passato inosservato sia nella superficialità delle battute giornalistiche sul documento, sia da alcuni pur migliori giudizi, che si sono eccessivamente soffermati sugli aspetti teologici o canonici come se — fermo restando la loro importanza — bastasse che questi fossero chiari per avere la certezza di un vero cambiamento. In realtà — visione urticante ma necessaria del cristianesimo — si cambia davvero all’esterno solo quando anzitutto “a monte” c’è un rinnovamento interiore e di mentalità.
Preti “insieme”
Non è tanto difficile osare una diagnosi della corrente mentalità dei preti e, naturalmente, lo si dice senza accusare nessuno. Il prete formato dal seminario post-tridentino, generalmente posto “a capo” di una parrocchia post-tridentina, strutturata in modo indipendente dalle altre comunità limitrofe e in modo eccessivamente verticistico rispetto alla relazione clero-laici, spesso è un pensatore solitario. Sente il peso di una responsabilità che — questo sì — anche canonicamente viene ancora affidata esclusivamente a lui; si sente posto “al vertice” e, inevitabilmente fatica a far realmente entrare “altri” come corresponsabili nel territorio delle decisioni, delle scelte, delle visioni pastorali. Pensato, immaginato e talvolta richiesto come condottiero, egli ha un fragile legame con gli altri presbiteri (nonostante la retorica astratta che si fa nelle diocesi sulla comunione presbiterale) e, anzi, cerca riparo da un confronto con i confratelli se ciò dovesse mettere in discussione il suo modo di essere e di fare il prete. Egli è portato a pensare, pregare, decidere e scegliere in solitaria.
Il cambiamento di mentalità e il rinnovamento interiore richiesto riguarda l’ambito della formazione dei preti. Non si insisterà mai abbastanza — la stessa Congregazione per il clero ha promulgato una Ratio fundamentalis che richiama tale principio — sulla necessità di una struttura umana dei candidati al sacerdozio capace di quella maturità e stabilità affettiva che li renda “uomini di relazione”; al contempo, la fraternità sacerdotale non può essere più vista e vissuta in modo teorico o limitandosi a sporadiche occasioni organizzate, ma dovrà essere una modalità di esercizio del ministero: condividere la strada, pregare insieme, riflettere insieme sul territorio e sulle esigenze dell’evangelizzazione, progettare insieme la pastorale. Nella relazionalità — ambito che non deve far dimenticare l’importanza fondamentale della donna nei seminari e nella vita del prete — egli può maturare quello stile di sinodalità che è richiesto per avviare un’unità pastorale: a poco servirebbe la struttura con le sue norme canoniche se la prassi e lo stile rimangono clericali, se il prete non progetta e agisce insieme ai suoi confratelli, e se non rende co-protagonisti e corresponsabili i laici, specialmente nella fase della lettura del territorio, dell’individuazioni delle domande umane e spirituale, nelle scelte e decisioni pastorali.
Laici adulti e secolari
Una conversione è richiesta naturalmente anche ai laici. L’istruzione ricorda che la Chiesa è il popolo di Dio e, perciò, l’opera di rinnovamento non può e non deve essere calata dall’alto, ma coinvolge come protagonisti tutti i battezzati. Tuttavia, ci troviamo qui a uno snodo fondamentale che si presenta ancora problematico. Da una parte, al laicato non viene ancora pienamente riconosciuta, se non in teoria, la dignità sacerdotale, ecclesiale, ministeriale che deriva dal battesimo e, di conseguenza, la chiamata alla corresponsabilità pastorale per l’edificazione della Chiesa e per l’evangelizzazione; dall’altra, un laicato a cui negli anni sono state date briciole devozionali e sentimentaliste, invece che una formazione essenziale sulla fede e sulla propria vocazione, spesso si aggira nelle sagrestie e intorno ai preti con gli stessi atteggiamenti e le stesse visioni clericali che pure anelano a superare, o comunque dimenticando lo specifico di una spiritualità laicale e ambendo a fare le cose del prete.
In gioco, peraltro, c’è la connotazione evangelizzatrice e missionaria del compito cristiano laico, che comprende certamente l’annuncio della Parola e l’animazione di momenti liturgici, ma si caratterizza specialmente per quell’essere e diventare lievito nella pasta del mondo, vivendo una liberante secolarità e cercando, trovando e portando Dio in tutte le cose della vita quotidiana.
In una recente intervista sull’istruzione, il teologo Giuseppe Lorizio ha colto un aspetto fondamentale del documento, ossia l’invito a una conversione di tutta la comunità cristiana. È il rinnovamento di pensiero, di formazione e di prassi che deve coinvolgere preti e laici, perché anche la parrocchia si rinnovi davvero.