Accolto da un lungo applauso a sottolinearne la recente nomina cardinalizia, monsignor Marcello Semeraro, amministratore apostolico di Albano e prefetto della Congregazione delle cause dei santi — che Papa Francesco creerà cardinale nel concistoro del 28 novembre — ha tenuto la prolusione per la cerimonia di inaugurazione del nuovo anno accademico e formativo del Pontificio Collegio leoniano di Anagni, il seminario dove si formano i futuri preti di tutto il Lazio (Roma esclusa) con annesso Istituto teologico frequentato da circa 250 tra laici, sacerdoti, religiosi e religiose. Salutato dal rettore don Emanuele Giannone, dal direttore del Teologico don Pasquale Bua e dai vescovi di alcune diocesi del Lazio (monsignor Lorenzo Loppa per Anagni-Alatri, monsignor Ambrogio Spreafico per Frosinone-Veroli-Ferentino e monsignor Lino Fumagalli per Viterbo) il prefetto della Congregazione delle cause dei santi ha incentrato il suo intervento, sul tema «Convertire la parrocchia?», con una serie di riflessioni in margine alla recente Istruzione La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa a cura della Congregazione per il clero.
Un tema, ha detto subito il vescovo Semeraro, che «di fatto accende i riflettori su una realtà ecclesiale, la parrocchia appunto, che ancora oggi costituisce senza dubbio una figura di Chiesa senza della quale non si può immaginare, sul piano teologico e nondimeno su quello pastorale, come il Vangelo possa essere ancora annunciato, assicurando forme stabili di presenza della comunità cristiana in uno spazio antropologico ben definito». Non a caso la Chiesa vi ha dedicato tanti documenti, ad iniziare da quelli contenuti nel magistero degli ultimi Pontefici «fino ad arrivare alle riflessioni di Papa Francesco in Evangelii gaudium».
Una «conversione pastorale» indicata dunque da sempre, ma che oggi deve necessariamente fare i conti con «qualcosa di inedito, di incontenibile, di imprevedibile, causa di tanto dolore e di tanta sofferenza, ma probabilmente portatore anche di una “grazia misteriosa”», ha aggiunto il presule, facendo poi degli esempi concreti di come il lockdown, e più in generale la pandemia, hanno mutato anche alcuni aspetti del rapporto dei fedeli con le comunità parrocchiali di appartenenza. La grazia, dunque, ma anche «una sorta di stanchezza per le troppe attività messe in cantiere». «Ci siamo accorti di una certa fragilità della nostra proposta di catechesi ai ragazzi — ha proseguito — abbiamo potuto vedere facilmente chiudersi in se stessi i nostri adolescenti, come pure, per certi versi, abbiamo assistito allo sbriciolarsi in un attimo della coscienza del precetto festivo».
E allora, dove vanno le nostre parrocchie oggi? Monsignor Semeraro ha posto subito la questione-distinzione tra “territorio” e “habitat” della parrocchia, facendo riferimento proprio all’Istruzione che, al numero 16, parla di superamento di «una pastorale che mantiene il campo d’azione esclusivamente all’interno dei limiti territoriali della parrocchia, quando spesso sono proprio i parrocchiani a non comprendere più questa modalità, che appare segnata dalla nostalgia del passato, più che ispirata dall’audacia per il futuro».
Un altro tratto, non del tutto nuovo ma che non per questo va trascurato, è quello che il relatore ha incasellato in «comunità parrocchiali costituite da credenti che, di fronte all’esperienza della fede, operano delle scelte che non sono le stesse per tutti, anche sulle dimensioni essenziali della vita di fede». Per mantenere il suo tratto popolare e di accessibilità da parte di tutti, l’Istruzione, se per un verso riconosce che la parrocchia non è più «come in passato, il luogo primario dell’aggregazione e della socialità», al contempo sollecita a «trovare altre modalità di vicinanza e di prossimità rispetto alle abituali attività. Tale compito non costituisce un peso da subire, ma una sfida da accogliere con entusiasmo». Si può leggere in questa sollecitazione — ha sottolineato Semeraro — l’invito insistente di Papa Francesco a considerare che «la pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”» (Evangelii gaudium, 33).
Un’altra sottolineatura il vescovo di Albano l’ha colta nel passaggio in cui la Congregazione per il clero parla di «una parrocchia inclusiva» quanto più ha alcuni caratteri di un santuario: non tanto per le devozioni in esso coltivate, quanto per il loro essere veri e propri «avamposti missionari», connotati dall’accoglienza, dalla vita di preghiera e dal silenzio che ristora lo spirito, nonché dalla celebrazione del sacramento della riconciliazione e dall’attenzione ai poveri.
Così come pure è necessario che le parrocchie si accostino sempre più a quella “mistica della fraternità” cara a Papa Francesco. È dunque evangelizzatrice, ha chiosato monsignor Semeraro «una comunità che sa scegliere la postura giusta, che è quella di mettersi a servizio della fede, disponendosi a rendere possibile una relazione personale e, per quanto è possibile autonoma (cioè adulta), di tutti coloro che lo desiderano nei confronti del Signore e della sua Parola».
Semeraro ha infine concluso lasciando all’uditorio una sfida da raccogliere, ovvero quella «di rendere le nostre comunità parrocchiali sempre più missionarie, un impegno che riguarda tutti noi, nessuno escluso». «È chiesto alle nostre comunità — ha proseguito — di discernere ciò che oggi, nella condizione della diaspora in cui siamo, “lo Spirito dice alle Chiese”, affinché non ci limitiamo ad adorare le ceneri di una “cristianità” ormai in rovina, bensì ci adoperiamo per tenere vivo il fuoco del Vangelo. Quel fuoco che accende la passione per un “cristianesimo degli occhi aperti”, capace di illuminare la strada verso una proposta all’altezza della nostra umanità di oggi, da amare e servire in nome del Vangelo».
di Igor Traboni