“Mia madre non mi ha mai detto di andar prete, mai, però era così buona, amava tanto il Signore che al suo contatto io spontaneamente ho preso questa strada…”. La voce è inconfondibile, ed è quella che con nostalgia ricordano ancora tanti fedeli che durante quei 34 giorni di pontificato stavano cominciando a conoscere e ad amare Giovanni Paolo I, il Papa che viene ora beatificato dal suo successore Francesco. È la voce di Albino Luciani, che quel 29 giugno 1968, nella grande chiesa parrocchiale di Santa Maria del Piave, diocesi di Vittorio Veneto, era venuto ad ordinare prete don Giuseppe Nadal. Undici minuti di omelia, a braccio, per tracciare un identikit del sacerdote. Un documento sonoro che qui possiamo ascoltare integralmente, datato oltre cinquant’anni fa ma che contiene parole ancora oggi attualissime: parlano di pastori “con l’odore delle pecore” e ci aiutano ad entrare nel cuore del nuovo beato.
“Io spero veramente – aggiungeva Luciani – che il Signore aiuti il nuovo sacerdote, come i sacerdoti che ho consacrato stamattina, e me li faccia dediti al popolo, capaci di servire. Voi sentite che si dice ministri di Dio: ministri vuol dire ‘servi’, servi di Dio e servi del popolo. Un sacerdote è un bravo sacerdote quando è servo degli altri; se è servo di sé stesso non è a posto”. Il vescovo Luciani cita un “santo sacerdote” – don Francesco Mottola, futuro beato – quale aveva scritto: “Il sacerdote deve essere pane, il sacerdote deve lasciarsi mangiare dalla gente”. Quindi, aggiunge, “essere a disposizione della gente in tutti i momenti; ha rinunciato alla sua famiglia apposta per essere a disposizione delle altre famiglie”.
Nell’omelia c’è poi un accenno esplicito al celibato sacerdotale: “Qualcuno dice: ‘I preti non si sposano perché la Chiesa non apprezza il matrimonio, ha paura di mettere il matrimonio accanto a queste cose sante’: non è vero, non è vero! San Pietro era sposato, non è questo. Noi pensiamo invece questo: la famiglia è una cosa sublime e grande e appunto per questo se uno è padre di famiglia ne ha basta per fare il suo dovere: figlioli da educare, figlioli da crescere; è tutto impegnato in quella cosa lì, è troppo grande la famiglia perché uno possa essere con una famiglia e poter fare incarichi così grandi come il sacerdozio. O una cosa o l’altra”.
“Quindi – continuava il vescovo di Vittorio Veneto – ripeto: il sacerdote sia servo di tutti. È questo specialmente il suo compito, il suo posto: servire. E il popolo sa capire, quando vede che il sacerdote è veramente un servo che si disfa per gli altri. Allora dice: ‘Abbiamo un bravo sacerdote’, allora è contento, allora veramente è contento”.
Dopo aver assicurato che prima di ordinare un prete si fanno “tanti esami” e si ascolta “cosa pensa la gente di lui”, Luciani insiste sulla testimonianza personale, cioè sull’importanza di incarnare nella vita ciò che professa e predica. E lo fa con tratti che descrivono la sua umiltà. Perché la parola predicata, “prima, possibilmente, deve essere vissuta; io non posso dire a voi altri: ‘Siate buoni’, se prima non sono io buono; e se sapeste alle volte che rossore anche per il vescovo, presentarsi davanti alla gente e dire: ‘Siate buoni, siate più buoni, io forse non ho fatto abbastanza, neanche io sono buono abbastanza’. Sarebbe bellissimo che io, prima di predicare gli altri, avessi fatto tutto quello che dico agli altri. Non sempre è possibile. Dovete accontentarvi dello sforzo, abbiamo anche noi il temperamento, abbiamo anche noi la debolezza. Però il sacerdote, se vuol essere sacerdote, bisogna che non si presenti a predicare agli altri se prima lui stesso non ha almeno cercato – con ripetuti sforzi – di fare quello che domanda agli altri che facciano”.
Infine, una raccomandazione: nella vita pastorale e nella celebrazione dei sacramenti, “la confessione soprattutto”, bisogna essere “soavi” e trattare bene la gente: “Io dico sempre ai miei preti: ‘Cari fratelli… la gente bisogna trattarla bene. Se è vero che siamo servi bisogna trattare bene la gente; non basta dedicarsi alla gente, ma essere soavi con la gente anche se qualcheduno alle volte è ingrato”. E se “non sempre c’è la giusta riconoscenza, non dobbiamo lavorare per questa riconoscenza. Il Signore là ci aspetta, a vedere se nonostante tutto siamo capaci di continuare a fare un po’ di bene alla gente”. La conclusione è una preghiera e un augurio di “avere sacerdoti che siano veramente santi e veramente servi del popolo”.