«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi»: nella grande udienza di ieri papa Francesco, rilanciando con la necessaria autorevolezza e forza icastica Giovanni (14-27), ha messo il dito sulla piaga dell’Europa sconvolta dalla guerra in Ucraina. Non ha fatto solo questo. Ha chiamato tutti noi a una riflessione radicale sul senso che dovremmo attribuire al nostro stesso stare al mondo. La pace predicata dal Nazareno, sembra essenziale ribadirlo, non vuole alludere a una semplice tregua stipulata dagli eserciti in lotta: se non lo comprendiamo, continueremo a baloccarci in una riduzione quasi infantile della posta in gioco: stai con me o contro di me? Sei per l’invio delle armi a Zelensky o credi sia più giusto stare dalla parte di Putin?
L’esistenza che Gesù indica agli apostoli come indispensabile per mettersi alla sua sequela supera il concetto di armistizio, ben sapendo che i conflitti saranno sempre inestirpabili, non potranno essere assenti, se non all’interno di un artificiale falansterio: ecco la ragione per cui Miguel de Unamuno, spirito cristiano fra i più fulgidi del Novecento, pensando a una concordia siffatta, da acquario fiorito o paradiso in terra, scrisse: «Non predicarmi la pace, ti prego, essa mi fa paura perché vuol dire sottomissione e menzogna».
Quale valore potrebbe mai avere infatti una pace stabilita secondo le leggi del mondo, che sentenziasse il dominio incontrastato del forte sul debole, la tirannia del carnefice sulla vittima, la vittoria del prepotente sull’inerme? Ma anche le altre ‘paci’ che costellano la storia dell’umanità cosa sono state, se non protocolli di legalità compilati dai popoli vincitori, regno dei potenti sugli imbelli, trionfi dei più scaltri sugli indifferenti? Il male sta sempre davanti e dentro di noi: dobbiamo affrontarlo assumendoci la responsabilità dell’azione nel momento in cui interveniamo per contrapporci all’oltraggio di un principio in cui crediamo.
Così rispose Dietrich Bonhoeffer a chi gli chiedeva come facesse a conciliare il suo essere cristiano e combattente allo stesso tempo: «Se io vedessi un autista pazzo uccidere i passanti sul Kurfürstendamm di Berlino (chiara allusione al Führer), il mio dovere di pastore, prima ancora di soccorrere i feriti, dovrebbe essere quello di strappare il conducente dalla guida del mezzo». In altro momento disse anche: «Solo chi alza la voce in difesa degli ebrei può permettersi di cantare il gregoriano». Dopodiché, precisò con una sorta di dolorosa oculatezza, dovrei chiedere la misericordia di Dio.
E qui arriviamo a Fëdor Michajlovic Dostoevskij, l’anima russa più profonda che conosciamo: non è la prima volta che papa Francesco ci esorta a leggere-rileggere la Leggenda del Santo Inquisitore, uno dei tesori artistici compresi all’interno dei Fratelli Karamazov.
In quel romanzo capitale della letteratura moderna, Ivan – nichilista che armerà la mano di Smerdiakov contro il padre – legge il testo a Aleksej, mite ma non vile, forse con l’intenzione di fiaccarne la certezza religiosa. In queste pagine decisive s’immagina che il Figlio di Dio torni sulla terra, nella Spagna del XVI secolo, e venga condannato al rogo dall’arcigno novantenne che, in nome dell’autorità della Chiesa, con un discorso serrato di straordinaria levatura teologica, gli rimprovera di aver dato agli uomini il carico, per loro insostenibile, della libertà. Cristo, dopo averlo ascoltato in silenzio, per tutta risposta si avvicina all’Inquisitore e lo bacia sulle labbra tremanti.
Come ci ha ricordato Francesco, il rimprovero che viene rivolto a Gesù è quello di non essere diventato Cesare imponendo con la forza la pace armata. Abbiamo invece il fardello della libertà. È vero, la Pasqua ci illumina. Ma prendere posizione significa rischiare, uscire allo scoperto. Il bene è sempre illogico, cioè fuori dalla nostra logica. Che è anche logica di guerra. La tenerezza, il perdono e l’amore gratuito del prossimo sono rivoluzioni permanenti da fare ogni giorno.