Diocesi di Piazza Armerina (EN): Domenica 13 marzo 2022 (Gen 15,5-12.17-18; Fil 3,17- 4,1; Lc 9,28-36)
«È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo» (Sal 92, 1). Rendiamo oggi grazie al Signore con le parole del Salmo 92, perché nell’Eucarestia ci mostra la potenza della sua vittoria sulle tenebre e sul male. La Risurrezione di Gesù è anticipo e caparra della luce futura, una luce che dunque ci precede anche quando non la vediamo, è già lì anche quando siamo immersi nel buio, questa luce infatti è grazia, è dono, è realtà che ci attira e ci sta davanti: le tenebre, le fatiche, le sofferenze, i tormenti che viviamo sono solo preludio della luce e della liberazione: la notte è preludio dell’alba e la notte è condizione della luce. In tale contesto si inserisce il cammino quaresimale che abbiamo già iniziato, un itinerario che ci condurrà a contemplare lo splendore della Cristo risorto.
Rendiamo grazie al Signore perché, ancora una volta, in questa seconda domenica di Quaresima, ha seminato il seme buono della sua Parola. Questo dono va letto sicuramente come un segno della misericordia di Dio. La sua amorevolezza nei confronti degli uomini lo spinge a porre continuamente in atto azioni che richiamino la nostra risposta di fede. La Parola permette di aprire il proprio cuore a un’altra persona e di svelare i propri sentimenti, i propri pensieri e la propria vita. Così ha fatto Dio amando noi sue creature, fatti a Sua immagine e somiglianza. «Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2): la Parola di Dio trasforma la vita di coloro che vi si accostano con fede. La Parola non è mai esaurita, è ogni giorno nuova. Ma perché questo avvenga occorre una fede che ascolta. L’ascolto crea un’appartenenza, un legame, fa entrare nell’alleanza. La stessa Scrittura attesta a più riprese che l’ascolto è ciò che rende Israele popolo di Dio.
L’alleanza tra Dio e il suo popolo che abbiamo appena considerato è il momento fondante della nostra vicenda umana e spirituale e la nostra fede è comprensibile solo alla luce di tale alleanza. L’elemento costitutivo di questo rapporto tra Dio e l’uomo è proprio l’ascolto. «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, uno solo è il Signore» (Dt 6, 4): non a caso questa professione di fede, caratterizzata dal verbo שְׁמַע, ascolta, apre ogni mattino le labbra del fedele israelita. Nell’ascolto si compongono insieme l’atto fisico dell’udire, l’atto intellettuale del comprendere, l’atto spirituale dell’aderire con il cuore e la decisione di operare nella vita. Così, in un processo che mette in campo tutte le facoltà umane, la comunità dei credenti arriva ad assimilare vitalmente le divine Scritture ed entra realmente in comunione di fede e di amore con Gesù Cristo, la Parola di Dio fatta carne. Il passo successivo all’ascolto è l’obbedienza della fede (cf. DV 5). L’ascoltare, inteso nel senso di percezione della volontà di Dio, si realizza veramente solo quando l’uomo, con la fede e l’azione, obbedisce a quella volontà. Come coronamento dell’ascoltare nasce dunque l’obbedire, quell’obbedire che consiste nel credere.
La prima lettura, che abbiamo appena ascoltato, ci aiuta a considerare proprio tale aspetto della nostra fede alla luce dell’esperienza unica ed esclusiva di Abramo e della sua vocazione. Egli viene chiamato da Dio a partire, ed egli e lo fa prima ancora di sapere dove andrà, dove si concluderà questo viaggio, dove lo porterà e quando si concluderà. Abramo obbedisce alla parola che Dio gli rivolge: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gn 12, 1). Quello di Abramo è un salto nel vuoto, gli basta solo la promessa: la tua discendenza sarà numerosa come il firmamento del cielo. Tale atteggiamento è alla base della nostra esperienza di fede. Il Signore ci chiede di pensare solo a partire, di metterci in viaggio dietro a lui, alla sua volontà. Dio ci chiede di fidarci, una fiducia direi eroica che non chiede né spiegazioni, né garanzie. È il Signore che guida la nostra vita, a noi basta la sua promessa. Il poco che noi possiamo dargli, se affidato a Lui cresce e fruttifica cento volte tanto: la meta vale la pena del viaggio. Non abbiamo paura di darci a Gesù, di rispondere sì alla sua chiamata, di dire con il salmista: «Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà» (Sal 40, 8).
Ci sia di aiuto l’esempio di Abramo, modello di coloro che confidano in Dio che ci viene incontro. Attraverso la fiducia, egli entra già in possesso di quello che spera. Quella stessa notte Dio ratifica l’alleanza con il suo popolo, passa in mezzo al suo sacrificio come fiamma ardente. Tale segno rimanda alla fedeltà di Dio che non mette a tacere la domanda della ragione, ma risponde a colui che crede. I discendenti di Abramo stanno a testimoniare che la sua fede non fu delusa. Anche noi siamo chiamati a lasciare ciò a cui siamo più attaccati, a cambiare la nostra prospettiva: «Ogni cristiano e ogni comunità – sottolinea Papa Francesco in Evangelii Gaudium al n. 20 – discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo».
Non stiamo quindi parlando di un’uscita, di un cammino dritto, senza ostruzioni, permeato della gloria della Risurrezione, ma di un cammino scosceso, ricco di salite e di discese, di buche e di deviazioni. È il cammino della croce, della passione del Signore Gesù. La Risurrezione deve passare dalla morte per essere tale. Mettiamoci in guardia da coloro che l’apostolo Paolo, nella seconda lettura, definisce “nemici della croce di Cristo” (Fil 3, 18). Cioè coloro che ci presentano sempre una scappatoia, coloro che vorrebbero un Dio interventista, che rifiutano l’idea che Dio possa continuare ad esistere nonostante il dolore e le lacrime della guerra. «Non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6, 14), ci ammonisce ancora San Paolo. La croce di Cristo è indispensabile per conseguire il traguardo della fede e volerla schivare o raggirarla come un ostacolo è un’opera demoniaca. Chi, infatti, rifugge la sua croce, omette di considerarla come irrinunciabile prospettiva di vita, rifiuta di incarnarla nelle vicende tristi e controverse del suo vissuto, in una parola tende a misconoscerla, vale a dire che mira alle sole garanzie e ai successi immediati e poco duraturi. La vera ricompensa delle nostre lotte si trova invece al termine del percorso tortuoso che siamo chiamati a percorrere, non all’inizio. Tuttavia, considerare la meta e aver fisso l’obiettivo è condizione per cui possiamo sentirci motivati verso di esso, ci è di sprone a non lasciarci demotivare dagli ostacoli e delle difficoltà, ma ci esorta a perseverare fino alla corona di gloria.
In fin dei conti, il dono che Gesù, nella lettura evangelica che abbiamo ascoltato, fa ai suoi discepoli sul monte Tabor è proprio questo. Egli fa loro sperimentare un anticipo della luce, dello splendore e del bagliore della Risurrezione. Vi è la medesima presenza consolatrice di Dio che incoraggiò Abramo e che permette a Pietro, Giacomo e Giovanni di vincere il sonno e la stanchezza. La nube, la voce dal cielo li rassicura e li rende certi di essere stati raggiunti dal fascino della grandezza di Dio che si fa tutto per loro e che li renderà testimoni e protagonisti. Di fronte all’antico cammino d’Israele, che si condensa nell’uscita dall’Egitto e dall’entrata salvatrice in Palestina, vediamo qui l’autentico cammino, l’esodo di Cristo che, per mezzo della morte, va verso la terra della Pasqua. In questo sfondo, ritorna il verbo ‘ascoltare’ nella parola proclamata da Dio: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo» (Lc 9, 35), che in questo contesto significa ‘seguitelo’, fate della vita di Gesù la vostra via.
Ma i discepoli non comprendono. Hanno intravisto per un istante la gloria di Gesù, sentono il fulgore della presenza di Dio e suppongono che il loro viaggio sia ormai giunto alla meta. Per questo vorrebbero rendere eterno tale momento: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne» (Lc 9, 33). Certamente è cosa buona accamparsi vicino e con Gesù, ma essi dimenticano che la luce che hanno intravista si realizza su una via che porta al tradimento, all’umiliazione, alla crocifissione del Figlio di Dio, per questo è necessario che si destino dal torpore e si ritrovino soli con Gesù.
Stare con Gesù è bello, e sapere di appartenergli, di essere tutti suoi lo è ancora di più. Il cammino della croce non è affatto pesante con Lui accanto; il suo giogo, infatti, è dolce e il suo carico leggero (cf. Mt 11, 30). Oggi chiedo al Signore per me e per voi di risvegliare il nostro desiderio di seguirlo, di accompagnarlo sul Calvario, ai piedi della croce, come ha fatto la Vergine Maria. La sua obbedienza alla Parola di Dio, la sua abnegazione, il suo coraggio siano il nostro modello, perché possiamo ascoltare con gioia l’annuncio dell’angelo al mattino di Pasqua, di fronte alla pietra rotolata del sepolcro: «È risorto, non è qui». (Lc 28, 6).