«Con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo»[1]; con i suoi gesti e le sue parole, ne ha illuminato la dignità altissima ed inviolabile; in se stesso, morto e risorto, ha restaurato l’umanità decaduta, vincendo le tenebre del peccato e della morte; a quanti credono in lui ha dischiuso il rapporto con il Padre suo; con l’effusione dello Spirito Santo, ha consacrato la Chiesa, comunità dei credenti, quale suo vero corpo e le ha partecipato la propria potestà profetica, regale e sacerdotale, perché sia nel mondo come il prolungamento della sua stessa presenza e missione, annunciando agli uomini di ogni tempo la verità, guidandoli allo splendore della sua luce, permettendo che la loro vita ne venga realmente toccata e trasfigurata.
In questo tempo della storia umana così travagliato, al crescente progresso tecno-scientifico non sembra corrispondere un adeguato sviluppo etico e sociale, quanto piuttosto una vera e propria “involuzione” culturale e morale che, dimentica di Dio – se non addirittura ostile – diviene incapace di riconoscere e rispettare, in ogni ambito e a ogni livello, le coordinate essenziali dell’esistenza umana e, con esse, della vita stessa della Chiesa.
«Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore […], allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo»[2]. Anche nel campo delle comunicazioni private e mass-mediatiche crescono a dismisura le “possibilità tecniche”, ma non l’amore alla verità, l’impegno nella sua ricerca, il senso di responsabilità davanti a Dio e agli uomini; si delinea una preoccupante sproporzione tra mezzi ed etica. L’ipertrofia comunicativa pare volgersi contro la verità e, conseguentemente, contro Dio e contro l’uomo; contro Gesù Cristo, Dio fatto uomo, e la Chiesa, sua presenza storica e reale.
Si è diffusa negli ultimi decenni una certa “bramosia” d’informazioni, quasi prescindendo dalla loro reale attendibilità e opportunità, al punto che il “mondo della comunicazione” sembra volersi “sostituire” alla realtà, sia condizionandone la percezione, sia manipolandone la comprensione. Da questa tendenza, che può assumere i tratti inquietanti della morbosità, non è immune, purtroppo, la stessa compagine ecclesiale, che vive nel mondo e, talvolta, ne assume i criteri. Anche tra i credenti, di frequente, energie preziose sono impiegate nella ricerca di “notizie” – o di veri e propri “scandali” – adatti alla sensibilità di certa opinione pubblica, con finalità e obiettivi che non appartengono certamente alla natura teandrica della Chiesa. Tutto ciò a grave detrimento dell’annuncio del Vangelo a ogni creatura e delle esigenze della missione. Bisogna umilmente riconoscere che talvolta nemmeno le fila del clero, fino alle più alte gerarchie, sono esenti da questa tendenza.
Invocando di fatto, quale ultimo tribunale, il giudizio dell’opinione pubblica, troppo spesso sono rese note informazioni di ogni genere, attinenti anche alle sfere più private e riservate, che inevitabilmente toccano la vita ecclesiale, inducono – o quanto meno favoriscono – giudizi temerari, ledono illegittimamente e in modo irreparabile la buona fama altrui, nonché il diritto di ogni persona a difendere la propria intimità (cf. can. 220 CIC). Le parole di san Paolo ai Galati suonano, in tale scenario, particolarmente attuali: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne […]. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (Gal 5,13-15).
In tale contesto, sembra affermarsi un certo preoccupante “pregiudizio negativo” nei confronti della Chiesa Cattolica, la cui esistenza è culturalmente presentata e socialmente ri-compresa, da un lato, alla luce delle tensioni che possono verificarsi all’interno della stessa gerarchia e, dall’altro, partendo dai recenti scandali di abusi, orribilmente perpetrati da taluni membri del clero. Questo pregiudizio, dimentico della vera natura della Chiesa, della sua autentica storia e della reale, benefica incidenza che essa ha sempre avuto ed ha nella vita degli uomini, si traduce talvolta nell’ingiustificabile “pretesa” che la Chiesa stessa, in talune materie, giunga a conformare il proprio ordinamento giuridico agli ordinamenti civili degli Stati nei quali si trova a vivere, quale unica possibile “garanzia di correttezza e rettitudine”.
Di fronte a tutto questo, la Penitenzieria Apostolica ha ritenuto opportuno intervenire, con la presente Nota, per ribadire l’importanza e favorire una migliore comprensione di quei concetti, propri della comunicazione ecclesiale e sociale, che oggi sembrano diventati più estranei all’opinione pubblica e talvolta agli stessi ordinamenti giuridici civili: il sigillo sacramentale, la riservatezza connaturata al foro interno extra-sacramentale, il segreto professionale, i criteri e i limiti propri di ogni altra comunicazione.
1. Sigillo sacramentale
Recentemente, parlando del sacramento della Riconciliazione, il Santo Padre Francesco ha voluto ribadire l’indispensabilità e l’indisponibilità del sigillo sacramentale: «La Riconciliazione stessa è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo sacramentale. Esso, anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio sacramentale resterà nel segreto della confessione, tra la propria coscienza che si apre alla grazia di Dio, e la mediazione necessaria del sacerdote. Il sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla, su di esso»[3].
L’inviolabile segretezza della Confessione proviene direttamente dal diritto divino rivelato e affonda le radici nella natura stessa del sacramento, al punto da non ammettere eccezione alcuna nell’ambito ecclesiale, né, tantomeno, in quello civile. Nella celebrazione del sacramento della Riconciliazione è come racchiusa, infatti, l’essenza stessa del cristianesimo e della Chiesa: il Figlio di Dio si è fatto uomo per salvarci e ha deciso di coinvolgere, quale “strumento necessario” in quest’opera di salvezza, la Chiesa e, in essa, quelli che Egli ha scelto, chiamato e costituito quali suoi ministri.
Per esprimere questa verità, la Chiesa ha sempre insegnato che i sacerdoti, nella celebrazione dei sacramenti, agiscono “in persona Christi capitis”, ossia nella persona stessa di Cristo capo: «Cristo ci permette di usare il suo “io”, parliamo nell’“io” di Cristo, Cristo ci “tira in sé” e ci permette di unirci, ci unisce con il suo “io”. […] È questa unione con il suo “io” che si realizza nelle parole della consacrazione. Anche nell’“io ti assolvo” – perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai peccati – è l’“io” di Cristo, di Dio, che solo può assolvere»[4].
Ogni penitente che umilmente si rechi dal sacerdote per confessare i propri peccati, testimonia così il grande mistero dell’Incarnazione e l’essenza soprannaturale della Chiesa e del sacerdozio ministeriale, per mezzo del quale Cristo Risorto viene incontro agli uomini, tocca sacramentalmente – cioè realmente – la loro vita e li salva. Per tale ragione, la difesa del sigillo sacramentale da parte del confessore, se fosse necessario usque ad sanguinis effusionem, rappresenta non solo un atto di doverosa “lealtà” nei confronti del penitente, ma molto più: una necessaria testimonianza – un “martirio” – resa direttamente all’unicità e all’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa[5].
La materia del sigillo è attualmente esposta e regolata dai cann. 983-984 e 1388, § 1 del CIC e dal can. 1456 del CCEO, nonché dal n. 1467 del Catechismo della Chiesa Cattolica, laddove significativamente si legge non che la Chiesa “stabilisce”, in forza della propria autorità, quanto piuttosto che essa “dichiara” – ossia riconosce come un dato irriducibile, che deriva appunto dalla santità del sacramento istituito da Cristo – «che ogni sacerdote che ascolta le confessioni è obbligato, sotto pene molto severe, a mantenere un segreto assoluto riguardo ai peccati che i suoi penitenti gli hanno confessato».
Al confessore non è consentito, mai e per nessuna ragione, «tradire il penitente con parole o in qualunque altro modo» (can. 983, § 1 CIC), così come «è affatto proibito al confessore far uso delle conoscenze acquisite dalla confessione con aggravio del penitente, anche escluso qualunque pericolo di rivelazione» (can. 984, § 1 CIC). La dottrina ha contribuito, poi, a specificare ulteriormente il contenuto del sigillo sacramentale, che comprende «tutti i peccati sia del penitente che di altri conosciuti dalla confessione del penitente, sia mortali che veniali, sia occulti sia pubblici, in quanto manifestati in ordine all’assoluzione e quindi conosciuti dal confessore in forza della scienza sacramentale»[6]. Il sigillo sacramentale, perciò, riguarda tutto ciò che il penitente abbia accusato, anche nel caso in cui il confessore non dovesse concedere l’assoluzione: qualora la confessione fosse invalida o per qualche ragione l’assoluzione non venisse data, comunque il sigillo deve essere mantenuto.
Il sacerdote, infatti, viene a conoscenza dei peccati del penitente «non ut homo, sed ut Deus – non come uomo, ma come Dio»[7], a tal punto che egli semplicemente “non sa” ciò che gli è stato detto in sede di confessione, perché non l’ha ascoltato in quanto uomo ma, appunto, in nome di Dio. Il confessore potrebbe, perciò, anche “giurare”, senza alcun pregiudizio per la propria coscienza, di “non sapere” quel che sa soltanto in quanto ministro di Dio. Per la sua peculiare natura, il sigillo sacramentale arriva a vincolare il confessore anche “interiormente”, al punto che gli è proibito ricordare volontariamente la confessione ed egli è tenuto a sopprimere ogni involontario ricordo di essa. Al segreto derivante dal sigillo è tenuto anche chi, in qualunque modo, sia venuto a conoscenza dei peccati della confessione: «All’obbligo di osservare il segreto sono tenuti anche l’interprete, se c’è, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta notizia dei peccati della confessione» (can. 983, § 2 CIC).
Il divieto assoluto imposto dal sigillo sacramentale è tale da impedire al sacerdote di fare parola del contenuto della confessione con lo stesso penitente, fuori del sacramento, «salvo esplicito, e tanto meglio se non richiesto, consenso da parte del penitente»[8]. Il sigillo esula, perciò, anche dalla disponibilità del penitente, il quale, una volta celebrato il sacramento, non ha il potere di sollevare il confessore dall’obbligo della segretezza, perché questo dovere viene direttamente da Dio.
La difesa del sigillo sacramentale e la santità della confessione non potranno mai costituire una qualche forma di connivenza col male, al contrario rappresentano l’unico vero antidoto al male che minaccia l’uomo e il mondo intero; sono la reale possibilità di abbandonarsi all’amore di Dio, di lasciarsi convertire e trasformare da questo amore, imparando a corrispondervi concretamente nella propria vita. In presenza di peccati che integrano fattispecie di reato, non è mai consentito porre al penitente, come condizione per l’assoluzione, l’obbligo di costituirsi alla giustizia civile, in forza del principio naturale, recepito in ogni ordinamento, secondo il quale «nemo tenetur se detegere». Al contempo, però, appartiene alla “struttura” stessa del sacramento della Riconciliazione, quale condizione per la sua validità, il sincero pentimento, insieme al fermo proposito di emendarsi e di non reiterare il male commesso. Qualora si presenti un penitente che sia stato vittima del male altrui, sarà premura del confessore istruirlo riguardo ai suoi diritti, nonché circa i concreti strumenti giuridici cui ricorrere per denunciare il fatto in foro civile e/o ecclesiastico e invocarne la giustizia.
Ogni azione politica o iniziativa legislativa tesa a “forzare” l’inviolabilità del sigillo sacramentale costituirebbe un’inaccettabile offesa verso la libertas Ecclesiae, che non riceve la propria legittimazione dai singoli Stati, ma da Dio; costituirebbe altresì una violazione della libertà religiosa, giuridicamente fondante ogni altra libertà, compresa la libertà di coscienza dei singoli cittadini, sia penitenti sia confessori. Violare il sigillo equivarrebbe a violare il povero che è nel peccatore.
2. Foro interno extra-sacramentale e direzione spirituale
All’ambito giuridico-morale del foro interno appartiene anche il cosiddetto “foro interno extra-sacramentale”, sempre occulto, ma esterno al sacramento della Penitenza. Anche in esso la Chiesa esercita la propria missione e potestà salvifica: non rimettendo i peccati, bensì concedendo grazie, rompendo vincoli giuridici (come ad esempio le censure) e occupandosi di tutto ciò che riguarda la santificazione delle anime e, perciò, la sfera propria, intima e personale di ciascun fedele.
Al foro interno extra-sacramentale appartiene in modo particolare la direzione spirituale, nella quale il singolo fedele affida il proprio cammino di conversione e di santificazione a un determinato sacerdote, consacrato/a o laico/a.
Il sacerdote esercita tale ministero in virtù della missione che ha di rappresentare Cristo, conferitagli dal sacramento dell’Ordine e da esercitarsi nella comunione gerarchica della Chiesa, per mezzo dei cosiddetti tria munera: il compito di insegnare, di santificare e di governare. I laici in forza del sacerdozio battesimale e del dono dello Spirito Santo.
Nella direzione spirituale, il fedele apre liberamente il segreto della propria coscienza al direttore/accompagnatore spirituale, per essere orientato e sostenuto nell’ascolto e nel compimento della volontà di Dio.
Anche questo particolare ambito, perciò, domanda una certa qual segretezza ad extra, connaturata al contenuto dei colloqui spirituali e derivante dal diritto di ogni persona al rispetto della propria intimità (cf. can. 220 CIC). Per quanto in modo soltanto “analogo” a ciò che accade nel sacramento della confessione, il direttore spirituale viene messo a parte della coscienza del singolo fedele in forza del suo “speciale” rapporto con Cristo, che gli deriva dalla santità di vita e – se chierico – dallo stesso Ordine sacro ricevuto.
A testimonianza della speciale riservatezza riconosciuta alla direzione spirituale, si consideri la proibizione, sancita dal diritto, di chiedere non solo il parere del confessore, ma anche quello del direttore spirituale, in occasione dell’ammissione agli Ordini sacri o, viceversa, per la dimissione dal seminario dei candidati al sacerdozio (cf. can. 240, § 2 CIC; can. 339, § 2 CCEO). Allo stesso modo, l’istruzione Sanctorum Mater del 2007, relativa allo svolgimento delle inchieste diocesane o eparchiali nelle Cause dei Santi, vieta di ammettere a testimoniare non soltanto i confessori, a tutela del sigillo sacramentale, ma anche gli stessi direttori spirituali del Servo di Dio, anche per tutto ciò che abbiano appreso nel foro di coscienza, fuori della confessione sacramentale[9].
Tale necessaria riservatezza sarà tanto più “naturale” per il direttore spirituale, quanto più egli imparerà a riconoscere e a “commuoversi” davanti al mistero della libertà del fedele che, per mezzo suo, si rivolge a Cristo; il direttore spirituale dovrà concepire la propria missione e la propria stessa vita esclusivamente davanti a Dio, al servizio della sua gloria, per il bene della persona, della Chiesa e per la salvezza del mondo intero.
3. Segreti e altri limiti propri della comunicazione
Di altra natura rispetto all’ambito del foro interno, sacramentale ed extra-sacramentale, sono le confidenze fatte sotto il sigillo del segreto, nonché i cosiddetti “segreti professionali”, di cui sono in possesso particolari categorie di persone, tanto nella società civile quanto nella compagine ecclesiale, in virtù di uno speciale ufficio da queste svolto per i singoli o per la collettività.
Tali segreti, in forza del diritto naturale, vanno sempre serbati, «tranne – afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2491 – i casi eccezionali in cui la custodia del segreto dovesse causare a chi li confida, a chi ne viene messo a parte, o a terzi, danni molto gravi ed evitabili soltanto mediante la divulgazione della verità».
Un caso particolare di segreto è quello del “segreto pontificio”, che vincola in forza del giuramento connesso all’esercizio di determinati uffici al servizio della Sede Apostolica. Se il giuramento di segreto vincola sempre coram Deo chi lo ha emesso, il giuramento connesso al “segreto pontificio” ha quale ratio ultima il bene pubblico della Chiesa e la salus animarum. Esso presuppone che tale bene e le esigenze stesse della salus animarum, compreso perciò l’uso delle informazioni che non cadono sotto il sigillo, possano e debbano essere correttamente interpretate dalla sola Sede Apostolica, nella persona del Romano Pontefice, che Cristo Signore ha costituito e posto quale visibile principio e fondamento dell’unità della fede e della comunione di tutta la Chiesa[10].
Per quanto concerne gli altri ambiti della comunicazione, sia pubblici sia privati, in tutte le sue forme ed espressioni, la sapienza della Chiesa ha sempre indicato quale criterio fondamentale la “regola aurea” pronunciata dal Signore e riportata nel Vangelo di Luca: «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Lc 6,31). In tal modo, nella comunicazione della verità come nel silenzio riguardo ad essa, quando chi la domanda non avesse il diritto di conoscerla, occorre conformare sempre la propria vita al precetto dell’amore fraterno, avendo davanti agli occhi il bene e la sicurezza altrui, il rispetto della vita privata e il bene comune[11].
Quale particolare dovere di comunicazione della verità, dettato dalla carità fraterna, non si può non citare la “correzione fraterna”, nei suoi vari gradi, insegnata dal Signore. Essa rimane l’orizzonte di riferimento, ove necessaria e secondo quanto le concrete circostanze permettano ed esigano: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità» (Mt 18,15-17).
In un tempo di massificante comunicazione, nel quale ogni informazione viene “bruciata” e con essa spesso purtroppo anche parte della vita delle persone, è necessario re-imparare la forza della parola, il suo potere costruttivo, ma anche il suo potenziale distruttivo; dobbiamo vigilare perché il sigillo sacramentale non venga mai violato da alcuno e la necessaria riservatezza connessa all’esercizio del ministero ecclesiale sia sempre custodita gelosamente, avendo come unico orizzonte la verità e il bene integrale delle persone.
Invochiamo dallo Spirito Santo, per tutta la Chiesa, un ardente amore per la verità in ogni ambito e circostanza della vita; la capacità di custodirla integralmente nell’annuncio del Vangelo a ogni creatura, la disponibilità al martirio per difendere l’inviolabilità del sigillo sacramentale, nonché la prudenza e la sapienza necessarie a evitare ogni uso strumentale ed erroneo di quelle informazioni proprie della vita privata, sociale ed ecclesiale, che possono volgersi a offesa della dignità della persona e della Verità stessa, che è sempre Cristo, Signore e Capo della Chiesa.
Nella gelosa custodia del sigillo sacramentale e della necessaria discrezione legata al foro interno extra-sacramentale e agli altri atti di ministero rifulge una particolare sintesi tra dimensione petrina e mariana nella Chiesa.
Con Pietro, la sposa di Cristo custodisce, fino alla fine della storia, il ministero istituzionale del “potere delle chiavi”; come Maria Santissima, la Chiesa serba «tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51b), sapendo che in esse si riverbera quella luce che illumina ogni uomo e che, nel sacro spazio tra la coscienza personale e Dio, deve essere preservata, difesa e custodita.
Il Sommo Pontefice Francesco, in data 21 giugno 2019, ha approvato la presente Nota, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Dato in Roma, dalla sede della Penitenzieria Apostolica, il 29 giugno, anno del Signore 2019, nella solennità di Santi Pietro e Paolo, Apostoli
Mauro Card. Piacenza
Penitenziere Maggiore
Mons. Krzysztof Nykiel
Reggente
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[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 22.
[2] Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi (30 novembre 2007), n. 22.
[3] Francesco, Discorso ai partecipanti al XXX Corso sul Foro Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica (29 marzo 2019).
[4] Benedetto XVI, Colloquio con i sacerdoti (10 giugno 2010).
[5] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (6 agosto 2000).
[6] V. De Paolis – D. Cito, Le sanzioni nella Chiesa. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro VI, Città del Vaticano, Urbaniana University Press, 2000, p. 345.
[7] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Suppl., 11, 1, ad 2.
[8] Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica e ai padri penitenzieri delle basiliche romane (12 marzo 1994), n. 4.
[9] Cf. Congregazione delle Cause dei Santi, Sanctorum Mater. Istruzione per lo svolgimento delle inchieste diocesane o eparchiali nelle cause dei santi (17 maggio 2007), art. 101, § 2.
[10] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (21 novembre 1964), n. 18.
[11] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2489.