Le tecnologie digitali stanno trasformando il mondo: big data e una crescente potenza di calcolo hanno fatto sbocciare quella che chiamiamo “primavera dell’intelligenza artificiale”. Oggi le tecnologie “intelligenti” permeano la vita di ognuno di noi. Anche se la maggior parte delle persone non ne conosce il funzionamento, l’intelligenza artificiale (AI) è presente in innumerevoli settori, come l’industria, la sanità, l’istruzione, l’alimentazione, la sicurezza e una serie di altri ambiti che plasmano la nostra vita quotidiana. In breve, è ovunque e, grazie al suo crescente potere, ha assunto un ruolo che continuerà a crescere nei prossimi anni. Oggi appare sempre più chiaro come gli strumenti dell’intelligenza artificiale applicati alle comunicazioni stiano cambiando completamente lo scenario: ci suggeriscono cosa leggere, ci profilano creando per noi una sorta di panorama digitale personalizzato, creano fake news, cioè testi, immagini e anche video falsi indistinguibili da prodotti veri. Il potere nelle comunicazioni di massa delle AI è così forte e pervasivo da generare quello che potremmo chiamare un quinto potere. In ballo è la capacità di formare in maniera pervasiva e sistematica l’opinione pubblica. Questa battaglia finora conosceva un dominatore: Google. Oggi le cose potrebbero cambiare.
La maggior parte di noi utilizza quotidianamente Google e ne conosce i potenti servizi di posta elettronica e di ricerca su Internet. Ma le sue operazioni tecnologiche sono molto di più e comprendono una miriade di nuovi modi per raccogliere le nostre informazioni. Chiaramente questo potere non è neutrale. Se torniamo al 2008 è interessante rileggere quello che l’allora Ceo di Google, Erich Schmidt, decise sul supporto che l’azienda avrebbe dato ai candidati alle presidenziali americane. E scelse i democratici e Barack Obama.
Schmidt ha detto apertamente che Obama raggiunse il successo almeno in parte grazie a Internet: «Quando ha iniziato, non aveva abbastanza soldi per le pubblicità televisive a tappeto», ha detto, sottolineando che Obama ha quindi utilizzato Internet per raccogliere consensi e donazioni e probabilmente i servizi di profilazione di Google per sapere chi contattare. Da allora sappiamo che un sistema simile può essere determinante nei risultati elettorali.
Anche Trump si è servito con la sua macchina elettorale di Internet, e non senza polemiche. Più di uno spot pro-Trump ha utilizzato filmati propagandistici provenienti da Russia e Bielorussia in importanti campagne pubblicitarie. A questo poi sono seguite tutte le polemiche e le indagini sulle operazioni del mercato degli annunci Internet operate dall’estero. Anche per questo si può dire che Internet è politica. Internet, Google e oggi i sistemi di intelligenza artificiale sono strumenti di un enorme potere, non solo teorico ma anche in quella che si dimostra come una prassi nel vivere democratico del secondo decennio di questo secolo. Negli ultimi mesi la vicenda dell’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, la riammissione di Trump nel social e il dichiarato sostegno ai repubblicani non solo di Peter Thiel – il miliardario co-fondatore di PayPal – ma anche dello stesso Musk riporta al centro la questione della democrazia e della geopolitica di Internet. In tutto questo però “Big G” (Google) è ancora il dominatore indiscusso del “mercato” geopolitico di Internet.
Oggi però ChatGpt di OpenAI potrebbe cambiare le cose. Di cosa stiamo parlando? ChatGpt è un prototipo di chatbot basato su intelligenza artificiale e machine learning sviluppato da una realtà specializzata nella conversazione della macchina con utente umano: si tratta appunto di OpenAI, organizzazione non a scopo di lucro per la ricerca sull’intelligenza artificiale che punta a promuovere e sviluppare un’intelligenza artificiale amichevole in modo che l’umanità possa trarne beneficio. Nell’ottobre del 2015 Musk con Sam Altman annunciò la nascita dell’organizzazione donando oltre 1 miliardo di dollari all’impresa. Musk dunque è tra i fondatori e donatori di OpenAI, ma poi si è dimesso dal consiglio di amministrazione per «un potenziale futuro conflitto di interessi» con l’intelligenza artificiale di Tesla per le automobili a guida autonoma, lasciando Altman come Ceo. Secondo notizie trapelate nei giorni scorsi, Microsoft starebbe per investire 10 miliardi di dollari per acquisire il 49% di OpenAI.
Chat Gpt appartiene a una famiglia di intelligenze artificiali basate sul machine learning utilizzando una tecnica di deep learning nota come transformer, che consiste nell’utilizzare una rete neurale per analizzare e comprendere il significato di un testo. Nello specifico, ChatGpt fa parte della famiglia degli InstructGpt, modelli formati tramite deep learning ma poi ottimizzati tramite il rinforzo umano. Il sistema potrebbe rivelarsi come un disastro finanziario per Google in quanto fornisce risposte superiori alle domande che attualmente rivolgiamo al motore di ricerca più potente del mondo. Sebbene ChatGpt abbia ancora ampi margini di miglioramento, il suo rilascio ha portato la direzione di Google a dichiarare un “codice rosso”, più o meno come lanciare l’allarme antincendio. Alcuni ritengono che l’azienda si stia avvicinando al momento temuto dalle più grandi protagoniste della Silicon Valley: l’arrivo di un enorme cambiamento tecnologico che potrebbe sconvolgere la propria attività.
Sundar Pichai, amministratore delegato di Google, ha partecipato a una serie di riunioni per definire la strategia di AI di Google e ha modificato il lavoro di numerosi gruppi all’interno dell’azienda per rispondere alla minaccia rappresentata da ChatGpt, secondo quanto riportato in un memo e in una registrazione audio ottenuti dal New York Times. I dipendenti sono stati anche incaricati di costruire prodotti AI in grado di competere con quelli di OpenAI. Google funziona analizzando miliardi di pagine web, indicizzando i contenuti e classificandoli. Quindi, fornisce all’utente un elenco di link su cui fare clic. ChatGpt offre qualcosa di più allettante: un’unica risposta basata sulla propria ricerca e sulla sintesi di tali informazioni. Insomma, ChatGpt non risponde con una serie di link ma con una risposta stile vecchio Bignami, il libretto di riassunti per la scuola che si usava alle superiori, per salvarsi in vista di una interrogazione. Nei giorni scorsi ho fatto un esperimento: ho esaminato la mia cronologia di ricerca su Google nell’ultimo mese e ho inserito 18 delle mie ricerche su Google in ChatGpt, catalogando le risposte. Poi sono tornato indietro e ho visto cosa mi aveva detto Google. Devo riconoscere che la risposta di ChatGpt è stata più utile di quella di Google in 13 dei 18 casi. “Utile” è un termine assolutamente soggettivo. Cosa intendo con questo termine? In questo caso, risposte chiare ed esaurienti. A un certo punto ho chiesto se fosse meglio il latte condensato o in polvere per un dolce che volevamo fare per Natale con i miei confratelli in convento. ChatGpt mi ha dettagliatamente e prolissamente spiegato come il latte condensato avrebbe portato a una torta più dolce. Invece Google ha fornito soprattutto un elenco di link a ricette su cui avrei dovuto cliccare, senza una risposta chiara.
Questo fa capire la principale minaccia di ChatGpt nei confronti di Google: fornire una risposta unica e immediata che non richiede un’ulteriore scansione di altri siti web. Nel linguaggio della Silicon Valley, questa è un’esperienza “senza attrito”, una sorta di santo graal, perché i consumatori online preferiscono in larga misura servizi rapidi e facili da usare. Google dispone di una propria versione di risposte sintetiche ad alcune ricerche, ma si tratta di compilazioni della pagina web più votata, e in genere brevi. Ha anche un modello linguistico proprietario, chiamato LaMda, talmente valido che uno degli ingegneri dell’azienda ha pensato che il sistema fosse senziente. Anche se Google perfeziona i chatbot, deve affrontare un altro problema: questa tecnologia cannibalizzerebbe i redditizi annunci di ricerca dell’azienda. Se un chatbot risponde alle domande con frasi stringate, le persone hanno meno motivi per cliccare sui link pubblicitari. Circa l’81% dei 257,6 miliardi di dollari di entrate dell’azienda nel 2021 proveniva dalla pubblicità, in gran parte dagli annunci pay-per-click di Google, secondo i dati di Bloomberg. Questo è anche uno dei motivi del maggiore problema di questi ultimi anni: la collezione di link cliccabili si apre a pubblicità, utilizzi geopolitici delle notizie come nel caso della propaganda russa su vaccini e guerra, e alle tanto temute e terribili fake news.
ChatGpt non rivela le fonti delle sue informazioni – forse anche i suoi stessi creatori non sappiano come genera le risposte che ottiene –, e questa è anche una delle sue più grandi debolezze: a volte, le sue risposte sono semplicemente sbagliate. Non è chiaro quanto siano comuni gli errori di ChatGpt. Una stima che gira su Twitter parla di una percentuale compresa tra il 2% e il 5%. Potrebbe essere di più. Questo renderà gli utenti di Internet diffidenti nell’utilizzare ChatGpt per informazioni importanti. Tuttavia, ChatGpt piace: lanciato il 30 novembre 2022, ha raggiunto un milione di utenti in circa cinque giorni, un traguardo straordinario, mentre a Instagram sono serviti due mesi e mezzo per arrivare a questo numero e a Facebook dieci. Sorge così una questione geopolitica: dietro OpenAI ci sono numerosi finanziatori, e tra questi Musk che con Thiel – come lo è stato Schmidt per Obama – è il braccio IT dei repubblicani Usa. ChatGpt, come Google replacement, può rompere o danneggiare il predominio di Big G. Gli effetti e il potere di questo nuovo Bignami degli anni 20 di questo secolo può farne non solo uno strumento che rispecchia nei risultati il senso comune ma il vero nuovo produttore dell’opinione pubblica.
La sfida è lanciata. Troverà l’algoretica uno spazio in questa battaglia? Un tema del quale si è discusso in questi giorni in Vaticano per la firma della «Rome Call for AI Ethics», documento sottoscritto dalle tre religioni abramitiche, curato dalla Fondazione RenAIssance e promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Si tratta di vigilare e di operare affinché non attecchisca l’uso discriminatorio di questi strumenti a spese dei più fragili e degli esclusi», ha detto il Papa ai partecipanti all’incontro (tra loro Brad Smith, presidente di Microsoft, e Dario Gil, vicepresidente globale di Ibm), auspicando che «l’algoretica, ossia la riflessione etica sull’uso degli algoritmi, sia sempre più presente, oltre che nel dibattito pubblico, anche nello sviluppo delle soluzioni tecniche».