Lei è divenuto discepolo di Giussani, oggi è tra i responsabili di Cl e ha grande familiarità con le tematiche giovanili. Cosa è cambiato rispetto ai ragazzi che quel giovane sacerdote incontrò negli anni ‘50 al liceo Berchet di Milano?
In che modo il carisma del movimento è capace di affrontare le sfide della modernità?
Scommettiamo sulla certezza che nel cuore di ogni uomo abita un desiderio di felicità che cerca compimento. Giussani ci ha testimoniato che questa è la posizione di partenza per maturare un’intelligenza adeguata ad affrontare i problemi del mondo, ci ha fatto innamorare dell’avventura conoscitiva e scientifica e ci ha insegnato a lanciarci nel mondo con quella che chiamava “ingenua baldanza”. Le parlo del mondo dell’educazione, che conosco bene: c’è una moltiplicazione di pubblicazioni e convegni sull’emergenza educativa, che si concentrano sulle “questioni seconde” senza affrontare il cuore della questione educativa, che deve fare i conti anzitutto con l’incontro con un maestro che offra un’ipotesi di affronto della realtà con cui misurarsi.
La prima unità è quella che vive dentro la persona, un “io” unito è capace di collaborare all’unità della società e della realtà. Nel trentatreesimo canto del Paradiso, Dante dice che tutto gli appare “squadernato” – cioè diviso, incomprensibile – ma trovandosi al cospetto di Dio, fissato lo sguardo sul “bene sommo”, vede la realtà “legata con amore in un volume”, cioè ricapitolata in unità. E chi ha questo sguardo sulla realtà fa di tutto per contribuire all’unità degli uomini, per costruire amicizia e pace. L’unità è un dono che si riconosce e si dona al mondo, prima che l’esito di una strategia.
Non le chiedo di anticipare il giudizio della Chiesa, ma in che senso per lei Giussani è un santo?
Racconto un episodio che mi ha segnato. Nel 2003 in Sierra Leone avevo incontrato padre Berton, un missionario impegnato per il recupero dei bambini soldato, e andai da Giussani per parlarne. Mentre raccontavo della dedizione di Berton per quelle giovani vite mandate a morire, della loro sofferenza e del dolore provocato in me dall’avere visto quella situazione, lo vedevo immedesimarsi nelle cose che gli andavo dicendo come se la sua persona ci fosse fisicamente dentro, con una partecipazione totale e commossa. In quel momento ebbi la percezione che Gesù stava così davanti a quelli che incontrava. Il male, il limite umano non è l’ultima parola, c’è qualcosa di più grande del male: lo sguardo di Gesù sugli uomini, su ciascun uomo a partire da me. È in quella imitazione dello sguardo di Gesù che ho percepito la sua santità.