Il quinto evangelio è un libro talmente unico, se l’avverbio non è un pleonasmo, che verrebbe voglia di giocare all’apocrifo anche discorrendone. Per disperazione. La difficoltà di definirlo e di parlarne, perfino questo ha potuto nuocere al suo successo di pubblico. Riconosciuto immediatamente come un lavoro straordinario, premiato in Francia come miglior libro straniero dell’anno, l’alta qualità dei contenuti e dello stile (degli stili), e l’iper-letterarietà come si è detto giustamente, hanno dovuto ostacolare la larga diffusione. E i riconoscimenti e l’attenzione della critica italiana sono stati, malgrado la grande ammirazione, insufficienti.
Ogni scritto di finzione è un gioco, e Il quinto evangelio, per via del fingersi apocrifo, è la finzione nella finzione ma che tocca le verità più intime dell’essere umano e del credente. Cosa sia oltre questo non è facile dirlo e un’altra tentazione è dividere il discorso in tante note quante sono i capitoli, vale a dire gli apocrifi (dentro l’apocrifo) del libro. Rusconi alla prima uscita, del 1975, sottotitolò “Romanzo” forse per eccesso di scrupolo, ma si faceva per molto meno. Si fece per non correre alcun rischio in questo caso che il libro fosse inteso come vero saggio o trattato o raccolta di documenti. Insomma procediamo sempre a tentoni in un testo che ha preso all’autore cinque anni di ricerche e scrittura, cinque anni dell’introspezione più scavata fingendosi un altro, molti altri. Si può credere che Pomilio abbia travestito da “romanzo” il quaderno delle proprie certezze e dubbi religiosi, sceneggiato e drammatizzato? Oppure, correggendo un poco, che l’accidentato testo, foltissimo di personaggi, sia tutto sparso di autoritratti? Continuiamo senza ordine rischiando il cliché e una di quelle definizioni che non piacciono agli autori, perché nessuno vuol essere paragonato a un altro: essendo all’altezza dei grandi francesi che conosciamo, Bernanos, Mauriac, Green, Pomilio ha addolcito e sfumato indefinitamente – italianizzato in qualche modo – i temi sui quali anch’essi si sono interrogati, lasciando intatta la tensione morale. Gioco intellettuale e spirituale, ma il secondo include il primo.
Trattato spirituale per interposta persona. Riflessione continuamente rinascente, variata, ribadita sull’insufficienza della propria fede, in cerca di continue conferme. Il libro comincia con una lunga lettera. Vi si parla della ricerca su cui il mittente, Peter Bergin, spenderà tutta la vita: di un quinto evangelio appunto, del quale ha trovato in archivi e biblioteche di mezza Europa molte tracce. L’ufficiale statunitense Peter Bergin si trova a Colonia, la guerra è finita. Alloggiato in una canonica della città, tra i volumi del prete che la reggeva trova i primi strani semi dell’ipotesi. Li trova anzi tra le carte del sacerdote: esiste o è esistito un quinto evangelio, monaci e studiosi di varie epoche ne parlano, vi si riferiscono, ne citano versetti. E Bergin regolerà la sua esistenza intera sull’investigazione, otterrà borse di studio, poi un incarico universitario, appassionerà allievi alla stessa totalizzante indagine. Nella lettera si annunciano questi segni ritrovati, che formano il resto del libro. Avrà avuto un risposta, la sua lunga lettera, ci chiediamo leggendola? Se sì, sarà verso il finale. Vi si trova infatti una “risposta a una risposta”. Il destinatario scrive – a due mesi distanza – ma non trova più il mittente. Gli risponde così una tale Ann Lee dicendo che Peter Bergin è morto, con altro che per noi è presto per leggere. Troviamo aprendo a caso, però, nella sezione che la stessa Lee è andata componendo, “la mappa del cielo”, un frammento: «Ma ciò che facciamo in parole e opere / è l’evangelio che si sta scrivendo».
Come il destinatario su cui Bergin riponeva le sue ultime speranze, il segretario della Pontificia Commissione Biblica, ora leggeremo in ordine anche noi quei documenti, attentissimi dilettanti filologici. Già presi nella rete dell’esitante ossessione di Bergin fin dalle prime pagine, temevamo di doverla seguire, soggiogati ad essa noi stessi, fino alla fine del libro. Altri autori reali o d’invenzione si alterneranno a scriverlo, e ora la voce del tenace e titubante, deluso e speranzoso Bergin ci manca. La ritroveremo nelle brevi presentazioni premesse a ogni ogni documento. E molte altre lettere vi troviamo, di invio e di risposta. Il mittente il più delle volte riferisce con entusiasmo dell’evangelio intravisto e di cui ha raccolto qualche briciola, il destinatario a volte condivide l’entusiasmo, altre si sforza di sedarlo. Le tracce passano dalle epistole alle leggende medievali, al trattato e al testo di memoria, alla breve biografia… E il quinto evangelio diventa, anche, la ricerca del quinto evangelio. Tra i primi autori troviamo Cassiodoro. Ha per le mani il controverso testo. Ne conosce il contenuto e lo teme. Sembrerebbe un presunto vangelo di Giovanni giovane, più ampio e con altre notizie relative a Cristo, parole sue che non compaiono nei vangeli canonici. Sull’autenticità, sostiene che è possibile, ma è vecchio e non si sente le forze di studiare, meditare. Ha paura di riferire su contenuti che già nei quattro vangeli, dice, sono stati motivo di controversie e divisioni.
Il quinto evangelio dunque non esiste ed esiste e attrae per entrambe le circostanze. Alcuni dei documenti riportati-approntati da Pomilio ne riferiscono l’esistenza ma non ne hanno tracce, altri la negano. Altri ancora ne riportano versetti, alcuni dei quali seguono da vicino il contenuto degli altri vangeli. Nei “Mirabilia Angliae di autore ignoto (X-XI secolo)” se ne leggono alcuni dei più attraenti: «Signore, se altro non posso ti offro le mie colpe». «Fammi conoscere, Signore, di che amore debbo amarti». «Mi seguite fino al cenacolo, ma non fino alla croce». L’ipotesi accennata è suggestiva e non sarebbe, nel caso, che il germe o uno dei tasselli: Pomilio ha costruito il suo edificio basandolo sui pensieri, le meditazioni religiose delle sue giornate e dei suoi diari, quasi nascondendole nella serie dei testi. E ribattendole col suo naturale talento aforistico: «Di sé diceva che, nella sua asperità d’allora, era una natura senza paesaggio. E di Saci che era una di quelle finestre strette, ma poste assai un alto, dalle quali ci si affaccia su vaste latitudini».
Alcune ultime riflessioni. La finzione si ricorda magari a ogni nuova presentazione dei testi e si dimentica leggendoli. Il quinto evangelio è un pezzo di bravura lungo 400 pagine e discorso di estrema finezza spirituale variato in decine di forme e stili, ma anche qui il secondo aspetto fa sparire il primo. Infine: dove esiste, il quinto evangelio affascina, e dove no, lo stesso. Si manifesta in tanti modi anche nell’inesistenza. Per esempio qui dove, a commento dell’agire dei Viandanti in Cristo, Romualdo vescovo di Todi scrive: «questi Viandanti seguono in fondo il Vangelo di sempre, ma lo seguono così fedelmente, da farlo parere irriconoscibile».