L’amore per l’unità — quella interiore dell’uomo, ma anche quella sociale e comunitaria — è il compendio della spiritualità e della dottrina del vescovo di Ippona, come anche cuore dell’intera sua esperienza monastica. È questo infatti il tema di fondo degli otto capitoli del Praeceptum, cioè della Regola di Agostino: «La prima cosa per la quale siete stati riuniti è che viviate unanimi nella casa e che abbiate un sol cuore e un’anima sola protesi verso Dio» (Praec. 1,2). Per lui il monastero non è tanto palestra di perfezione cristiana, quanto esperienza di comunione ecclesiale inserita nel più grande disegno divino di ricondurre all’unità in Cristo i figli dispersi di Dio e tutto il genere umano. Tra i molti testi dell’Ipponate che illustrano tale dottrina è molto significativo un passaggio del De civitate Dei: «Dio non ignorava che l’uomo avrebbe peccato e che soggetto alla morte avrebbe propagato individui destinati a morire e che i mortali con i loro gravi peccati sarebbero giunti al punto che le bestie, prive di volontà razionale, sarebbero vissute fra loro con una sicurezza e una pace maggiore degli uomini […]. Mai, infatti, i leoni e i rettili hanno fatto guerra tra loro come le hanno fatte gli uomini. Ma Dio prevedeva anche di chiamare in adozione con la sua grazia un popolo di fedeli e, giustificatolo nello Spirito Santo con la remissione dei peccati, di farlo partecipe della società degli angeli santi nella pace eterna, dopo aver eliminato l’ultima nemica, la morte. A questo popolo avrebbe giovato la considerazione del fatto che Dio ha dato origine al genere umano da un solo individuo per far comprendere agli uomini quanto gli sia gradita l’unità dei molti (in pluribus unitas)» (12,22).
Il cammino dell’unità è un cammino di purificazione dell’amore e Agostino, quando celebra le virtù della madre Monica, non ne nasconde i limiti e richiama, con gratitudine a Dio, proprio il cammino di sua madre che nel tempo ha imparato a superare i tratti più intransigenti e possessivi del suo carattere. Come ogni genitore, anche Monica aveva avuto le sue aspirazioni, accarezzando a lungo l’idea di una brillante carriera per il suo Agostino, di vederlo sposato, di avere la gioia di un nugolo di nipoti, ma soprattutto di vederlo cristiano cattolico prima di morire. Nell’ultima sua malattia, rivolgendosi ad Agostino, Monica suggella il suo cammino di purificazione: «Il mio Dio — afferma — mi ha concesso più di quanto mai potessi sperare: di vederti addirittura disprezzare la felicità terrena per metterti al suo servizio» (Conf. 9,10,26). Non c’era davvero più motivo di indugiare ancora in questa vita: purificati i desideri, era stata esaudita oltre ogni immaginabile aspirazione. Monica, per altro, che si era sempre preoccupata e affannata per la sua sepoltura, preparata da tempo accanto al corpo del marito, ora raccomanda ai figli soltanto di seppellire: «questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore» (Conf. 9,11,27). Morì nel 387 ad Ostia Tiberina. Il suo corpo fu sepolto nella necropoli ostiense della basilica di S. Aurea e nel 1430 il pontefice Martino v (1417-1431), sollecitato dagli Agostiniani e dall’umanista lodigiano Maffeo Vegio (1407-1458), stabilì di trasferirne le reliquie nella basilica di S. Agostino in Campo Marzio.
Per Agostino la madre è stata la prima immagine della Chiesa, bisognosa di purificazione, fiduciosa nella preghiera e maturata alla luce della grazia; i suoi meriti sono lo splendido coronamento dei doni di Dio. Il modello scritturistico dell’una e dell’altra — della madre Monica e della madre Chiesa — per l’Ipponate è la vedova di Naim e le sue lacrime. «[Mia madre Monica] — scrive ancora nelle Confessioni — mi considerava come un morto, ma un morto da risuscitare con le sue lacrime versate innanzi a te e che ti presentava sopra il feretro del suo pensiero affinché tu dicessi a questo figlio della vedova: “Giovane, dico a te, alzati”, ed egli ritornasse a vivere e cominciasse a parlare e tu lo restituissi a sua madre» (6,1,1). E in riferimento alla madre Chiesa scrive: «Cosa poteva giovare al figlio della vedova la propria fede che, essendo morto, certamente neanche aveva? Ma per risuscitare gli giovò la fede della madre» (De lib. arb. 3,23,67).
Se per comprendere qualsiasi autore è necessario conoscere la storia della sua vita e del suo tempo, questo vale in particolare per Agostino la cui riflessione risente in una misura molto ampia delle esperienze vissute, a partire proprio dall’educazione cristiana ricevuta nell’infanzia da Monica. Accanto alla fede appresa dalle labbra materne, semplice eppure profondamente radicata in lui, un altro pilastro della formazione di Agostino fu l’educazione scolastica, essenzialmente letteraria, fondata sulla grammatica e sulla retorica, comune patrimonio di tutti gli scrittori antichi, pagani e cristiani. Uno dei meriti di questo sistema educativo consisteva nel proporre, al temine del curriculum degli studi, la lettura di un’opera filosofica: Agostino lesse l’Hortensius di Cicerone che lo infiammò di amore per la ricerca della verità, ma: «una sola circostanza mi mortificava entro un incendio così grande — scrive nelle Confessioni — cioè l’assenza in quelle pagine del nome di Cristo. Quel nome per tua misericordia, Signore, quel nome del mio salvatore, del Figlio tuo, nel latte stesso di mia madre, quando era ancora tenero il mio cuore, avevo devotamente succhiato e conservavo nel profondo. Così qualsiasi opera ne mancasse fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi totalmente» (Conf. 3,4,8 e 9).
Come è noto, l’amore del nome di Cristo spinse Agostino a ricercare la sapienza nella lettura delle sacre Scritture. Ne rimase profondamente deluso e non solo per i pessimi risultati degli antichi traduttori latini, anteriori a Girolamo, ma soprattutto per l’appello alla fede del lettore. Troppo esigente per il giovane intellettuale che intendeva perseguire una ricerca puramente razionale, senza i vincoli di autorità alcuna. Della reazione di rigetto — delle Scritture e della connessa autorità della Chiesa — approfittò la setta manichea che prima illuse Agostino con la promessa di rispondere razionalmente a ogni sua domanda e poi non tardò a deluderlo ripetutamente, inducendolo allo scetticismo e alla dolorosa disillusione. I manichei avevano però molte aderenze tra le persone che contano, così se non riuscirono a rispondere alle domande del cuore inquieto, lo favorirono in una certa misura nella carriera professionale e nel suo trasferimento a Roma e poi a Milano. La dottrina manichea, alla quale Agostino non aderì mai del tutto e che da convertito avversò fieramente, fu comunque l’occasione per approfondire il tema dell’origine del male e del libero arbitrio. La cocente delusione non dileguò l’avversione del retore verso la Chiesa e solo quando a Milano, intorno al 384, iniziò ad ascoltare con interesse la predicazione di Ambrogio cominciò anche a mutare i suoi sentimenti verso la fede dell’infanzia: «L’esposizione di numerosi passi della Scrittura secondo il senso spirituale mi mosse ben presto a biasimare almeno la mia sfiducia». Era iniziato il cammino di riavvicinamento. Agostino iniziò a pensare che «credere è ragionevole e che la Chiesa merita fiducia» e pertanto decise di restare catecumeno nella Chiesa cattolica «raccomandatami dai miei genitori, in attesa che si accendesse una luce di certezza, su cui dirigere la mia rotta» (Conf. 5,14,24-25). Nel corso dell’anno 385 e fino a tutta l’estate del 386, con l’aiuto di Ambrogio, del prete milanese Simpliciano e di altri amici, Agostino intraprese una serie di letture cristiane, adatte alla formazione e alla preparazione al battesimo. Solo più tardi, l’incontro con alcuni testi filosofici neoplatonici lo aiuterà anche a superare la concezione materialistica dei manichei e altri errori. Con l’aiuto di Simpliciano comprese i punti di contatto esistenti tra il platonismo e il cristianesimo, ma anche quelli in contrasto con la fede della Chiesa che, fin dai Dialoghi di Cassiciaco, Agostino si impegna a confutare. Il resto della vicenda biografica del convertito è ben noto: accompagnato dall’affetto e dalla preghiera della madre, che nel frattempo lo aveva raggiunto a Milano, degli amici e della comunità cristiana ambrosiana, Agostino ricevette il battesimo dalle mani del santo vescovo di Milano nella veglia pasquale del 387. In seguito, rifiutata ogni aspettativa in campo professionale e ogni ricerca di agi e onori terreni, si consacrò alla ricerca di Dio e si mise subito in viaggio per ritornare in patria. In Africa, dopo l’esperienza del cenacolo culturale di Tagaste, lo aspettava l’inattesa ordinazione presbiterale e poi la consacrazione episcopale. Come vescovo della città portuale di Ippona (oggi Annaba in Algeria) divenne il protagonista della vita ecclesiale africana e, con l’estinzione dello scisma donatista, contribuì a restituire alla Chiesa la pace e l’unità (Concilio di Cartagine del 411).
Capeggiò di nuovo l’episcopato, e non solo africano, quando Pelagio scatenò la controversia che da lui ha preso il nome. Nelle Confessioni ci racconta come, già prima del sorgere della controversia, Pelagio aveva manifestato tutta la sua avversione per un’espressione orante che Agostino ripete più e più volte e che esprime la fede della Chiesa nella grazia di Dio: «Concedici [o Signore] quello che comandi, e comanda quello che vuoi» — Da quod iubes et iube quod vis. Per Pelagio non si può attribuire a Dio ciò che è solo dell’uomo; Agostino, al contrario, afferma che si deve attribuire alla grazia di Dio ciò che l’uomo compie, cooperando con Dio, per la sua salvezza. Faticosamente combattuta, anche questa battaglia fu vinta da Agostino quando arrivò da parte della Sede Apostolica la definitiva ratifica delle reiterate condanne della dottrina pelagiana (418) e infine sancite anche dal Concilio di Efeso (430). Le controversie proseguirono a lungo, particolarmente quella tra Agostino e il vescovo campano Giuliano di Eclano, nuova guida del movimento pelagiano. Agostino, durante tutta la controversia, difese sempre «la grazia non tanto contro la natura, ma per mostrare che essa [la grazia] libera e guida la natura» (Retract. 2,42). Richiamò l’attenzione all’insegnamento alla Scrittura e alla sua interpretazione ecclesiale, alla tradizione e alla prassi liturgica della comunità cristiana e cercò costantemente di riguadagnare i dissidenti alla comunione.
Dei seguaci di Pelagio così scrive in un testo luminoso per l’umiltà e il desiderio di comunione, per la profondità e l’attualità. Si tratta della Lettera 140 a Onorato (31 passim): «[I pelagiani] non sono persone che si possano facilmente tenere in poco conto, vivono anzi nella continenza e meritano lode per le opere buone. E nemmeno credono, come i Manichei e moltissimi altri eretici, a un falso Cristo, ma al Cristo vero, uguale e coeterno al Padre, che è venuto sulla terra e si è fatto veramente uomo, e del quale aspettano pure il ritorno, ma ignorano la giustizia di Dio e vogliono stabilire la propria (Rm 10, 3) — punto focale della questione detto con parole di Paolo —. Non senza ragione il Signore chiamò vergini (poiché vivevano in continenza) tanto quelle che entrarono con lui al convito nuziale, quanto quelle contro cui chiuse le porte, rispondendo loro: “Non vi conosco”. Ne enumerò cinque per gruppo, perché avevano domato le passioni della carne che si servono dei cinque sensi; sono tutte fornite di lampade a causa della splendidissima lode acquistata con le opere buone e con la loro buona condotta agli occhi degli uomini: le une e le altre vanno incontro allo sposo, poiché aspettano e sperano nell’arrivo di Cristo. Tuttavia, chiamò sagge le une, stolte le altre, poiché le sagge portavano l’olio nei recipienti, mentre le stolte non lo portavano con sé. Sotto tanti riguardi erano uguali, ma solo in questo diverse. Quale legame più stretto di rassomiglianza può esserci tra vergini e vergini, cinque da una parte e cinque dall’altra, tutte fornite di lampade, le une e le altre incontaminate e incamminate egualmente incontro allo sposo? E che c’è di più opposto quanto le sagge e le stolte? E ciò si capisce facilmente, poiché le prime portano l’olio nei recipienti, cioè la conoscenza della grazia di Dio nei loro cuori, in quanto sanno che nessuno può essere continente, se Dio non glielo concede, e reputano ch’è effetto di sapienza conoscere da chi provenga tale dono; le altre al contrario, senza ringraziare Colui che largisce tali beni, si perdettero in vani pensieri, il loro cuore insensato si ottenebrò e, mentre dicevano di essere sagge, diventarono stolte. Certo non dobbiamo disperare in alcun modo neppure di queste, prima che ci addormentiamo nella morte: ma se si addormenteranno in quella disposizione di spirito, anche se si sveglieranno, cioè risorgeranno quando risonerà il grido che annunzierà vicino l’arrivo dello sposo, rimarranno fuori, non perché non siano vergini ma perché, ignorando da chi hanno ricevuto la virtù che posseggono, sono vergini stolte. Giustamente resteranno fuori, dato che non portarono nel loro intimo il sentimento di gratitudine per la grazia […]. Lo scopo della grazia della Nuova Alleanza, per cui teniamo i nostri cuori rivolti in alto — poiché ogni cosa ottima a noi concessa e ogni dono perfetto ci vengono dall’alto — è quello d’impedirci d’essere ingrati; come anche nel ringraziare Dio, ciascuno non fa altro che riporre ogni motivo di vanto in Dio. Eccoti dunque un trattato, anche se prolisso, non però inutile, a mio giudizio. […]. Se durante la lettura e la meditazione preghi anche con cuore puro il Signore, dispensatore d’ogni bene, apprenderai alla perfezione tutto o almeno moltissimo di ciò che merita d’essere conosciuto più in virtù dell’ispirazione di Dio che della spiegazione di qualcuno».
Il luminoso pensiero di Agostino, anche in questi snodi fondamentali della sua dottrina, è senz’altro debitore delle umili preghiere e delle calde lacrime e della madre Monica e della fede della madre Chiesa che lo hanno condotto al fonte del rinnovamento e della grazia. Mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai Vandali, Agostino era giunto all’ultima sua malattia. Chiese di trascrivere a grandi caratteri i Salmi penitenziali «e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime» (Possidio, Vita Augustini 31,2). Nella preghiera trascorsero anche gli ultimi giorni della vita del grande padre e dottore della Chiesa; morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni, e il suo corpo fu inumato a Ippona. In seguito, il corpo fu traslato in Sardegna e, infine, acquistato a peso d’oro dal re longobardo Liutprando, a Pavia nella basilica di S. Pietro in Cieldoro, dove tuttora è venerato.
Uomo incomparabile, uno dei “maestri migliori della Chiesa” (san Celestino i), di cui un po’ tutti ci sentiamo figli e discepoli, Agostino “ha da dire veramente molto alla Chiesa e agli uomini d’oggi, sia con l’esempio e con l’insegnamento” (san Giovanni Paolo II). Il Papa Francesco, visitando la basilica di S. Agostino in Campo Marzio, il 28 agosto del 2013, ha invitato a seguire l’esempio del cuore inquieto di sant’Agostino e a invocare dal Signore, “nella scuola del cuore”, come dono “l’inquietudine spirituale di ricercarlo sempre, l’inquietudine di annunciarlo con coraggio, l’inquietudine dell’amore verso ogni fratello e sorella”.
di Rocco Ronzani
Istituto patristico «Augustinianum»