Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, queste sono tra le ultime parole che Gesú rivolge ai suoi discepoli, prima di congedarsi da loro. Esse non sono il solito “Fatevi coraggio!” rivolto a chi resta, da parte di uno che sta per partire. Aggiunge infatti: “Non vi lascerò orfani: verrò da voi (Gv 14,18).
Che significa “verrò da voi” se sta per lasciarli? In che modo e in che veste verrà e rimarrà con loro? Se non si capisce la risposta a questa domanda, non si capirà mai la vera natura della Chiesa. La risposta è presente, come una specie di tema ricorrente, nei discorsi di addio del Vangelo di Giovanni ed è bene una volta ascoltare di seguito i versetti in cui essa diventa la nota dominante. Facciamolo con l’attenzione e la commozione con cui i figli ascoltano le disposizioni del padre circa il bene più prezioso che sta per lasciare ad essi:
Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi (14,16-17).
Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. (14,26)
Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio (15,26-27).
È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi (16, 7).
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. (16,12-14)
Ma che cos’è e chi è lo Spirito Santo che promette? È lui stesso, Gesú, o un altro? Se è lui stesso, perché dice in terza persona: “quando verrà il Paraclito…”; se è un altro, perché dice in prima persona: “Verrò a voi”? Tocchiamo il mistero del rapporto tra il Risorto e il suo Spirito. Rapporto così stretto e misterioso che san Paolo sembra talvolta identificarli. Scrive infatti: “Il Signore è lo Spirito”, ma poi aggiunge senza soluzione di continuità: “e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2 Cor 3,17). Se è lo Spirito del Signore, non può essere, puramente e semplicemente, il Signore.
La risposta della Scrittura è che lo Spirito Santo, con la redenzione, è diventato “lo Spirito di Cristo”; è il modo con cui il Risorto opera ormai nella Chiesa e nel mondo, essendo stato “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione, in virtù della risurrezione dai morti” (Rom 1,4). Ecco perché egli può dire ai discepoli: “È bene che io me ne vada” e aggiungere: “ma non vi lascerò orfani”.
Dobbiamo liberarci completamente da una visione della Chiesa formatasi a poco a poco e divenuta dominante nella coscienza di molti credenti. Io la definisco una visione deistica o cartesiana, per l’affinità che essa ha con la visione del mondo del deismo cartesiano. Come veniva concepito il rapporto tra Dio e il mondo in questa visione? Più o meno così: Dio all’inizio crea il mondo e poi si ritira, lasciando che si sviluppi con le leggi che gli ha dato; come un orologio a cui è stata data una carica sufficiente per funzionare indefinitamente per conto suo. Ogni nuovo intervento da parte di Dio turberebbe questo ordine, ragione per cui i miracoli sono ritenuti inammissibili. Dio, creando il mondo, farebbe come chi dà un buffetto a un palloncino e lo spinge in aria, rimanendo, lui, a terra.
Cosa significa questa visione applicata alla Chiesa? Che Cristo ha fondato la Chiesa, l’ha dotata di tutte le strutture gerarchiche e sacramentali per funzionare, e poi l’ha lasciata, ritirandosi nel suo cielo, al momento dell’Ascensione. Come chi spinge in mare una barchetta, rimanendo lui sulla riva.
Ma non è così! Gesú è salito sulla barca ed è dentro di essa. Bisogna prendere sul serio le sue ultime parole in Matteo: “Ecco, io sono con voi tutti i gironi, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Ad ogni nuova tempesta, comprese quelle odierne, egli ci ripete ciò che disse agli apostoli nell’episodio della tempesta sedata: “Perché avete paura, gente di poca fede?” (Mt 8,26). Non ci sono io con voi? Posso affondare io? Può affondare in mare colui che ha creato il mare?
Ho notato con gioia che nell’Annuario Pontificio, sotto il nome del papa, c’è il solo titolo “Vescovo di Roma”; tutti gli altri titoli –Vicario di Gesú Cristo, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Primate d’Italia ecc. – sono elencati come “titoli storici” alla pagina seguente. Mi sembra giusto, soprattutto riguardo a “Vicario di Gesú Cristo”. Vicario è uno che fa le veci in assenza del capo, ma Gesù Cristo non si mai assentato e mai si assenterà dalla sua Chiesa. Con la sua morte e risurrezione, egli è divenuto “capo del corpo che è la Chiesa” (Col 1,18) e tale continuerà ad essere fino alla fine del mondo: il vero e unico Signore della Chiesa.
Non è, la sua, una presenza per così dire morale e intenzionale, non è una signoria per procura. Quando non possiamo presenziare di persona a qualche evento, noi diciamo di solito: “Sarò presente spiritualmente!”, ciò che non è di molta consolazione e aiuto a chi ci ha invitato. Quando diciamo di Gesú che è presente “spiritualmente”, questa presenza spirituale non è una forma meno forte di quella fisica, ma infinitamente più reale ed efficace. È la presenza di lui risorto che agisce nella potenza dello Spirito, agisce in ogni tempo e luogo, e agisce dentro di noi.
Se nell’attuale situazione di crescente crisi energetica, si scoprisse l’esistenza di una sorgente di energia nuova, inesauribile; se si scoprisse finalmente come utilizzare a piacimento e senza effetti negativi l’energia solare, che sollievo sarebbe per l’umanità intera! Ebbene la Chiesa ha, nel suo campo, una simile sorgente inesauribile di energia: la “potenza dall’alto” che è lo Spirito Santo. Gesú potrebbe dire di lui: “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena (Gv 16, 24).
C’è un momento nella storia della salvezza che richiama da vicino le parole di Gesù nell’ultima cena. Si tratta dell’oracolo del profeta Aggeo. Dice:
Il ventuno del settimo mese, per mezzo del profeta Aggeo fu rivolta questa parola del Signore: «Su, parla a Zorobabele, figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, a Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote, e a tutto il resto del popolo, e chiedi: Chi rimane ancora tra voi che abbia visto questa casa nel suo primitivo splendore? Ma ora in quali condizioni voi la vedete? In confronto a quella, non è forse ridotta a un nulla ai vostri occhi? Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore -, coraggio, Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché io sono con voi – oracolo del Signore degli eserciti…Il mio spirito sarà con voi, non temete (Ag 2, 1-5).
È uno dei pochissimi testi dell’Antico Testamento che si può datare con precisione: è il 17 Ottobre del 520 a.C. Non ci sembra che venga descritta, nelle parole di Aggeo, la situazione attuale della Chiesa cattolica, e per tanti aspetti quella di tutta la cristianità? Chi di noi è abbastanza anziano ricorda con nostalgia i tempi, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in cui le chiese si riempivano di domenica, matrimoni e battesimi si susseguivano in parrocchia, i seminari e i noviziati religiosi abbondavano di vocazioni… “Ma ora in che condizioni la vediamo?”, potremmo dire con Aggeo? Non vale la pena spendere tempo per ripetere l’elenco dei mali presenti, di quelle che ad alcuni appaiono solo rovine, non diverse dai ruderi dell’antica Roma che abbiamo tutto intorno in questa città.
Non tutto era oro quello che luccicava un tempo e che siamo portati a rimpiangere. Se fosse stato tutto oro colato, se quei seminari pieni fossero stati fucine di santi pastori e la formazione tradizionale impartita in essi solida e vera, non avremmo oggi da piangere tanti scandali…Ma non è di questo che è il caso di parlare qui, e certamente non sono io il più qualificato a farlo. Quello che mi preme raccogliere è l’esortazione che il profeta rivolse quel giorno al popolo d’Israele. Egli non li esortò a piangersi addosso, a rassegnarsi ed essere preparati al peggio. No; dice come Gesù: “Coraggio e al lavoro perché io sono con voi – oracolo del Signore -; il mio Spirito sarà con voi!”.
Ma attenti: non si tratta di un vago e sterile “Fatevi coraggio”. Il profeta ha detto in precedenza qual è “il lavoro” a cui devono mettere mano. E siccome esso ci riguarda da vicino, ascoltiamo anche l’oracolo precedente di Aggeo al popolo e ai suoi capi:
Così parla il Signore degli eserciti: Questo popolo dice: “Non è ancora venuto il tempo di ricostruire la casa del Signore!”. Allora fu rivolta per mezzo del profeta Aggeo questa parola del Signore: “Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina? Ora, così dice il Signore degli eserciti: Riflettete bene sul vostro comportamento! Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete vestiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato. … Salite sul monte, portate legname, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria – dice il Signore. (Ag 1, 2-8).
La parola di Dio, una volta pronunciata, torna ad essere attiva e attuale ogni volta che viene di nuovo proclamata. Non è una semplice citazione biblica. Siamo noi adesso “questo popolo” a cui è rivolta la parola di Dio. Che cosa sono per noi oggi “le case ben coperte” (qualche traduzione dice: “ben arredate”) in cui siamo tentati di starcene tranquilli? Io vedo tre case concentriche, una dentro l’altra, da cui dobbiamo uscire per salire sul monte e ricostruire la casa di Dio.
La prima casa ben coperta, curata e arredata, è il mio “io”: la mia comodità, la mia gloria, la mia posizione nella società o nella Chiesa. È il muro più difficile da abbattere, il meglio dissimulato. È così facile scambiare il mio onore per l’onore di Dio e della Chiesa, l’attaccamento alle mie idee per attaccamento alla verità pura e semplice. Chi parla, in questo momento non crede di fare eccezione. Stiamo dentro questo nostro guscio come il baco da seta nel suo bossolo: intorno è tutta seta, ma se il baco non rompe il guscio, resterà bruco e non diventerà mai farfalla che vola.
Ma lasciamo da parte questo argomento, avendo tante occasioni per sentirne parlare. La seconda casa ben coperta da cui uscire per lavorare alla “casa del Signore”, è la mia parrocchia, il mio ordine religioso, movimento o associazione ecclesiale, la mia Chiesa locale, la mia diocesi…Non dobbiamo fraintenderci. Guai se non avessimo amore e attaccamento a queste realtà particolari nelle quali il Signore ci ha posto e di cui siamo forse responsabili. Il male è assolutizzarli, non vedere altro al di fuori di essa, non interessarsi che di essa, criticando e disprezzando chi non la condivide. Perdere di vista, insomma, la cattolicità della Chiesa. Dimenticare, dice spesso il Santo Padre, che “l’intero è maggiore della parte”. Siamo un corpo solo, il corpo di Cristo, e nel corpo, dice Paolo, “se un membro soffre tutto il corpo soffre” (1 Cor 12, 26). Il sinodo dovrebbe servire anche a questo: a renderci consapevoli e partecipi dei problemi e delle gioie di tutta la Chiesa cattolica.
Ma veniamo alla terza casa ben coperta. Uscire da essa è reso più difficile dal fatto che per secoli ci è stato inculcato che uscire da essa sarebbe stato peccato e tradimento. Leggevo di recente, in occasione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la testimonianza di una donna cattolica di un paese a religione mista. Da giovane il parroco insegnava che solo ad entrare fisicamente in una chiesa protestante si faceva peccato mortale. E suppongo che lo stesso si diceva, dall’altra parte dello steccato, dell’entrare in una Chiesa cattolica.
Parlo, naturalmente della terza casa ben coperta che è la particolare denominazione cristiana a cui apparteniamo e lo faccio nel ricordo ancora fresco dello straordinario e profetico evento dell’incontro ecumenico del Sud Sudan del febbraio scorso. Tutti siamo convinti che parte della debolezza della nostra evangelizzazione e azione nel mondo è dovuta alla divisione e alla lotta reciproca tra cristiani. Si verifica quello che Dio dice sempre nel nostro Aggeo:
Facevate assegnamento sul molto e venne il poco: ciò che portavate in casa io lo disperdevo. E perché? – oracolo del Signore degli eserciti. Perché la mia casa è in rovina, mentre ognuno di voi si dà premura per la propria casa. (Ag 1, 9).
Gesú disse a Pietro: “Su questa Pietra edificherò la mia Chiesa”. Non disse: “Edificherò le mie Chiese”. Ci deve essere un senso in cui quello che Gesú chiama “la mia Chiesa” abbraccia tutti i credenti in lui e tutti i battezzati. L’apostolo Paolo ha una formula che potrebbe assolvere questo compito di abbracciare tutti quelli che credono in Cristo. Nell’inizio della Prima Lettera ai Corinzi egli estende il suo saluto a: “Tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1 Cor 1, 2).
Non possiamo accontentarci, certo, di questa unità così vasta, ma così vaga. E questo giustifica l’impegno e il confronto, anche dottrinale, tra le Chiese. Ma neppure possiamo disprezzare e non tener conto di questa unità di base che consiste nell’invocare lo stesso Signore Gesù Cristo. Chi crede nel Figlio di Dio crede anche nel Padre e nello Spirito Santo. È verissimo ciò che è stato ripetuto in più occasioni : “ciò che ci unisce è più importante di quello che ci divide”.
Nei casi in cui non possiamo non disapprovare l’uso che viene fatto del nome di Gesù e il modo in cui è annunciato il Vangelo, ci può aiutare a superare il rifiuto quello che san Paolo diceva di alcuni che a suo tempo annunciavano il Vangelo “con spirito di rivalità e con intenzioni non rette”. “Ma questo che importa?” – scriveva ai Filippesi- “Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro” (Fil 1, 16-18). Senza dimenticare che anche i cristiani di altre denominazioni trovano in noi cattolici delle cose che non possono approvare.
L’oracolo di Aggeo sul tempio ricostruito termina con una promessa radiosa: “La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti; in questo luogo porrò la pace. Oracolo del Signore degli eserciti (Ag 2,9). Non osiamo dire che tale profezia si avvererà anche per noi e che la casa di Dio che è la Chiesa del futuro sarà più gloriosa di quella del passato che ora rimpiangiamo; possiamo però sperarlo e chiederlo a Dio in spirito di umiltà e pentimento.
Non mancano segni incoraggianti: uno tra i più evidenti è proprio la ricerca dell’unità tra i cristiani. Nell’intervista a un giornalista cattolico, nel viaggio di ritorno dal Sud Sudan, l’Arcivescovo Justin Welby, diceva: “Quando vediamo lavorare insieme, Chiese che in passato erano nemiche dichiarate, si attaccavano e bruciavano i sacerdoti le une dalle altre, condannandosi a vicenda nei termini più violenti: quando avviene questo vuol dire che c’è qualcosa di spirituale che sta accadendo. C’è una liberazione dello Spirito di Dio che dà grande speranza”[1].
La profezia di Aggeo che ho commentato, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, è legata a un ricordo personale e vi chiedo scusa se oso rievocarlo di nuovo in questa sede, dopo che alcuni di voi l’hanno forse già ascoltato da me in altra occasione. Lo faccio nella certezza che la parola profetica torna a sprigionare la sua carica di fiducia e di speranza ogni volta che viene proclamata e ascoltata con fede.
Il giorno che il mio Superiore generale mi concesse di lasciare l’insegnamento all’Università Cattolica, per dedicarmi a tempo pieno alla predicazione, c’era, nella Liturgia delle ore, la profezia di Aggeo che ho commentato. Dopo aver recitato l’Ufficio, venni qui in San Pietro. Volevo pregare l’Apostolo di benedire il mio nuovo ministero. A un certo punto, mentre ero nella piazza, quella parola di Dio mi tornò con forza alla mente. Mi rivolsi verso la finestra del papa nel Palazzo Apostolico e mi misi a proclamare ad alta voce: “Coraggio, Giovanni Paolo II, coraggio, cardinali, vescovi e popolo tutto della Chiesa: e al lavoro perché io sono con voi, dice il Signore”. Era facile farlo perché pioveva e non c’era nessuno all’intorno.
Se non che pochi mesi dopo, nel 1980, fui nominato Predicatore della Casa Pontificia e mi trovai in presenza del papa per iniziare la mia prima Quaresima. Quella parola tornò a risonare dentro di me, non come una citazione e un ricordo, ma come parola viva per quel momento. Raccontai quello che avevo fatto quel giorno in piazza San Pietro. Quindi mi rivolsi verso il papa che a quel tempo seguiva la predica da una cappella laterale, e ripetei con forza le parole di Aggeo: “Coraggio, Giovanni Paolo II, coraggio voi cardinali, vescovi, e popolo di Dio: e al lavoro perché io sono con voi, dice il Signore. Il mio Spirito sarà con voi”. E dagli sguardi mi parve di capire che la parola dava quello che prometteva: cioè coraggio, (anche se Giovanni Paolo II era l’ultima persona al mondo a cui si dovesse raccomandare di avere coraggio!).
Oggi oso proclamare di nuovo quella parola, sapendo che non si tratta di una semplice citazione, ma di una parola sempre viva che torna a operare ogni volta quello che promette. “Coraggio, dunque, papa Francesco! Coraggio, fratelli cardinali, vescovi, sacerdoti e fedeli della Chiesa Cattolica e al lavoro, perché io sono con voi, dice il Signore. Il mio Spirito sarà con voi!”
Auguro a tutti una Santa Pasqua di pace e di speranza.