L’arcivescovo di Torino esprime con forza ed entusiasmo la sua «opzione preferenziale per i giovani». Monsignor Roberto Repole dà appuntamento a ragazze e ragazzi per stare in mezzo a loro, ascoltarli e riflettere insieme su una domanda che è cristiana come laica: «Perché ha senso vivere?». Titolo del ciclo di sei incontri: «Vedere la Parola». Sottotitolo: «Che cosa cercate? Venite e vedrete». Si inizia stasera, in Cattedrale. Con un format nuovo rispetto alle «Lectio» del passato: le parole del Pastore saranno intervallate da momenti di silenzio, musica e preghiera. Poi, la festa, nel chiostro della Facoltà teologica, «anche come occasione di scambio e conoscenza per creare fraternità».
«Lo scopo è consentire ai giovani di riscoprire la profondità di se stessi, il desiderio di vita. E di percepire la possibilità di trovare nel Vangelo e nella figura di Gesù qualcosa che è promettente per la loro esistenza: hanno il diritto di conoscere questo tesoro. E poi, fare un’esperienza sociale di comunità».
Qual è il grande tema?
«Il senso della vita. Oggi noi siamo, per fortuna, attrezzati a riconoscere che ci sono delle povertà di tipo materiale. Anche se dobbiamo ancora fare molti passi come società, soprattutto nell’accogliere gli stranieri, nel vedere che siamo un’unica umanità e che ci sono persone per cui sopravvivere è un’impresa. Ma troppo spesso non notiamo con altrettanta lucidità che c’è una profonda “povertà spirituale”, il bisogno di un senso per cui vivere. E che caratterizza soprattutto la vita dei più giovani. I ragazzi oggi hanno, come non mai, a disposizione infinite esperienze, possono assaporare una libertà grandiosa che non è stata di tutte le generazioni: ma il paradosso è che spesso non sanno che cosa fare con questa libertà».
«Saranno centrate sugli incontri di Gesù: “Il giovane ricco”, “La Maddalena”, “Pietro”, “Il Paralitico”, “La Samaritana”, “Nicodemo”. Mediteremo su che cosa possono dire al nostro cammino quotidiano».
Che cosa la preoccupa?
«Temo che i giovani non possano gustare la bellezza e la significatività dei loro sforzi, dei passi che compiono. Quando studiano, quando lavorano. Perché viviamo in un mondo che non ti dà la sensazione che stai costruendo qualcosa. E poi, mi inquieta il fenomeno dell’autolesionismo. Ormai noi abbiamo una lettura scientifico-tecnica delle cose, funzionale, per cui vediamo queste dinamiche e ci concentriamo su come risolvere i sintomi. Ma non abbiamo una lettura profonda. Ci dovremmo interrogare: perché dei giovani, nel pieno dell’esistenza, quando si aprono all’avvenire, vivono delle forme di disagio che si esprime così? A me pare che ci stiano lanciando un grido di attenzione. È come se ci dicessero: “Ma c’è qualcuno che mi vede?”».
Che cosa affiderebbe ai ragazzi di oggi?
«L’aspettativa che ho è molteplice. Ed è ciò che mi affascina. Sottolineo la loro sensibilità per la custodia del creato, che loro portano molto più di altre generazioni. Anche la loro capacità di diventare operatori di pace: più che in altre stagioni sanno guardarsi tra ragazze e ragazzi di continenti diversi con una sostanziale telepatia. E da vescovo e da cristiano ho il desiderio che possano rappresentare una nuova giovinezza per il cristianesimo in Europa. Se intercettiamo la loro sete di senso e di spiritualità possono diventare un forza motrice della Chiesa. E di ogni società».
Giovani, istituzioni e politica a Torino: quale messaggio lancerebbe?
«Non è una questione solo torinese. Sarebbe bello che anche la politica sentisse di dover interloquire anzitutto con loro. Senza continuare a mantenere lo status quo: dovrebbe diventare in grado di metterli al centro di un progetto di società, permettendo loro di sviluppare potenzialità di generatività. Senza più ostacolare una sicurezza economica, prospettive che permettano di guardare al futuro con fiducia invece che con disperazione».
Lei come si porrà stasera?
«Sarò vestito normalmente, con il clergyman. E starò sempre in mezzo a loro».