«La Vergine aveva un nome che le si adattava benissimo: si chiamava Maria, che significa “splendore”. Cosa infatti vi è di più luminoso dello splendore della verginità? […] Se quindi è un bene così grande avere un cuore verginale, quanto lo sarà la carne che con l’animo adornerà la verginità? Così, anche la santa Vergine Maria mentre era nella carne possedeva una vita incorrotta e immacolata e accoglieva con fede le parole dell’arcangelo»[1].
Questo bel significato attribuito al nome di Maria, quale «splendore» originario per il suo nome di Vergine e Immacolata, può essere preso come immagine introduttiva per la riflessione dell’Estetica teologica di H. U. von Balthasar, tutta pensata e costruita sull’irradiazione della «bellezza» di Dio, ossia della sua «gloria», dello splendore inaccessibile della sua divinità. Delimitando il campo dell’indagine sull’opera vastissima del teologo svizzero, ci si può chiedere: qual è il posto che Maria, soprattutto in relazione al mistero della Chiesa, occupa nella sua Estetica teologica? Questa è composta di 7 volumi ed è la prima parte del suo trittico teologico arricchito dagli altri due pannelli, che sono la Teodrammatica e la Teologica.
Benvenuto Tisi, “Trinità e Immacolata Concezione”, 1528-36, Milano
In particolare, in che senso si può propriamente parlare di Maria, quale «splendore della Chiesa», in relazione al Figlio Gesù Cristo, che, per sua natura, è la «gloria di Dio», in quanto egli è «il Signore della gloria» (1 Cor 2,8), è l’«irradiazione» o splendore riflesso della stessa gloria del Padre (cfr Eb 1,3)? In quanto Figlio di Dio diventato uomo (cfr Gv 1,14), Gesù Cristo porta in sé, e trasmette, tutto il peso della gloria divina, ossia della divinità e della trascendenza divina espressa quale kâbôd nell’Antico Testamento e quale doxa nel Nuovo Testamento. Proprio nella sua condizione umana e storica di Verbo incarnato, Gesù di Nazaret è diventato, secondo la nota formula di sant’Ireneo, «la visibilità del Dio invisibile» (cfr Gv 1,18).
Nella prospettiva del 150° anniversario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, fatta da Pio IX nel 1854, Maria e la Chiesa sono i termini portanti della nostra riflessione mariologica accomunati dalla categoria di splendore. Si tratta di cogliere in questa caratteristica gli aspetti propriamente biblici e teologici di una estetica teologica in senso originario, e non porsi o ridursi al piano semplicemente di una «teologia estetica» (bellezza nel senso puramente profano), alla quale molte volte — soprattutto nel secondo millennio cristiano — si è abbandonata parte della teologia cattolica e alla quale sono inclini, talvolta, anche la predicazione popolare sulla Madonna e la devozione mariana.
Si può intanto rilevare che il termine «splendore», col quale l’Omelia II sull’Annunciazione dello pseudo-Gregorio Taumaturgo qualifica la verginità di Maria si trova, per due volte, all’inizio del capitolo quarto della Seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi dove è applicato al «glorioso Vangelo di Cristo», immagine di Dio (2 Cor 4,3-6; cfr Gn 1,3). Un altro aspetto non marginale della ricerca mariologica in von Balthasar sarà quello di verificare il rapporto tra lo «splendore» proprio e originario di Cristo, quale «immagine di Dio» (2 Cor 4,4), e lo «splendore» che caratterizza la figura o immagine di Maria.
Maria, la Vergine e Madre, prototipo della «ars Dei»
Nella vasta e poliedrica opera teologica di von Balthasar (1905-88), la figura di Maria occupa un posto prioritario. L’alveo naturale della sua meditazione mariologica è prevalentemente quello della cristologia-ecclesiologia. La mariologia non è un’appendice dei tre grandi temi che dominano, in assoluto, la sua riflessione di teologo, ossia Dio, Gesù Cristo e la Chiesa; risalta subito una interconnessione molto stretta del ruolo-missione di Maria con il mistero del Figlio Gesù Cristo e della Chiesa sua Sposa, «santa e immacolata». Un altro elemento introduttivo che può aiutare a collocare subito l’originalità della meditazione mariologica di von Balthasar è dato dall’uso del linguaggio e della simbologia sponsale sia per esplorare l’unicità irripetibile della Vergine Madre sia per mettere in luce l’insopprimibile dimensione «mariana» propria della Chiesa anche come «istituzione». Questa è la complementarità o inseparabilità tra il «principio petrino gerarchico», connesso con la Chiesa istituzionale, e il «principio mariano carismatico», nota originaria della Chiesa, che è sempre «la Chiesa dell’amore».
«L’immagine di Maria è incontestabile — afferma von Balthasar nel primo volume dell’Estetica teologica — rilevando che anche per i non credenti essa ha il valore di un tesoro di bellezza intangibile, anche quando non viene compresa come immagine della fede, ma soltanto come simbolo sublime e viene interpretato secondo categorie umane universali. Essa irradia l’evidenza di ciò che è stato marchiato dalla figura della rivelazione, la quale apparterrebbe anche alla Chiesa se questa non fosse altro che la “sposa senza macchia e senza ruga”, così come è stata pensata soltanto dal Cristo. Unicamente questa immagine della Chiesa è sviluppata dal Vangelo e non si pensa mai alle forme di compromesso che essa acquista per il fatto di cadere in mano di peccatori e da essi formata e amministrata»[2].
In che modo Maria partecipa allo «splendore» della «gloria» propria del Figlio di Dio, gloria che risplende nello stesso volto umano di Gesù (cfr 2 Cor 4,6), come san Paolo ci ricorda? Il rapporto tra Maria e Gesù Cristo può essere raffigurato, per analogia, con la relazione che intercorre sul piano cosmico tra il sole e la luna: mentre il sole brilla di luce propria, la luna invece splende per luce riflessa, quindi per il calore e il bagliore che il sole le trasmette. La riflessione di von Balthasar, fatta nell’Estetica teologica, ci conduce in tale prospettiva, quando egli afferma: «Il Figlio del Padre, inviato da questi nel mondo, è la gloria di Dio in persona che scendendo sul mondo, assume forma. La gloria che “prende sotto la sua ombra” Maria e che entra quindi, con il Bambino, nel tempio (Lc 1,35; 2,21-38), è la stessa che ha coperto il tabernacolo e il tempio, come nube splendente e tenebrosa (Es 40,35; Lc 2,32). Vedere lui, significa, con Simeone (Lc 2,30.32) e Giovanni (Gv 1,14), vedere la gloria del Padre». Perciò, nella sua totalità di «segni e parole», Gesù è il «segno della salvezza e della gloria», preso in considerazione soprattutto dall’evangelista Giovanni[3].
In questo contesto, anche se von Balthasar non lo esplicita nella dimensione mariologica, si può già intravedere il ruolo essenziale svolto da Maria nella manifestazione visibile del Dio invisibile, ossia nel suo farsi «storia». Dicendo che «l’epifania del Dio vivente di Abramo» «è lo stesso Dio di Gesù», il teologo svizzero sottolinea che non si tratta dell’apparizione di un Dio cosmico, «ma di un Dio storico», vale a dire che «non si tratta di un Dio che glorifica se stesso nel moto ciclico della natura e nei miti ad esse collegati, ma di un Dio che si glorifica nelle sue libere azioni salvifiche. A partire dalla storia, Israele guarda al cosmo e scorge in esso questo suo Dio del Patto, libero e sovrano»[4]. Maria è il «luogo» privilegiato, il «tabernacolo santo», la «tenda» del convegno o «l’arca dell’alleanza» nella quale Dio, per potersi fare uomo, ha voluto prendere dimora. Grazie alla collaborazione attiva della Vergine di Nazaret non solo si è compiuta l’Incarnazione del Verbo, ma la gloria divina ha potuto manifestarsi visibilmente nell’umanità che il Figlio eterno ha preso dalla madre umana.
In questa luce traspare tutta la singolarità di Maria come il capolavoro dell’azione di Dio e della sua grazia, capolavoro formato soprattutto attraverso la verginità di Maria e la sua disponibilità sponsale all’iniziativa di Dio. «La vita di Maria — afferma von Balthasar trattando della figura e della trasparenza proprie della mediazione della Chiesa — dev’essere considerata come il prototipo di ciò che l’ars Dei può formare da una materia umana che le si oppone. Essa è vita femminile che in ogni caso attende, più di quella maschile, di essere formata dall’uomo, dallo sposo, da Cristo e da Dio. È vita verginale che non conosce altra legge di formazione se non Dio e il frutto che Dio le dà da portare, da partorire, da nutrire e da allevare. È vita materna e sponsale al tempo stesso, la cui forza di donazione si estende dal materiale a quanto vi è di più spirituale. In tutto ciò essa è vita interamente disponibile. […] Le situazioni di questa vita sono inimitabili, indimenticabili, altrettanto uniche quanto universalmente valide e significative. I tre cicli del rosario [oggi bisognerebbe parlare di quattro cicli] le presentano all’anamnesi della Chiesa e dei cristiani, in una strettissima unione di forma con la vita di Cristo. E in realtà la vita di Maria non ha alcuna forma propria separata; essa è compagnia strettissima con la forma [figura] di Cristo; sta all’ombra e alla luce della sua unica figura. Ma [la vita di Maria] non viene semplicemente offuscata da essa, bensì, proprio nella utilizzazione ad opera di Cristo, nel portare la croce con lui essa viene immersa nella luce che irraggia da lui»[5].
In queste linee di meditazione di quella che potremmo definire la configurazione cristologica di Maria, è già avanzata una prima indicazione dell’esemplarità della Vergine, sia per la Chiesa nel suo insieme sia per ogni singolo cristiano. In primo luogo, si sottolinea che Maria, proprio partecipando come «compagnia femminile» al cammino della croce del Figlio, prende parte anche al suo nascondimento e al suo abbassamento, ossia a quella dimensione kenotica della cristologia così fortemente rimarcata da von Balthasar in tutta la sua teologia. In particolare, la vita di Maria, rispetto a quella di Gesù, è meno appariscente, sprovvista com’è di «operazioni visibili di miracoli, di fenomeni mistici, di riconoscimenti e di opposizioni da parte degli uomini». Anzi, «ancor più della vita di Cristo, la vita di Maria è posta nel chiaroscuro della grazia e della fede. La glorificazione è postuma». Per questo, è la conclusione di von Balthasar, «sulla scia di Maria, tutte le creazioni di Cristo nella Chiesa dei santi stanno sotto questa legge del chiaroscuro». Alcune figure di santi hanno ricevuto «una sorta di archetipicità secondaria, ma che non è mai sprovvista del tutto di nascondimento». Più in generale, nella vita dei santi, al di là dei singoli carismi, la potenza divina che in essi agisce è sottratta allo sguardo, è segnata appunto dal nascondimento: «Si manifesta solo tanto quanto è necessario perché la mano offerta al buio possa essere afferrata con fiducia»[6].
Nel «sì» di Maria è l’origine della Chiesa
Von Balthasar pone una grande enfasi sulla fede di Maria nella quale e attraverso la quale si attua l’Incarnazione del Verbo, inizio misterioso anche della fondazione della Chiesa, sposa di Cristo e madre di coloro che, seguendo Gesù, fanno la volontà del Padre suo (cfr Mt 12,50). Le due immagini bibliche che caratterizzano la fede di Maria sono quelle della «figlia di Sion» e della «serva del Signore» (ancilla Domini).
«Nel punto nodale di tutte le strade tra l’Antico e il Nuovo Testamento c’è l’esperienza mariana di Dio nello stesso tempo così ricca e misteriosa da poter essere difficilmente descritta. Essa è tuttavia così importante da apparire sempre nuovamente come il sottofondo di ciò che si mostra apertamente. In essa Sion passa nella Chiesa, in essa la Parola entra nella carne, in essa il Capo si unisce alle membra. Essa è il luogo della fecondità sovrabbondante. L’Incarnazione del Verbo avviene nella fede della Vergine. Questa non si appoggia propriamente all’apparizione dell’angelo, ma interamente sulla sua parola che è Parola di Dio. Il futuro rivolto dall’angelo a Maria è promessa a Israele, e il suo essere serva è la fede di Sion»[7].
In questa riflessione sull’«esperienza mariana di Dio» von Balthasar offre una sintesi molto densa dell’intera storia della salvezza, nel suo passaggio dal vecchio al nuovo patto, dalla promessa al compimento realizzato — grazie alla risposta di fede di Maria — dal Verbo fatto carne per opera dello Spirito Santo. E in questo decisivo momento della storia della salvezza, significato dall’Incarnazione del Verbo, si è posti come davanti al bocciolo «che rivela la sua forma nello sbocciare». La novità inattesa è già enucleata nel saluto rivolto dall’angelo a Maria, saluto stilizzato da Luca — rileva von Balthasar all’inizio del Nuovo Patto — attingendo da Sofonia (3,14-19) e dai testi veterotestamentari imparentati con esso (cfr Gl 2,21-27; Zc 2,14; 9,9-10): «La figlia di Sion deve rallegrarsi, la figlia di Gerusalemme non deve aver timore: Jahvè sarà “nel suo grembo” come “re” e come “salvatore”, termini con cui senza dubbio si voleva indicare Dio che ritorna a farsi presente nel tempio di Sion»[8]. Citando poi R. Laurentin, von Balthasar prosegue: «La figlia di Sion, un’astratta personificazione di Israele, è attualizzata nella persona di Maria, che riceve in nome del popolo la promessa messianica. L’inabitazione di Jahvè nella figlia di Sion è attualizzata nel mistero del concepimento verginale»[9]. Il fatto poi che in Maria, come sottolinea l’evangelista Luca, si personifichi la fede del partner dell’Alleanza (cfr Lc 1,45; 8,15; 11,27-28) nella sua speranza riposta unicamente in Dio, per il fatto che in lei c’è soltanto «povertà» e «umiltà», «il fatto che questa fede sia perciò anche obbedienza pura alla parola e alla norma di Dio, tutto ciò realizza con la grazia di Dio l’atteggiamento ideale di Israele come premessa alla venuta del Messia». La stessa verginità di Maria è quella «misura escatologica colma fino all’orlo» che rispecchia non i motivi mitici dell’ellenismo, ma il modello veterotestamentario della «sterile» che concepisce per intervento divino[10].
Perciò in Maria, che realizza in sé la fede della figlia di Sion, fede richiesta dalla altrettanto esigente incarnazione della Parola di Dio, «è in anticipo anche l’essenza genuina della futura Chiesa che nasce dal Corpo e dallo Spirito di Cristo, che forma un corpo solo e uno spirito solo con lui, in adempimento di quell’animus veterotestamentario di fede, speranza e attesa in povertà, obbedienza e gioia che caratterizza il popolo di Dio centrato su Cristo di tutta la civitas Dei dell’Antico e del Nuovo Testamento». A questo punto von Balthasar punta molto in alto contemplando nella visione dell’Apocalisse — cap. 12: visione della donna e del drago — proprio quella fondamentale «triade» mariologica Sion-Maria-Ecclesia simboleggiata nell’unicità di una sola figura, quella di «una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» (Ap 12,1). Nella visione del veggente dell’Apocalisse è contemplata anche l’unità tra la Donna e l’arca dell’Alleanza (cfr Ap 11,19 – 12.1), la Donna e la Città santa (cfr Ap 21,9-12)[11].
Si può approfondire la riflessione balthasariana sulla fede di Maria citando un saggio di von Balthasar del 1972. Al tempo, il primo grande pannello della sua trilogia, l’Estetica teologica fondata sul pulchrum come categoria filosofica in analogia al concetto biblico di «gloria», era già compiuto. Trattando il tema Il cattolico nella Chiesa, von Balthasar vede già nel «sì» (fiat) di Maria l’atto primigenio di fondazione della Chiesa. La riflessione proposta in quell’articolo del 1972 metteva ben in luce l’affermazione secondo cui nella figura di Sion-Maria è già presente in anticipo l’essenza della futura Chiesa di Cristo.
Chi vuole riflettere sull’Incarnazione di Dio, scriveva il teologo di Basilea, dovrà tenere ben presente la donna e la sua partecipazione attiva, incondizionata, all’iniziativa di Dio che vuole discendere nella condizione umana: se la Parola di Dio si fa carne, essa «deve sorgere su dalle infime profondità della vita. E questa infima realtà lo deve accogliere non come un vuoto abisso, nella pura passività, bensì con la disponibilità attiva con cui il grembo di una donna accoglie il seme dell’uomo». Per far sì che il suo Verbo diventi carne, Dio «ha bisogno fin dall’inizio dell’assenso che tutto consente», ossia c’è bisogno di qualcuno che, «nella perfetta libertà creaturale, diviene grembo, sposa e madre del Dio che si fa uomo: questo atto fondamentale non è né, in senso buddistico, una rinuncia all’essere proprio non libero, sprofondandosi nell’abisso dell’assoluto, né, in senso marxistico, un autodotarsi della libertà, cosicché l’uomo divenga il suo proprio creatore; si tratta bensì di divenire beneficiari della libertà — che ci viene donata dal Dio che incondizionatamente si dona — di accoglierlo incondizionatamente»[12].
Poste queste premesse e tenendo per fermo che l’iniziativa spetta all’assoluta sovranità di Dio che in Gesù Cristo ha istituito la Nuova ed eterna Alleanza con l’umanità, è ancora l’assenso di Maria, pronunciato loco totius humanae naturae[13], che fa della sua persona, della sua disponibilità sponsale alla volontà di Dio, il «nucleo della nuova Chiesa». «In questo atto fondamentale che avviene nella camera di Nazareth — si affermava nell’articolo Das Katholische an der Kirche —, in esso soltanto viene fondata la Chiesa di Cristo in quanto cattolica. La sua cattolicità consiste nell’incondizionatezza dell’Ecce ancilla, il cui vantaggio di spazio infinito è la corrispondenza creaturale all’amore di Dio che infinitamente si dona»[14]. Qui il teologo svizzero esprime un’opinione non condivisa da altri studiosi, poiché egli afferma che già in Maria, a partire dall’Annunciazione e quindi con l’Incarnazione del Verbo, «idealmente» sarebbe stata fondata la Chiesa. Infatti per von Balthasar, chi fa iniziare la Chiesa più tardi, per esempio, con la chiamata dei Dodici o con il conferimento di autorità a Pietro, «ha già perso l’essenziale: questi perverrà sempre soltanto fino a una realtà empirico-sociologica che non può distinguersi qualitativamente dalla Sinagoga. Anche l’“infallibilità” del ministero resta pericolosamente sospesa in aria, dal momento che essa non può mettere radici che nella fallibilità dell’uomo che ne è detentore»[15].
In altre parole, la Catholica, quale «sposa senza macchia né ruga» (Ef 5,27), la «vergine pura» che dev’essere fidanzata a Cristo (2 Cor 11,2), nella sua realtà più intima è sorta con l’assenso universale, cattolico, di Maria, in quanto fin dal primo momento della Nuova Alleanza ella è stata creata quale Madre del Bambino, «che deve essere vergine nel corpo e nello spirito per poter essere l’assenso incarnato, cattolico, all’incalzare incondizionato della Parola divina nella carne»[16]. Questo rapporto fontale della Chiesa col «sì» di Maria, quindi direttamente con l’evento dell’Incarnazione del Verbo e con la cattolicità della Chiesa, può essere approfondito e completato con quanto von Balthasar ha scritto nel 1965. Nel «resoconto» per i suoi 60 anni, puntualizzando il senso dei suoi precedenti studi ecclesiologici, in particolare focalizzando il significato dell’interrogativo Chi è la Chiesa?[17], egli così compendiava la risposta sul suo «mistero nucleare»: «La Chiesa è l’unità di coloro che, schieratisi intorno al sì immacolato di Maria, perciò illimitato, per conseguenza cristiforme nella grazia, e in questo sì formati, sono disposti e pronti a fare in modo che abbia a realizzarsi la volontà di salvezza di Dio su se stessi e su tutti i fratelli. Questo atto radicale si chiama “ascolto della Parola”»[18].
Dieci anni dopo (1975), in un analogo «resoconto» della sua vita e della sua opera teologica, era ancora il mistero dell’Incarnazione ad essere indicato espressamente come atto fondante la Chiesa nella sua cattolicità: «L’Incarnazione del Logos, il suo rapporto nuziale con la Chiesa (e per essa con il mondo) include l’organicità della Chiesa. Quanto più questa deve conservarsi cattolica, aperta a tutti, dialogica, drammatica nel mondo contemporaneo, tanto più profondamente essa deve comprendere e vivere la sua intima essenza come corpo e sposa di Cristo»[19]. La cattolicità della Chiesa, ci ricorda von Balthasar con molta insistenza, non è in verità «un tiepido compromesso o sincretismo»; al contrario essa è forza di unione, una volta ancora «drammatica» che ha in Gesù Cristo la sua fonte e la sua misura: «Gesù Cristo è in ciò il cattolico: Dio e uomo, disceso agli inferi, salito al cielo, scandaglia egli stesso le dimensioni personali e sociali dell’essere umano e le rifonda a partire dalla propria esperienza»[20]. Nel piccolo libro Katholisch (Cattolico) del 1975, affermando che la Chiesa è cattolica soltanto perché «Gesù non può non essere cattolico», il teologo svizzero sottolinea anzitutto che la cattolicità di Cristo è sia verticale («facendo la volontà del Padre in terra come in cielo, rivela Dio nel mondo») sia orizzontale in quanto, come aveva già intuito sant’Ireneo, egli «ricapitola» in sé la storia della stirpe di Adamo. E Gesù non è soltanto il «mediatore» tra due parti, tra Dio e l’uomo, tra il divino e l’umano, ma «è l’Uno che genera l’unità» (Gal 3,20). In continuità con l’Incarnazione del Verbo, la croce di Cristo, rivelazione e dono dell’amore universale di Dio, è il «centro della realtà cattolica» dello stesso Gesù, testimoniata dalla sua Chiesa, Sposa e Corpo di Cristo[21].
Maria «archetipo» della Chiesa
Per approfondire l’intima natura della Chiesa, quale Corpo di Cristo e sua Sposa «santa e immacolata» (Ef 5,27), può essere ancora di grande aiuto la riflessione mariologica, ossia la contemplazione di Maria, Vergine e Madre, immagine esemplare della Chiesa, suo volto «mariano», modello della imitazione di Cristo. Nell’ottica teologica di von Balthasar il punto nodale per cogliere il cuore del rapporto tra mariologia ed ecclesiologia è costituito da un passo della Lettera agli Efesini (5,25-27). Esso è come la terra madre della contemplazione di Maria nella sua identità di «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», come l’ha cantata Dante Alighieri, e della Chiesa, la Sposa che Cristo «ha amato e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25-27)[22].
La meditazione mariologica che von Balthasar fa già nel primo volume della sua Estetica teologica conduce anzitutto a precisare che «la figura di Maria non sostituisce la figura di Cristo, ma la rivela nell’imitazione come l’archetipo, con la sua specificità quindi e con la sua forza di impressione divina». Nello stesso tempo la figura di Maria non può essere isolata dai credenti, «in quanto essa è proprio il modello della nostra “conformità a Cristo” (Rm 8,29; Ef 3,10.21). La sua immagine sta e deve stare quindi davanti agli occhi dei cristiani quando si tratta di esaminare le condizioni di questa conformazione»[23]. Questa esemplarità di Maria è fondata sul fatto che essa porta impressa l’incisione di Dio, realizzata in lei da Cristo e dal suo Spirito[24]. In altre parole, Maria è «la piena di grazia», com’è stata salutata nell’Annunciazione (cfr Lc 1,28). Nella Vergine e Madre, commenta von Balthasar, si rendono visibili due cose: «che qui è presente l’immagine esemplare della Chiesa cristiforme, e che la santità cristiana è l’essere e la vita in cui Cristo è portato»[25]. Tale riflessione conduce a due implicazioni di ampio respiro a livello sia della ecclesiologia sia dell’intera vita cristiana: «Nella misura in cui la Chiesa è mariana, essa è figura pura e senz’altro leggibile e comprensibile; nella misura in cui l’uomo diventa mariano (oppure, ciò che è la stessa cosa, cristoforo) la dimensione cristiana diventa in lui leggibile in modo altrettanto comprensibile. Nel modello mariano si manifesta sia la possibilità di trasporre la figura di Cristo, sia il modo della stessa trasposizione»[26].
Concludendo, si possono precisare due termini essenziali per meglio mettere in luce non solo la connessione stretta tra mariologia ed ecclesiologia, ma anche per comprendere più adeguatamente in che senso la Vergine Madre è l’anima ecclesiastica, e quindi perché la Chiesa nella sua natura più intima non può non essere «mariana» unitamente alla sua forma «petrina» (gerarchica). Questi due concetti, che abbracciano entrambi l’esemplarità ecclesiale di Maria, sono quelli di «archetipo» e quello della ancilla Domini.
Abbiamo visto che la fede di Maria di Nazaret costituisce il fondamento della sua esperienza di Dio, e che, in forza della stessa fede, Maria, la nuova figlia di Sion, «è già in anticipo anche l’essenza genuina della Chiesa futura che nasce dal Corpo e dallo Spirito di Cristo»[27]. Ora, il rapporto fisico tra Maria e Gesù, tra la Madre e il Bambino, realizzato col concepimento verginale ad opera dello Spirito Santo, «trasforma in un problema nuovo il rapporto tra l’esperienza di Maria, l’esperienza della Chiesa e l’esperienza del singolo credente. […] L’esperienza archetipa si trasfonde ormai col suo flusso in quella imitativa. In primo luogo, perché la fede di Maria, che sta a fondamento della sua esperienza di maternità, è la stessa della fede di Abramo e della fede di ogni cristiano. In secondo luogo, perché Maria, portando e partorendo il Figlio e il Capo della Chiesa, porta in sé […] i cristiani assieme alla loro esperienza di fede. L’archetipo stesso qui ha la forma materna e abbraccia nel suo mantello protettore coloro che nel futuro lo imiteranno. Qui raggiunge il suo vertice ultimo anche la dimensione prolettica di tutta l’esperienza veterotestamentaria, l’esperienza fisico-personale che Maria ebbe del Bambino, che è suo Dio e Salvatore, è aperta senza riserve alla cristianità. Essa è tutta, fin da principio e in maniera sempre più forte, esperienza per gli altri, per tutti, esperienza espropriata a favore della universalità, esperienza che si fa non solo nella perdita del Bambino (dal dodicenne fino alla vita pubblica e alla passione, fino alla fondazione della Chiesa), ma nel sottrarsi progressivo dell’esperienza stessa, come se la Madre dovesse progressivamente rinunciare ad ogni dimensione vitale-personale a favore della Chiesa e restare alla fine come un albero spogliato con la sola fede (“Ecco tuo figlio!”), ogni colore intimo e personale le viene progressivamente sottratto a favore della Chiesa e dei cristiani, per essere accordato loro assieme alla grazia di Cristo che è divino-umana, una grazia che è quindi piena dell’esperienza umana di Dio in Cristo»[28].
Dopo questa pagina esemplare sulla funzione ecclesiologica di Maria, si può concludere ricordando l’altra immagine mariana, anch’essa densa di implicazioni per l’ecclesiologia e per la vita cristiana. Si tratta dell’autodesignazione della Vergine di Nazaret davanti alla parola di Dio che la interpella, che la chiama alla collaborazione: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,39). Pronunciando con prontezza il suo ecce ancilla Domini, Maria mostra tutta la sua disponibilità attiva; essa è come «l’argilla umida nella quale soltanto si lascia imprimere la forma di Cristo»[29]. In primo luogo, è da rilevare che nella «cooperazione» tra Dio e la creatura, come anche tra Cristo e i suoi, mai l’immagine di Cristo viene impressa ad opera dell’uomo, così come in nessun uomo essa può essere impressa senza la sua libera volontà e la sua collaborazione. In secondo luogo, Dio e l’uomo non operano sullo stesso piano, così come può accadere in un’opera d’arte che il maestro progetta ed esegue nelle sue parti principali, lasciando poi agli allievi di completarla nelle parti meno importanti.
Anzitutto, «il mariano ecce ancilla Domini — afferma von Balthasar — rimanda alla distanza tra il Signore e la serva. Questa distanza si manifesta nel fatto che il Signore comanda in tutto e la serva obbedisce in tutto. Quest’obbedienza creaturale e cristiana caratterizza tutta l’esistenza. Essa arriva fino alla morte, anzi fino alla morte in croce, rinuncia a tutte le proprie idee e obiezioni, accetta dal Signore tutto il piano di lavoro e mette a disposizione di questo piano tutte le proprie forze, fisiche e spirituali. In questo essa è l’opposto di una passività che rinuncia alla cooperazione e lascia che Dio “faccia ciò che vuole”. L’ancella è piuttosto nell’atteggiamento di un’attenzione continua al cenno della padrona (cfr Sal 122,2); con tutte le sue forze disponibili essa è pronta a balzare, così o in un’altra maniera, o anche, se questa fosse la volontà del Signore, ad essere saltata, dimenticata, messa da parte. Il suo atteggiamento è un essere tesa alla venuta del Signore»[30].
Con tale atteggiamento di disponibilità attiva o sponsale al primato della parola di Dio Maria ha potuto ricevere in sé il Verbo della vita, lasciandosi plasmare nell’anima e nel corpo dalla forza creatrice dello Spirito Santo, per diventare, a seguito del suo «sì» (fiat) a Dio, il grembo verginale del Figlio di Dio fatto uomo, la cellula primigenia della Chiesa, madre dei credenti in Cristo Gesù.