Ma il culto popolare dei santi è davvero una reliquia pagana? (di Giuseppe Lorizio)

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Su “Repubblica” Niola rilancia il tema della resistenza del politeismo nel cristianesimo. Ma si fraintende se non si colgono sia la capacità di accogliere e trasformare, sia le differenze teologiche
L’articolo di Marino Niola, intitolato “Eterni ritorni. La dea in esilio vestita da madonna” e apparso su “La Repubblica” di mercoledì 21 agosto scorso, ha il grande merito di impostare la tematica del rapporto fra paganesimo e cristianesimo che, nelle varie epoche a partire dalle origini cristiane, si è proposta e si ripropone con la sua radicale valenza culturale e teologica. Il testo offre notevoli spunti di riflessione e, si spera, di discussione alla teologia e all’agire ecclesiale, con le sue tutt’altro che banali provocazioni a partire da tesi che si possono e si devono non condividere, ma affrontare con onestà intellettuale.

Interessante e intrigante l’aver preso le mosse da un’annotazione di Wolfgang Goethe, nel suo Viaggio in Italia. Alla data del 26 maggio 1787, da Napoli, il genio tedesco dichiarava l’opportunità «che vi siano cotanti santi, ogni fedele si può scegliere quello che gli pare migliore, e volgersi ad esso con tutta fiducia». Il testo prosegue con la dichiarazione della scelta di san Filippo Neri (di cui in quella data ricorre la memoria) a propria figura di santità di riferimento. E tuttavia questa presa di posizione sui numerosi santi si inquadra nella prospettiva neopagana propria del pensiero e della poetica goethiani. Il Weltkind, infatti, secondo l’interpretazione preziosa di Xavier Tilliette, si inscrive fra i «nemici della croce». Sintomatica a tal proposito la reazione indispettita e il dissenso manifestato allorché gli venne mostrata la medaglia che gli allievi avevano regalato a Hegel in occasione del suo sessantesimo compleanno con le immagini della civetta e della croce. A proposito di quest’ultima, Goethe ebbe a scrivere: «Non capisco perché debba amare la croce, per quanto io stesso debba portarla» (episodio e citazione riportati da Karl Löwith nel suo Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi 1949). Culto dei santi pensato come trasposizione del politeismo pagano, adorazione della croce no. Non sembra dissimile tale postura a quella di molti cattolici, per lo più mediterranei, e giustifica con un nobile richiamo la tesi che percorre l’articolo del Niola. Resta altresì il fatto che il cristiano non è chiamato ad adorare la croce ma il Crocifisso risorto, veramente uomo e pienamente Dio.

Quanto alla metamorfosi della dea che diventa Madonna, si tratterebbe di Iside, madre di Horus e sposa di Osiride, denominata in ambito pagano theotokos, ossia madre di Dio, stesso sintagma attribuito a Maria di Nazaret nel Concilio di Efeso (431 d. C.). Non si tratta di una semplice trasposizione o deificazione della Madonna, bensì di un profondo e radicale cambiamento di prospettiva. Se una dea può normalmente generare un dio e una donna un uomo, qui al contrario si afferma che una donna ha generato Dio. La generazione del dio da parte della dea avviene nel mito e quindi nella metastoria, quella del figlio di Dio da parte di una donna accade storicamente. Particolarmente significativo a riguardo il libro di Massimo Cacciari, Generare Dio del 2017. Il paradosso è evidente e risponde in pieno alla logica cristiana che si qualifica appunto come paradossale.

L’articolo offre un ulteriore spunto di riflessione nel riferimento all’Agostino del De civitate Dei, che è veritiero, ma va contestualizzato. Allorché vigeva ancora una presenza forte della forma pagana di religiosità nel mondo antico, era opportuno segnare la distanza e la differenza, onde evitare, in coloro che si erano convertiti, pericolose nostalgie verso la precedente appartenenza. E questo intende fare il vescovo di Ippona. Per noi, la fede cristiana nella sua forma cattolica, attraverso il culto di Maria e dei santi, nella prospettiva teologica del Dio di Gesù Cristo, acquista una dimensione popolare, che non può essere ritenuta semplicemente deviante, se ben espressa e contestualizzata, ad esempio alla luce del documento del 2002 della Congregazione per il culto, dal titolo “Pietà popolare e liturgia”, che va letto, meditato e approfondito.