Un documento a cuore aperto, che chiama in causa comunità e istituzioni. Il pastore della diocesi di San Modestino ha invitato tutti a fare autocritica senza rifugiarsi in affrettate analisi su un delitto che, nelle intenzioni di Giovanni Limata, disoccupato di 22 anni, ed Elena Gioia, liceale di 18, doveva addirittura diventare una strage con l’uccisione della moglie e dell’altra figlia, come emerge dagli ultimi messaggi che i due si sono scambiati, in possesso degli inquirenti: «No, – ha scritto il vescovo – non voglio unirmi al coro dei tanti che pontificano su un dolore assurdo, né voglio sbirciare nei giorni di una famiglia, un attimo prima della tragedia, normale, alle prese con i problemi di sempre nel difficile dialogo tra generazioni. Sento la città che è attonita, in lacrime. Quel sangue mi chiama, ci chiama in giudizio, ci chiede conto con la domanda più antica che la cultura conosca e che pure nasceva all’indomani di un omicidio: ‘Dov’è Abele, tuo fratello?’».
Un monito che monsignor Aiello rivolge prima a se stesso: «In questa comune e corale ammissione di colpa per il sangue sulla città il vescovo non si tiene fuori, non si limita a benedire, ma è anche lui sul banco degli imputati, con i suoi preti, con la Chiesa di Avellino che egli, indegnamente, rappresenta. Il sangue sulla città interroga la Chiesa e lo Stato con le sue Istituzioni, i responsabili politici e amministrativi, gli uomini di cultura, la Scuola, le associazioni e il volontariato, perché, a furia di vivere d’emergenza (terremoto e post-terremoto, mucca pazza, terrorismo e crollo delle banche, pandemia Covid) hanno dimenticato di fare attenzione all’emergenza educativa».
Da qui l’appello all’unità e al supporto a chi questa tragedia la sta vivendo in prima persona. «Adesso – conclude – mi importa dei giovani carnefici e della loro vittima, mi importa il disorientamento dei genitori e la loro paura di porre divieti, mi importa il sangue che stasera vedo scorrere, più copioso dei nostri fiumi, per le nostre vie, per le nostre vite, mi importa dei bambini con le mani giunte per la Prima Comunione che possono diventare killer mentre noi monitoriamo il Covid in maniera ossessiva e non ci accorgiamo che dilaga silenzioso ‘il male di vivere’. Mi importa di te, di voi, del presente, del futuro di questa città.
Per questo non mi dimetto». Ieri mattina, intanto, davanti al gip Paolo Cassano, Giovanni Limata ed Elena Gioia si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. I due fidanzati, apparsi ancora sotto choc, hanno avuto modo di incrociare a distanza lo sguardo dei rispettivi genitori, affranti dal dolore ma volutamente presenti. Elena Gioia è stata assistita dallo zio avvocato , Umberto Ferrajolo, fratello della madre. la quale ha scoperto di essere a sua volta nel mirino della figlia ma ha scelto lo stesso, significativamente, di non lasciarla sola. Nei prossimi giorni la difesa della ragazza, che pure ha confessato il delitto, sarà assunta dall’avvocato Cerino D’Urso.
Per il sostituto procuratore Vincenzo Russo, che coordina le indagini, i due rispondono di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, per Elena con l’aggravante ulteriore dello stretto legame di parentela. Dopo la convalida dell’arresto i due giovani, che rischiano l’ergastolo, sono stati nuovamente reclusi nel carcere di Bellizzi Irpino. A inchiodarli, come detto, i messaggi WhatsApp scambiati fino a pochi minuti prima di un delitto pianificato perché Aldo Gioia si opponeva alla relazione della figlia con quel giovane, disoccupato, con precedenti contro la persona, segnalato come assuntore di sostanze stupefacenti. E anche l’eventuale uso di droghe è al centro degli approfondimenti degli inquirenti.