Tra i tanti mali che la pandemia del Covid ha causato all’umanità, c’è stato almeno un effetto positivo dal punto di vista della fede. Essa ci ha fatto prendere coscienza del bisogno che abbiamo dell’Eucaristia e del vuoto che crea la sua mancanza. Durante il periodo più acuto della pandemia nel 2020 sono stato fortemente impressionato – e con me milioni di altri cattolici – da quello che significava ogni mattina assistere in televisione alla Santa Messa celebrata da papa Francesco a Santa Marta.
Alcune chiese locali e nazionali hanno deciso di dedicare il corrente anno a una speciale catechesi sull’Eucaristia, in vista di un desiderato revival eucaristico nella Chiesa cattolica. Mi sembra una decisione opportuna e un esempio da seguire, magari toccando qualche aspetto non sempre preso in considerazione. Ho pensato perciò di portare un piccolo contributo al progetto, dedicando le riflessioni di questa Quaresima a una rivisitazione del mistero eucaristico.
L’Eucaristia è al centro di ogni tempo liturgico, della Quaresima non meno che degli altri tempi. È ciò che celebriamo ogni giorno, la Pasqua quotidiana. Ogni piccolo progresso nella sua comprensione si traduce in un progresso nella vita spirituale della persona e della comunità ecclesiale. Essa però è anche, purtroppo, la cosa più esposta, per la sua ripetitività, a scadere a routine, a cosa scontata. San Giovanni Paolo II, nella lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, dell’Aprile 2003, dice che i cristiani devono riscoprire e mantenere sempre vivo “lo stupore eucaristico”. Ecco, a questo scopo vorrebbero servire le nostre riflessioni: a ritrovare lo stupore eucaristico.
Parlare dell’Eucaristia in tempo di pandemia e ora, in aggiunta, con gli orrori della guerra davanti agli occhi, non è un astrarci dalla realtà in cui viviamo, ma un invito a guardarla da un punto di vista superiore e meno contingente. L’Eucaristia è la presenza nella storia dell’evento che ha rovesciato per sempre i ruoli tra vincitori e vittime. Sulla croce Cristo ha fatto della vittima il vero vincitore: “Victor quia victima”, lo definisce sant’Agostino: vincitore perché vittima. L’Eucaristia ci offre la vera chiave di lettura della storia. Ci assicura che Gesú è con noi, non solo intenzionalmente, ma realmente in questo nostro mondo che sembra sfuggirci dalle mani da un momento all’altro. Ci ripete: “Abbiate coraggio: Io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).
L’Eucaristia nella storia della salvezza
Partiamo da una domanda: Che posto occupa l’Eucaristia nella storia della salvezza? La risposta è: non occupa un posto, ma la occupa tutta! L’Eucaristia è co-estensiva alla storia della salvezza. Essa, però, è presente in tre modi diversi, nei tre diversi tempi, o fasi, della salvezza: è presente nell’Antico Testamento come figura; è presente nel Nuovo Testamento come evento ed è presente nel tempo della Chiesa come sacramento. La figura anticipa e prepara l’evento, il sacramento “prolunga” e attualizza l’evento.
Nell’Antico Testamento, dicevo, l’Eucaristia è presente “in figura”. Una di queste figure era la manna, un’altra il sacrificio di Melchisedek, un’altra ancora il sacrificio di Isacco. Nella sequenza Lauda Sion Salvatorem, composta da san Tommaso d’Aquino per la festa del Corpus Domini, si canta: “Adombrato nelle figure: immolato in Isacco, indicato nell’agnello pasquale, dato ai padri come manna”: In figúris præsignátur, / cum Isaac immolátur: /agnus paschæ deputátur: /datur manna pátribus. In quanto figure dell’Eucaristia, san Tommaso chiama questi riti “i sacramenti dell’antica Legge” .
Con la venuta di Cristo e il suo mistero di morte e risurrezione, l’Eucaristia non è più presente come figura, ma come evento, come realtà. Lo chiamiamo “evento” perché è qualcosa di storicamente accaduto, un fatto unico nel tempo e nello spazio, avvenuto una volta sola (semel) e irripetibile: Cristo “una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9, 26).
Infine, nel tempo della Chiesa, l’Eucaristia, dicevo, è presente come sacramento, cioè nel segno del pane e del vino, istituito da Cristo. È importante che comprendiamo bene la differenza tra l’evento e il sacramento: in pratica, la differenza tra la storia e la liturgia. Ci facciamo aiutare da sant’Agostino.
Noi – dice il santo dottore – sappiamo e crediamo con fede certissima che Cristo è morto una sola volta per noi, lui giusto per i peccatori, lui Signore per i servi. Sappiamo perfettamente che ciò è avvenuto una sola volta; e, tuttavia, il sacramento periodicamente lo rinnova, come se si ripetesse più volte quello che la storia proclama essere avvenuto una sola volta. Eppure evento e sacramento non sono tra loro in contrasto, quasi che il sacramento sia fallace e solo l’evento sia vero. Infatti, di ciò che la storia afferma essere accaduto, nella realtà, una sola volta, di questo il sacramento rinnova (renovat) spesso la celebrazione nel cuore dei fedeli. La storia svela ciò che è accaduto una volta e come è accaduto, la liturgia fa sì che il passato non sia dimenticato; non nel senso che lo fa accadere di nuovo (non faciendo), ma nel senso che lo celebra (sed celebrando) .
Precisare il nesso che esiste tra il sacrificio unico della croce e la Messa è una cosa assai delicata ed è stato sempre uno dei punti di maggior dissenso tra cattolici e protestanti. Agostino usa, come abbiamo visto, due verbi: rinnovare e celebrare, che sono giustissimi, a patto però di essere intesi l’uno alla luce dell’altro: la Messa rinnova l’evento della croce celebrandolo (non reiterandolo!) e lo celebra rinnovandolo (non soltanto ricordandolo!). La parola, nella quale si realizza oggi il maggior consenso ecumenico, è forse il verbo (usato anche da Paolo VI, nell’enciclica Mysterium fidei) rappresentare, inteso nel senso forte di ri-presentare, cioè rendere nuovamente presente . In questo senso, diciamo che l’Eucaristia “rappresenta” la croce.
Secondo la storia, c’è stata, dunque, una sola Eucaristia, quella realizzata da Gesù con la sua vita e la sua morte; secondo la liturgia, invece, cioè grazie al sacramento, ci sono tante Eucaristie quante se ne sono celebrate e se ne celebreranno fino alla fine del mondo. L’evento si è realizzato una sola volta (semel), il sacramento si realizza “ogni volta” (quotiescumque). Grazie al sacramento dell’Eucaristia noi diventiamo, misteriosamente, contemporanei dell’evento; l’evento si fa presente a noi e noi all’evento.
Le nostre riflessioni quaresimali avranno per oggetto l’Eucaristia nel suo stadio presente, cioè come sacramento. Nella Chiesa antica esisteva una catechesi speciale, detta mistagogica, che era riservata al vescovo e veniva impartita dopo, non prima, del battesimo. Il suo scopo era di rivelare ai neofiti il significato dei riti celebrati e le profondità dei misteri della fede: battesimo, cresima o unzione, e in particolare l’Eucaristia. Quello che ci proponiamo di fare è proprio una piccola catechesi mistagogica sull’Eucaristia. Per rimanere il più possibile ancorati alla natura sacramentale e rituale di essa, seguiremo da vicino lo svolgimento della Messa nelle sue tre parti – liturgia della parola, liturgia eucaristica, e comunione -, aggiungendo alla fine una riflessione sul culto eucaristico fuori della Messa.
Liturgia della parola
Nei primissimi giorni della Chiesa, la liturgia della Parola era distaccata dalla liturgia eucaristica. I discepoli, riferiscono gli Atti degli Apostoli, “ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il tempio”; lì ascoltavano la lettura della Bibbia, recitavano i salmi e le preghiere insieme con gli altri ebrei; facevano quello che si fa nella liturgia della Parola; quindi si riunivano a parte, nelle loro case, per “spezzare il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia (cf At 2, 46).
Ben presto però questa prassi divenne impossibile sia per l’ostilità nei loro confronti da parte delle autorità ebraiche, sia perché ormai le Scritture avevano acquistato per essi un senso nuovo, tutto orientato a Cristo. Fu così che anche l’ascolto della Scrittura si trasferì dal tempio e dalla sinagoga ai luoghi di culto cristiani, prendendo a poco a poco la fisionomia dell’attuale liturgia della Parola che precede la preghiera eucaristica. Nella descrizione della celebrazione eucaristica fatta da san Giustino nel II secolo, non solo la liturgia della Parola è parte integrante di essa, ma alle letture dell’Antico Testamento si sono affiancate ormai quelle che il santo chiama “le memorie degli apostoli”, cioè i Vangeli e le Lettere, in pratica il Nuovo Testamento .
Ascoltate nella liturgia, le letture bibliche acquistano un senso nuovo e più forte di quando sono lette in altri contesti. Non hanno tanto lo scopo di conoscere meglio la Bibbia, come quando la si legge a casa o in una scuola biblica, quanto quello di riconoscere colui che si fa presente nello spezzare il pane, di illuminare ogni volta un aspetto particolare del mistero che si sta per ricevere. Questo appare, in modo quasi programmatico, nell’episodio dei due discepoli di Emmaus. Fu ascoltando la spiegazione delle Scritture che il cuore dei discepoli cominciò a sciogliersi, sicché furono poi capaci di riconoscerlo “allo spezzare del pane” (Lc 24, 1 ss.). Quella di Gesú risorto fu la prima “liturgia della parola” nella storia della Chiesa!
Seconda caratteristica: nella Messa le parole e gli episodi della Bibbia non sono soltanto narrati, ma rivissuti; la memoria diventa realtà e presenza. Ciò che avvenne “in quel tempo”, avviene “in questo tempo”, “oggi” (hodie), come ama esprimersi la liturgia. Noi non siamo soltanto uditori della parola, ma interlocutori e attori in essa. È a noi, lì presenti, che è rivolta la parola; siamo chiamati a prendere noi il posto dei personaggi evocati.
Alcuni esempi aiuteranno a capire. Una volta si legge, nella prima lettura, l’episodio di Dio che parla a Mosè dal roveto ardente: noi siamo, nella Messa, davanti al vero roveto ardente… Un’altra volta si parla di Isaia che riceve sulle labbra il carbone ardente che lo purifica per la missione: noi stiamo per ricevere sulle labbra il vero carbone ardente, il fuoco che Gesú è venuto a portare sulla terra… Ezechiele è invitato a mangiare il rotolo degli oracoli profetici: noi ci apprestiamo a mangiare colui che è la parola stessa fatta carne e fatta pane.
La cosa diventa ancora più chiara se dall’Antico Testamento passiamo al Nuovo, dalla prima lettura al brano evangelico. La donna che soffriva di emorragia è sicura di essere guarita se riuscirà a toccare il lembo del mantello di Gesù: che dire di noi che stiamo per toccare ben più che il lembo del suo mantello? Una volta ascoltavo nel Vangelo l’episodio di Zaccheo e fui colpito dalla sua “attualità”. Ero io Zaccheo; erano rivolte a me le parole: “Oggi devo venire a casa tua”; era di me che si poteva dire: “È andato ad alloggiare da un peccatore!” ed era a me, dopo averlo ricevuto nella comunione, che Gesù diceva: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (cf Lc 19, 9).
Così di ogni singolo episodio evangelico. Come non identificarsi nella Messa con il paralitico al quale Gesù dice: “I tuoi peccati ti sono rimessi” e “Alzati e cammina” (cf Mc 2, 5.11); con Simeone che stringe tra le braccia il Bambino Gesù (cf Lc 2, 27-28); con Tommaso che tocca le sue piaghe (Gv 20, 27-28)? Nella seconda domenica del Tempo Ordinario del corrente ciclo liturgico c’è il brano evangelico in cui Gesú dice all’uomo dalla mano paralizzata: “Tendi la mano! Egli la tese e la sua mano fu guarita” (Mc 3,5). Noi non abbiamo la mano paralizzata; però abbiamo tutti, chi più chi meno, l’anima paralizzata, il cuore inaridito. È a chi ascolta che Gesú dice in quel momento: “Stendi la tua mano! Stendi il tuo cuore davanti a me, con la fede e la prontezza di quell’uomo.
La Scrittura proclamata durante la liturgia produce degli effetti che sono al di sopra di ogni spiegazione umana, alla maniera dei sacramenti che producono quello che significano. I testi divinamente ispirati hanno anche un potere di guarigione. Dopo la lettura del brano evangelico nella Messa, la liturgia invitava un tempo il ministro a baciare il libro dicendo: “Le parole del Vangelo cancellino i nostri peccati” (Per evangelica dicta deleantur nostra delicta).
Nel corso della storia della Chiesa eventi epocali sono accaduti come risultato dell’ascolto delle letture bibliche durante la Messa. Un giovane udì un giorno il brano evangelico dove Gesù dice a un giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo. Quindi vieni e seguimi” (cf Mt 19, 21). Capì che quella parola era rivolta a lui personalmente, perciò andò a casa, vendette tutto quello che aveva e si ritirò nel deserto. Il suo nome era Antonio, l’iniziatore del monachesimo. Molti secoli dopo, un altro giovane, da poco convertito, entrò in una chiesa con un suo compagno. Nel Vangelo del giorno Gesù diceva ai suoi discepoli: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche” (Lc 9, 3). Il giovane si voltò verso il suo compagno e disse: “Hai sentito? Questo è ciò che il Signore vuole che facciamo anche noi”. Cominciò così l’Ordine francescano.
La liturgia della Parola è la migliore risorsa che abbiamo per fare ogni volta, della Messa, una celebrazione nuova e attraente, evitando così il grande pericolo di una ripetizione monotona che specialmente i giovani trovano noiosa. Perché questo si realizzi, dobbiamo investire più tempo e preghiera nella preparazione dell’omelia. I fedeli dovrebbero poter capire che la parola di Dio tocca le situazioni reali della vita ed è l’unica ad avere risposte alle domande più serie dell’esistenza.
Ci sono due modi di preparare una omelia. Uno può sedersi a tavolino e scegliere il tema in base alle proprie esperienze e conoscenze; quindi, una volta preparato il testo, mettersi in ginocchio e chiedere a Dio di infondere lo Spirito nelle proprie parole. È una cosa buona, ma non è un modo profetico. Per essere profetici bisognerebbe seguire la via inversa: prima mettersi in ginocchio e chiedere a Dio qual è la parola che vuole far risuonare per il suo popolo.
Dio infatti ha una sua parola per ogni occasione e non manca di rivelarla al suo ministro che gliela chiede umilmente e con insistenza. All’inizio non si tratterà che di un piccolo moto del cuore, una lucina che si accende nella mente, una parola della Scrittura che attira l’attenzione e che getta luce su una situazione vissuta. Non si tratta, all’apparenza, che di un piccolo seme, ma contiene quello che la gente ha bisogno di ascoltare in quel momento.
Dopo ciò uno può sedersi a tavolino, aprire i propri libri, consultare appunti, raccogliere e ordinare i propri pensieri, consultare i Padri della Chiesa, i maestri, a volte i poeti; ma ora non è più la parola di Dio che è al servizio della tua cultura, ma la tua cultura a servizio della parola di Dio. Solo così la Parola manifesta il suo intrinseco potere.
L’opera dello Spirito Santo
Ma bisogna aggiungere una cosa: tutta l’attenzione data alla parola di Dio da sola non basta. Su di essa deve scendere “la forza dall’alto”. Nell’Eucaristia, l’azione dello Spirito Santo non è limitata soltanto al momento della consacrazione, all’epiclesi che si recita prima di essa. La sua presenza è ugualmente indispensabile per la liturgia della parola e, vedremo a suo tempo, anche per la comunione.
Lo Spirito Santo continua, nella Chiesa, l’azione del Risorto che, dopo la Pasqua, ”apriva la mente dei discepoli all’intelligenza delle Scritture” (cf. Lc 24,45). La Scrittura, dice la Dei Verbum del concilio Vaticano II, “deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta” . Nella liturgia della parola l’azione dello Spirito Santo si esercita mediante l’unzione spirituale presente in chi parla e in chi ascolta.
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4, 18).
Gesú ha indicato così da dove trae la sua forza la parola annunciata. Sarebbe un errore fare affidamento solo sull’unzione sacramentale che abbiamo ricevuto una volta per tutte nell’ordinazione sacerdotale o episcopale. Questa ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare e amministrare i sacramenti. Ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente qualcosa di quella autorità che le folle avvertivano quando parlava Gesù; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!
Ma se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Dobbiamo anzitutto partire da una certezza: “Noi abbiamo ricevuto l’unzione dal Santo”, ci assicura san Giovanni (1 Gv 2,20). Cioè, grazie al battesimo e alla cresima – e, per alcuni, l’ordinazione presbiterale o episcopale – noi possediamo già l’unzione. Anzi, secondo la dottrina cattolica, essa ha impresso nella nostra anima un carattere indelebile, come un marchio o un sigillo: “È Dio stesso –scrive l’Apostolo – che ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21-22).
Questa unzione però è come un unguento profumato racchiuso in un vaso: rimane inerte e non sprigiona alcun profumo se non si rompe e non si apre il vaso. Così avvenne del vasetto di alabastro rotto dalla donna del vangelo, il cui profumo riempì tutta la casa (Mc 14,3). Ecco dove si inserisce la parte nostra circa l’unzione. Essa non dipende da noi, ma dipende da noi rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’irradiazione. Non è difficile capire cosa significa per noi rompere il vaso di alabastro. Il vaso è la nostra umanità, il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa mettersi in stato di resa a Dio e di resistenza al mondo.
Non tutto, per nostra fortuna, è affidato allo sforzo ascetico. Molto può, in questo caso, la fede, la preghiera, l’umile implorazione. Chiedere dunque l’unzione prima di accingerci a una predicazione o un’azione importante a servizio del Regno. Mentre ci prepariamo alla lettura del vangelo e all’omelia, la liturgia ci fa chiedere al Signore di purificare il nostro cuore e le nostra labbra per poter annunciare degnamente il vangelo. Perché non dire qualche volta (o almeno pensare dentro di sé): “Ungi il mio cuore e la mia mente, Dio onnipotente, perché possa proclamare con la dolcezza e la potenza dello Spirito la tua parola”?
L’unzione non è necessaria solo ai predicatori per proclamare efficacemente la parola, lo è anche agli ascoltatori per accoglierla. L’evangelista Giovanni scriveva alla sua comunità: “Voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza… L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca” (1 Gv 2, 20.27). Non che sia inutile ogni ammaestramento esterno, ma esso, da solo, serve a ben poco. “E’ il maestro interiore –commenta sant’Agostino – colui che veramente istruisce; è Cristo con la sua ispirazione che insegna. Quando manca la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile strepito” .
Speriamo che anche oggi Cristo ci abbia istruito con la sua ispirazione interiore e il mio parlare non sia stato “un inutile strepito”.
1.Tommaso d’Aquino, S.Th., III, q.60, a. 2,2.
2.Agostino, Sermo 112 (PL 38, 643).
3.Paolo VI, Mysterium fidei (AAS 57, 1965, p. 753 ss).
4.Giustino, I Apologia, 67, 3-4
5.Dei Verbum, 12.
6.Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, 3, 13.